È passata alla storia con un nome noto ad ogni appassionato, “la fucilata di Goodwood”. Ma dietro alla vittoria di Beppe Saronni al Campionato del Mondo del 1982 c’è una lunga storia fatta di sconfitte brucianti, di rivalità ricucite, di grandi maestri, di compagni pazienti, di piani riusciti. A 40 anni di distanza, e in occasione della settimana in cui si assegnano le nuove maglie iridate, torniamo a vivere quella corsa attraverso il racconto di Marco Pastonesi, intervallato dai ricordi in prima persona del protagonista iridato.
Testo e interpretazione: Marco Pastonesi
Ospite: Beppe Saronni
Intervista: Filippo Cauz
Sound design: Brand&Soda
TESTO INTEGRALE DELLA PUNTATA
La fucilata scatta a 300 metri dall’arrivo. Le prime quindici pedalate in piedi sulla bicicletta. La fucilata sibila a 200 metri dall’arrivo. Quattro pedalate seduto in punta di sella. La fucilata echeggia a 150 metri dall’arrivo. Nel vuoto degli avversari, nel pieno degli spettatori. La fucilata va a segno già a 50 metri dall’arrivo. Le mani in alto, le braccia al cielo, i capelli al vento, il sorriso alla storia. La fucilata di domenica 5 settembre 1982. La fucilata dei Mondiali di ciclismo professionisti su strada. La fucilata mondiale di Beppe Saronni. La fucilata di Goodwood.
Eppure la fucilata di Goodwood non è quella di un giorno e non dura solo un giorno. Comincia più di un anno prima e non finirà mai. Comincia il giorno dopo i Mondiali di Praga, domenica 30 agosto 1981, tutto in un solo giorno (donne, dilettanti, cronosquadre dilettanti, professionisti), quando la spedizione italiana torna in patria. Il volo sull’aeroporto della Malpensa. Alfredo Martini, il commissario tecnico degli azzurri, deve recuperare la sua macchina, alla Volkswagen di San Vittore Olona. Con Martini c’è (ci sarà sempre) Franco Vita, autista e molto altro: da meccanico a collaboratore, custode, confidente, testimone, in una sola parola amico. Con senso di rispetto e spirito di fedeltà, dal primo momento in cui si sono legati all’ultimo istante in cui si sarebbero lasciati. Ma prima di infilarsi in autostrada, per una vecchia sana abitudine, i giornali. Vita accosta, scende, acquista. La Gazzetta dello Sport, il Corriere dello Sport, Stadio, Tuttosport. I quattro – era un primato, quello italiano – quotidiani sportivi. Mentre Vita riprende il volante, Martini considera, subito, le prime pagine. E riconsidera la foto dell’arrivo, dello sprint, della volata. Primo Freddy Maertens, il belga, secondo Giuseppe Saronni, l’azzurro, terzo Bernard Hinault, il francese. Martini nota come Saronni tenga le mani alte sul manubrio, non basse. Alte da scalatore, non basse da velocista. Alte offrendo più resistenza all’aria, e al tempo, e alla storia, e non basse sfuggendo, sottraendosi, incorporandosi. “Una pugnalata alla schiena – sospira Franco Vita, ripensando alla muta e sofferta espressione di Martini – gli sarebbe stata meno dolorosa”.
Goodwood. Letteralmente: il legno buono, il bosco buono. Goodwood è una località, la residenza di campagna per i duchi di Richmond. Qui, nel 1802, un ippodromo. Qui, dal 1901, un campo da golf. Qui, durante la Seconda guerra mondiale, un aeroporto. E qui, nel 1948, intorno all’aeroporto, un circuito automobilistico e motociclistico. Qui, a un centinaio di chilometri e un paio d’ore in macchina da Londra, la sede dei Mondiali di ciclismo del 1982. Dalla loro istituzione, a Copenaghen in Danimarca nel 1921, solo una volta i Mondiali di ciclismo sono stati ospitati nel Regno Unito: a Leicester, nel 1970 (e a Leicester, anche in questo 1982, si disputa la rassegna iridata su pista). Così questa è la seconda volta, in una sessantina d’anni, che il Regno Unito ospita i Mondiali.
Il circuito ciclistico di Goodwood è lungo una quindicina di chilometri, in parte ricavato nel circuito automobilistico e motociclistico, e ha l’altimetria di un’onda, con una salitella prima e dopo l’arrivo. In 3 chilometri si sale da quota 41 a quota 161 metri. Nei primi millecinquecento metri la pendenza è dolce: una media del 3 percento, con punte che non sfiorano neanche il 4 percento. Nella seconda metà, altri millecinquecento metri, la pendenza si fa più dura: una media del 6 percento, con punte che non superano il 7 percento. E qui, dopo una curva a destra e un’altra a sinistra, il traguardo. Poi si rimane in quota, con un falsopiano, finché la strada scende. Quella salitella è la chiave del percorso. Lo sa Martini, lo sanno tutti. Gli esperti definiscono quella salitella come “pedalabile”, termine indefinito, generico, vago. Una salitella da fare con il rapportone, quello da pianura. Solo così si può fare la differenza. Interpretando la salitella come se fosse un vialone piatto. Ingannandosi. Perché, sia chiaro, questo non è un muro, non è uno strappo, non è neppure uno zampellotto. E’ solo una salitella. E’ materia da velocisti, da passisti veloci, da scattisti, da finisseur. E’ materia per esplosivi e resistenti, resistenti nell’esplosività, esplosivi nella resistenza. E’ materia da Saronni. Gli inglesi prevedono un “uphill sprint”: letteralmente, una volata su per la collina. Comunque – data la distanza: 18 giri di un circuito lungo una quindicina di km, totale più di 275 km – questa corsa sarà sempre materia da fondisti.
La squadra italiana è ufficializzata dopo la Coppa Placci. I nostri avversari la chiamano “la Squadra”. Sul suo diario, Martini ha già scritto la storia. Così.
1 Gavazzi Pierino Atala
2 Amadori Marino Famcucine
3 Argentin Moreno Sammontana
4 Baronchelli G. Battista Bianchi-P.
5 Bombini Emanuele (R) Hoonved-B.
6 Ceruti Roberto Del Tongo
7 Chinetti Alfredo Inoxpran
8 Contini Silvano Bianchi-P.
9 Leali Bruno Inoxpran
10 Masciarelli Palmiro Famcucine
11 Moser Francesco Famcucine
12 Petito Giuseppe (R) Alfalum
13 Saronni Giuseppe Del Tongo
14 Torelli Claudio Famcucine
E poi il personale: meccanici, massaggiatori, medico e, per la prima vota, il responsabile del settore alimentare. Si chiama Sergio Chiesa e anche lui sarà prezioso per creare armonia, equilibrio, eleganza, rispetto. Dalla tavola alla bici, dal riposo all’agonismo, dalla cucina al ciclismo, non è poi così grande la distanza.
La Squadra è costruita su Moser e Saronni con Gavazzi possibile terza punta. Da campione italiano merita rispetto. Moser è il più antico dei corridori moderni, o forse il più moderno dei corridori antichi, e sarà anche, fra qualche anno, pur sempre da corridore contadino, il primo corridore scientifico e tecnologico. Ha, nelle sue caratteristiche, un vantaggio che è anche uno svantaggio: per vincere, deve arrivare da solo. Gli riesce a crono, ovviamente, ma anche in linea. E le vittorie per distacco, in solitudine, sono quelle più gloriose. E’ in forma, ma non in formissima. Ed è al suo nono Mondiale: vanta una vittoria (nel 1977 a San Cristobal, in Venezuela) e due secondi posti (a Ostuni nel 1976 e al Nurburgring nel 1978). E’ un gigante, un monumento, un campione. Lo chiamano “lo Sceriffo”: detta legge.
Saronni, lo scrive Mario Fossati (“Il Giorno” del 4 giugno 1979), “è una sintesi del corridore ciclista. Possiede uno scatto da velocista e un corredo tecnico da pistaiolo. Si inciglia quando occorre nelle ruote del plotone e sempre quando occorre se la fila con un’esplosione di americanista”. E ancora: “L’intelligenza di Saronni non è unicamente funzionale. Saronni non è cresciuto in fretta. E’ semplicemente milanese ed essere milanese o milanese dell’hinterland è una soda esperienza”. Aggiunge: “Fuori dalla corsa il suo cervello fila”. E chiosa: “Come Moser, Saronni pensa a voce alta”. Ragazzo-prodigio, sfrontato il giusto, non accetta sudditanze. Professionista a 19 anni, sembra già appartenere al futuro: l’origine metropolitana, la simbiosi (e l’osmosi) fra pista e strada, la guida di uomini geniali come Ernesto Colnago artista-industriale della bicicletta e collaudati come Carlo Chiappano laureato all’università della strada prima da corridore poi da direttore sportivo. Beppe è già al suo sesto Mondiale: il primo, quello vinto da Moser, lo ha corso da “stagista”, e ha chiuso nono, poi quarto, ottavo, ritirato e secondo. Una vocazione per i piani alti.
Il circuito di Goodwood si adatta più a Saronni che a Moser. Martini lo sa. E lo sa anche Moser. Ma Martini – come avrebbe confidato in una puntata di “Sfide” per Rai3: “Non erano due che andavano a prendere il caffè insieme” – fa grande opera di diplomazia. Tre gregari a Franz: Amadori, Masciarelli e Torelli. Uno solo a Beppe: Ceruti. Alla ricerca dell’equilibrio fra Moser e Saronni, Martini ha previsto anche un meccanico per Francesco e uno per Beppe, un massaggiatore per Francesco e uno per Beppe. Le due riserve, Bombini e Petito, vengono ufficializzate il 30 agosto. Martini è un maestro anche di buon senso: sono giovani, non vanno caricati di responsabilità e bruciati per inesperienza, avranno altre occasioni con la maglia azzurra. Un po’ di delusione, ovvio. Ma proteste, zero.
Moser e Saronni costituiscono l’ultimo grande dualismo del ciclismo. Girardengo e Binda, Binda e Guerra, Bartali e Coppi. Ma anche Anquetil e Poulidor, Gimondi e Merckx, Merckx e Ocana. Più diversi di così, Moser e Saronni, difficile immaginarli. Trentino, Moser, e lombardo (anche se nato in Piemonte, a Novara), Saronni. Obbligato a una corsa dispendiosa e generosa, Moser, e costretto a una corsa calibrata e astuta, Saronni. Più forte e resistente, Moser, più veloce ed esplosivo, Saronni. Più vecchio, Moser, sei anni (1951 contro 1957) valgono quasi una generazione. E a questo punto 31 anni, Moser, e neppure 25 Saronni. Differenze nate subito. Di una civiltà contadina, meleti e vigneti, Moser, e di una industriale, calzaturifici, Saronni. Comunque appartenenti a due famiglie innamorate del ciclismo. Una rivalità vera, quella fra Moser e Saronni: autentica, genuina, istintiva, rusticana. Una rivalità che contrappone il tifo, separa gli spettatori, divide perfino giornalisti e fotografi.
Sul suo diario Martini precisa il “Programma”.
Partenza per l’Inghilterra
Partenza da Milano giorno 31 ore 9.35 volo AZ 458 dalla Malpensa arrivo a Londra
Partenza pullman per Goodwood
Giovedì 2 settembre
Preparazione con alcuni giri del circuito
Decidere per i rapporti
Venerdì 3 settembre
Preparazione con alcuni giri del circuito
Domenica 5 settembre
Goodwood – campionato del mondo
Hotel: Avisford Park Hotel Ltd
Walberton Arundel, West Sussex
Tel. Yapton 551215 STD Code 0243
Prima di partire per l’Inghilterra, Saronni ascolta un richiamo del cuore. E va a trovare Carlo Chiappano. E’ il suo direttore sportivo, anzi, era il suo direttore sportivo. Morto in un incidente stradale, il 7 luglio 1982, dalle parti di Casei Gerola. Sarebbe passato da Colnago, a Cambiago, poi sarebbe andato da Saronni, nel Varesotto, invece quel tragico incontro con il destino. Saronni: “Un colpo terribile. Il mio maestro, anche un amico di famiglia. Un giorno, senza dire niente a nessuno, vado alla sua tomba. E lì, davanti a lui, sento di poter vincere il Mondiale, sento di vincerlo, per me, per lui, per noi”. Di questa visita si saprà solo molto tempo dopo.
Nell’Avisford Park Hotel, Saronni è in camera con Ceruti, Moser con Masciarelli. Due gregari – Ceruti e Masciarelli – per custodire segreti, alleggerire tensioni, individuare strategie. Venerdì sera, a 36 ore dal pronti-via, nel segreto della loro camera, Moser e Masciarelli si confrontano. Se aiutiamo Saronni, lo sanno e se lo dicono, lui vince e noi perdiamo lo sponsor. Famcucine contro Del Tongo: guerra, duello, derby, sfida concorrenziale nell’ambito delle cucine componibili. Ma se non lo aiutiamo, lo sanno e se lo dicono, lui non vince e noi facciamo una figuraccia. Tutti quanti: Moser e Masciarelli, e tutti gli azzurri, Martini e i suoi collaboratori, il ciclismo italiano, altro che le notti mondiali del calcio. Masciarelli ricorda ancora quando alla porta della camera bussa Di Rocco. Non è momento da grandi giri di parole. Di Rocco, che per Martini e l’Italia si prodiga anche lui in un’opera diplomatica, domanda quali intenzioni abbiano. I due gli rispondono, all’unisono: se noi aiutiamo Saronni, lui vince, e se Saronni vince, noi perdiamo lo sponsor. Di Rocco li rassicura, qualcosa si farà, lui ha buone conoscenze, come Giovanni Giunco, mecenate del basket a Roseto degli Abruzzi, a Giulianova dirige la Gis Gelati, chissà, indagherà, chiederà, proverà. Forse per patriottismo, o forse tranquillizzato dalla mediazione di Di Rocco, Moser decide di aiutare Saronni. E Masciarelli, uomo-squadra, farà da collegamento, da interprete, da trait d’union. Perché i due, quei due, Moser e Saronni, continuano a ignorarsi, a evitarsi, a non parlarsi. Al momento opportuno, Masciarelli prende da parte Saronni e gli dice: se vuoi vincere il Mondiale, devi rischiare di perderlo. Gli ricorda, come se ce ne fosse bisogno, quello che è successo a Praga, e lo ammonisce: non correre dietro a tutti, non sprecare una pedalata. Gli impone la strategia: non ti muovere fino agli ultimi due giri, poi vedrai che la squadra ti aiuterà in tutto e per tutto. E Saronni si convince. Sapere di non avere Moser contro è un vantaggio, sapere di averlo con è un doppio vantaggio.
Gli avversari, e a indicarli non è soltanto Martini, si chiamano Bernard Hinault, francese, Greg LeMond, statunitense, e Sean Kelly, irlandese. Poi gli irlandesi. Fa meno paura il campione uscente, Freddy Martens, belga. Maertens è stato il nostro castigatore: mondiale nel 1976, su Moser, e mondiale nel 1981, su Saronni. Maertens si aggrega alla squadra dei belgi a Mondiali in corso, un paio di giorni prima della prova iridata, si dichiara in forma, ma non lo è, i compagni lo accettano, ma non lo accolgono.
La mattina del Mondiale, a colazione, anche lo chef-gastronomo-cuoco-albergatore Chiesa avverte la pressione e concede qualcosa alla tradizione invocata da Martini: prepara riso in bianco, filetto di vitello, spinaci con olio extravergine e parmigiano-reggiano grattugiato, caffè. Tuti già concentrati sulla volata perfetta. Un progetto, un obiettivo, un dogma. Tutti gli azzurri sanno che è indispensabile la volata perfetta.
Intanto Martini ha radiografato il circuito e organizzato la corsa. Tre i box: uno all’arrivo, gli altri due lungo il percorso, ma solo all’arrivo i corridori possono prendere borracce. Tre i box, dunque, tre gli uomini a presidiare quei punti fissi come sentinelle e come spie. Siccome non esistono telefonini né auricolari, Martini s’inventa un nazionalpopolare telefono senza fili: altri tre uomini (lungo il percorso per studiare le facce, captare gli sguardi, riferire impressioni in un collegamento con i “walkie-talkie”, le radio ricetrasmittenti. E non è tutto: ogni volta che s’imbocca il circuito automobilistico, Marino Vigna accosta l’ammiraglia, Martini ne scende, osserva personalmente gli azzurri e il gruppo, sente l’atmosfera, annusa l’aria, forse interroga – com’è sua abitudine – il tempo, scarpina per due-trecento metri, quindi si fa riprendere da Vigna al nuovo passaggio. Non è solo con la corsa, Martini, ma nella corsa, dentro la corsa. La vive, la respira e – a suo modo – la corre. A proposito: la delegazione italiana ha già anche ottenuto una piccola ma significativa e pratica vittoria: le auto al seguito della corsa tengono la destra, come in Europa, e non la sinistra, come nel Regno Unito.
Ed eccoci. Domenica 5 settembre. Cielo inglese. Tempo variabile. Sole, pioggia, nuvole, vento, caldo, umido, fresco. Ventimila, forse trentamila spettatori lungo il percorso. Camper, roulotte, auto. La zona della partenza. I corridori. Centoquarantuno iscritti, centotrentasei partenti, per venti nazioni. Saronni si è spillato il dorsale 96. Lo “starter” è Jimmy Kain, ha 98 anni, li porta con leggerezza, ed è stato un pioniere del ciclismo in Inghilterra. Ore 10. Pronti. Via. Il primo giro è di studio. Al secondo giro va in fuga, da solo, Bernard Vallet. Ventotto anni, francese, guadagna tempo e spazio, centinaia di metri e manciate di minuti, saranno al massimo 6’15” al sesto giro, quando Hinault accosta, si ferma, scende dalla bici, sale su un’altra bici e rientra in gruppo. Chissà se, forse scosso proprio da questa sostituzione, il gruppo alza la velocità e si avvicina al fuggitivo.
Gli azzurri controllano la corsa. C’è sempre qualcuno in testa al gruppo e c’è sempre qualcuno vicino a Moser e a Saronni. Moser e Saronni, finché possono, devono salvare la gamba, risparmiare le energie, conservare le forze. La corsa è economia, e anche ragioneria, non solo agonismo. La corsa inanella giri, trattiene emozioni, misura sentimenti. La cronaca è minima. E l’attesa s’ingigantisce. Lungo il percorso ci sono anche i nostri dilettanti e le nostre donne diventati spettatori.
All’ottavo giro si ferma Freddy Maertens. Vuoto, si è spento. Il re è nudo. Intanto, davanti, ci prova Tommy Prim. Ventisette anni, svedese, abita nel Bergamasco, corre per la Bianchi, è arrivato quarto al Giro d’Italia del 1980, secondo a quelli del 1981 e del 1982. Dietro, si ferma Hinault, ma stavolta quando scende dalla bici, non risale, si ferma e abbandona, abbandona e spiega che non è giornata. E’ l’undicesimo dei 18 giri. Martini tira un sospiro di sollievo: un pericolo in meno. Intanto, davanti, Vallet è stato al vento per 140 chilometri, e adesso il vento lo divide con Prim, un minuto sul gruppo. Hinault, il vento, un vento gelido e pesante, ce l’avrà invece dentro, senza sapere neanche il perché, certe giornate sono storte e basta. Vallet si esaurisce e al dodicesimo giro Prim, rimasto da solo, viene catturato e si ritira. Al quattordicesimo giro allunga Serge Demierre, svizzero di Ginevra. A quattro giri e una sessantina di chilometri dall’arrivo, la corsa entra nel vivo. I gregarioni italiani presidiano la testa del gruppo. Si ferma il primo degli azzurri: Leali. Ci sta. Ha dato. A tre giri e più o meno 44 chilometri dall’arrivo, in discesa allunga Moser: il primo dei favoriti a muoversi. “Lo Sceriffo” fa la prima selezione. L’andatura regolare ha mascherato la stanchezza e prolungato l’autonomia. Ma adesso la corsa esplode, il gruppo si allunga, si ricompone, finché si spezza, si frattura, si frantuma. Chi c’è, c’è. Fra chi non c’è, l’olandese Gerrie Knetemann, che proprio a Moser ha scippato il Mondiale del 1978 disputato in Germania lungo un altro circuito automobilistico e motociclistico, il Nurburgring, ma non ci sono neanche Argentin e Contini. Gli altri azzurri resistono. Ceruti è sempre l’ombra di Saronni, scivolato in coda al plotone. I due vengono affiancati dall’ammiraglia. Martini non si rivolge mai direttamente a Saronni, forse per non disturbarlo, forse per non deconcentrarlo, ma passa sempre attraverso Ceruti. Come sta?, gli domanda Martini. Bene, lo rassicura Ceruti. Perché siete in coda?, insiste Martini. E senza aspettare la mia risposta, aggiunge: manca poco. Ceruti e Saronni rimontano.
A due giri e una trentina di chilometri dall’arrivo, il gioco si fa duro. I francesi sono stati ghigliottinati del loro capitano Hinault, i belgi orfani di Maertens sembrano divisi dalle rivalità campanilistiche, gli olandesi appaiono come i più convinti e organizzati, si temono avversari incomodi e scomodi come gli spagnoli e gli statunitensi. Tentano la sorte gli arancioni d’Olanda Theo De Rooy, Hennie Kuiper e il più temuto di tutti, Jan Raas. Se gli olandesi attaccano, gli italiani difendono. Un catenaccio ciclistico. Davanti, Chinetti si prodiga. La vita del gregario può assomigliare alla vita del mediano. Un lavoro di spola e di servizio, oscuro e sporco. Nelle parole di Gian Paolo Ormezzano: “Il ciclismo è la fatica più sporca addosso alla gente più pulita”.
A un giro e una quindicina di chilometri dall’arrivo, un uomo solo al comando, ma di poco e per poco, lo spagnolo Marino Lejarreta, basco, soprannominato “il giunco di Bérriz”. Ma il gruppo tiene Lejarreta, come si dice, a bagnomaria: lo vede, lo controlla, lo lascia cuocere. Stavolta gli azzurri sono fratelli d’Italia. Masciarelli ha promesso che negli ultimi due giri la Nazionale sarebbe stata intorno, accanto, unita per Saronni. Così è. E così sarà.
Saronni ha resistito alla promessa di non sprecare energie, ma adesso non resiste alla tentazione di provarsi. E sulla salitella salta sui pedali e si specchia. Uno-due, uno-due, uno-due. La gamba c’è. In quelle tre pedalate sente il motore rombare, la bici schizzare, gli avversari trasecolare. Si ferma. Basta così. C’è.
L’ultimo giro è ancora attesa. Più snervante, più spasmodica. A 2 chilometri dall’arrivo Saronni è, più o meno, da solo. Fino a questo punto Moser e compagni lo hanno tenuto al coperto. Ma adesso, concluso il lavoro, all’andatura che sale, al ritmo che si impenna, agli scatti che si moltiplicano, gli azzurri si sfilano.
Ai piedi della salitella scatta ancora Lejarreta. Irriducibile e orgoglioso come un basco. Guadagna qualche metro. Chinetti, per istinto, ormai per abitudine, si alza sui pedali. Ma ha le gambe dure e si fa da parte. Adesso il gruppo, davanti, è frazionato. Per scattare è troppo presto. Saronni decide di continuare con il suo passo. E con il suo passo, riprende e salta chi lo precede. L’ultimo, da solo, davanti, è l’americano Boyer. E’ scattato a ottocento metri dall’arrivo, forse meno. Ha ancora una cinquantina di metri di vantaggio. Ma la sua azione si appesantisce, la sua bici oscilla, e lui s’ingobbisce. Dietro c’è l’olandese Johan Van der Velde, poi anche LeMond. E’ a questo punto che la corsa di Saronni non è più di attesa. E’ qui che comincia la sua volata perfetta.
La fucilata scatta a 300 metri dall’arrivo. Le prime quindici pedalate in piedi sulla bicicletta. La fucilata sibila a 200 metri dall’arrivo. Quattro pedalate seduto in punta di sella. La fucilata echeggia a 150 metri dall’arrivo. Nel vuoto degli avversari, nel pieno degli spettatori. La fucilata va a segno già a 50 metri dall’arrivo. Le mani in alto, le braccia al cielo, i capelli al vento, il sorriso alla storia. La fucilata di Goodwood.
Adriano De Zan, in diretta tv (Rai), emula quello che Nando Martellini ha fatto per gli azzurri per la terza volta mondiali nel calcio, ma personalizzandolo: “Saronni campione del mondo! Saronni campione del mondo! Saronni campione del mondo!”.
Primo, Saronni: 6h, 42’22”, a 41,022 km/h. Secondo, a 5”, LeMond. Terzo, a 7”, Kelly. Con lo stesso distacco seguono l’olandese Zoetemelk, Lejarreta, il belga Pollentier, lo spagnolo Fernandez, il tedesco Thaler. Nono è Gavazzi. Decimo Boyer. Moser è ventiseiesimo a 23”. Masciarelli e Ceruti arrivano insieme, trentaseiesimo e trentasettesimo a 1’39”. Argentin è quarantasettesino a 6’. L’ultimo è l’australiano Shane Sutton, a 20’22”. Cinquantacinque arrivati su centotrentasei partiti.
A chi andrebbero i diritti d’autore dell’espressione “la fucilata di Goodwood”? A Fulvio Astori. E’ lui, sul “Corriere della Sera”, il primo a consegnare la fucilata alla storia: “Alla destra dei due, come una fucilata, scatta Saronni con un rapportone irresistibile. Sembra un sasso lanciato da una fionda”. Martini, nel suo libro “Un secolo di ciclismo”, è definitivo: “Uno sprint come quello che fece Saronni, sulla rampa di Goodwood, non l’ho mai visto fare da nessuno”. E ancora: “Quella progressione negli ultimi 200 metri fu sorprendente, credo che sia uno dei gesti atletici più belli nella storia del ciclismo”.
E Saronni? Saronni ha il dono della leggerezza. Per sdrammatizzare, racconta come, dopo il traguardo, esca dolorosamente dallo stato di grazia per colpa di un terribile mal di piedi. Si è stretto i piedi nelle scarpe e le scarpe e nelle gabbiette dei pedali per cercare la massima aderenza e non disperdere energie. Ma stretti così tanto, da non far quasi circolare più il sangue. Così slaccia i cinghietti, estrae le scarpe dalle gabbiette, mette i piedi a terra. Intanto viene circondato dal servizio d’ordine, quello dei ‘policemen’, i poliziotti inglesi. Sei o sette energumeni, grandi e grossi. Lui piccolo, e ancora contratto nello sforzo, rannicchiato nella volata. Loro alti due metri. Lo proteggono, lo custodiscono, gli fanno ombra. Se Saronni alza lo sguardo, vede un pezzo di cielo. Se guarda in basso, vede le loro scarpe, sono scarponi neri, lunghi come pinne, numero – minimo – 50. Insieme camminano verso il traguardo, il podio, il palco. La gente si accalca, si addensa, spinge. I poliziotti si stringono e stringono Saronni. Finché uno di loro, involontariamente, con quel suo scarpone nero e quel suo peso da rugbista gli pesta il piede, quello destro, proprio quello che più gli duole. Saronni urla. La gente forse pensa che sia un urlo di felicità o di liberazione. E’ invece un urlo di dolore. Istintivamente, Saronni si toglie tutte e due le scarpe e rimane con i calzini bianchi. E sul podio iridato sarà immortalato così.