Partiamo da qui. Partiamo da quel giorno del 1924 in cui Alfonsina Strada si presentò alla sede de “La Gazzetta dello Sport” chiedendo di poter partecipare al Giro d’Italia. Strada aveva già ricevuto tre rifiuti ma in quell’anno la richiesta venne accettata nonostante la contrarietà di alcuni organizzatori che temevano che questa scelta potesse finire per caratterizzare il Giro come una pagliacciata. La ragione del cambio di rotta fu di natura molto pragmatica: molti atleti avevano disertato la corsa, fra gli altri Girardengo e Bottecchia, e quel Giro d’Italia rischiava di avere una lista di partenti decisamente povera. Allora Alfonsina Strada era un “buon espediente” per alzare le luci sulla corsa. Solo quello, non illudiamoci. Tanto più che nelle liste ufficiali degli iscritti il nome venne riportato variato: chi scrisse Alfonsin Strada e chi, senza remore, Alfonsino Strada.
Perché siamo partiti da qui? Per un motivo molto semplice. Tempo fa, raccontando questa vicenda e sottolineando i grossi passi da fare per l’emancipazione femminile, qualcuno alzò la mano e ci disse: «Sono passati quasi cent’anni. Non vorremo fare paragoni?». Quel gentil signore suscitò in noi una riflessione. Ed è vero, le cose sono cambiate. C’è però un problema: sono cambiate, migliorate, senza dubbio, ma non si sono completamente aggiustate. In quel tempo, che non è nemmeno così remoto, almeno si agiva in determinati modi con la consapevolezza dei fini delle proprie azioni, fini spregevoli sia chiaro, oggi invece si agisce senza più la consapevolezza delle discriminazioni di genere che alcuni pongono in essere ed anzi talvolta con la fierezza di chi quella parità di genere la ha raggiunta. O ancor peggio, per gli uomini, di chi quella parità la “permette”, come se le donne dovessero attendere il cenno del capo di un uomo per sentirsi libere o per agire. I comportamenti sono, forse, meno gravi. Quello che invece resta grave è l’inconsapevolezza. Già, perché, in fondo, non c’è nulla di peggio di questo.
Raccontare la storia di Alfonsina Strada assume un senso particolare se quel racconto può, in qualche modo, cambiare la nostra realtà quotidiana. Come? Per esempio attraverso l’acquisizione di qualche consapevolezza che ancora ci manca e che può aiutarci a smascherare ogni “concessione” travestita da parità di genere, ogni comportamento che, sotto sotto, bercia al maschilismo fingendo buone intenzione, ogni dettaglio, ma forse neanche troppo dettaglio, che fa la differenza quando si parla di donne.
Serve raccontare, per esempio, di come Alfonsina iniziò ad andare in bicicletta, su un mezzo definito “ai limiti del rottame” perché le famiglie privilegiavano i maschi, perché anche il ciclismo privilegiava i maschi. Di quella discriminazione, piccola agli occhi dei contemporanei, perché “cosa vuoi che sia? Una ragazza può fare altro”, di tutto quello che avrebbe potuto togliere ad Alfonsina Strada e di tutto quello che sicuramente ha tolto a tante altre ragazze che avevano sogni simili a quelli di Alfonsina.
È bello raccontare la fatica che Alfonsina Strada dovette fare per convincere gli organizzatori e per partecipare al Giro di Lombardia nel 1917. Arrivò ultima, a più di un’ora e mezza dal vincitore, ma arrivò. Serve raccontarlo perché, se al posto di Strada, ci fosse stata un’altra donna, se quella donna si fosse arresa all’idea degli uomini, probabilmente la nostra quotidianità sarebbe infinitamente diversa. Alfonsina Strada non lo fece. Alfonsina Strada che a quel Giro, quello a cui non la volevano, quello a cui la fecero passare per un maschio, lottò ad armi pari con gli uomini per otto tappe e cedette solo a una caduta e a dolori per cui molti si sarebbero ritirati. Lei venne mantenuta in corsa, pur se non in gara, e al Guerin Sportivo dichiarò: «Sono una donna, è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa, una donna che corre in bicicletta. Vede come sono ridotta? Non sono mai stata bella; ora sono un mostro. Ma che dovevo fare? La puttana? Ho un marito al manicomio che devo aiutare; ho una bimba al collegio che mi costa dieci lire al giorno. Ad Aquila avevo raggranellato cinquecento lire che spedii subito e che mi servirono per mettere a posto tante cose. Ho le gambe buone, i pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo. Non sono pentita. Ho avuto delle amarezze, qualcuno mi ha schernita; ma io sono soddisfatta e so di avere fatto bene». Spediva ogni vaglia al marito e alla figlia e andava avanti, nonostante tutto, perché sapeva di aver fatto bene.
Una recente ricerca di Cyclist Alliance evidenzia dati allarmanti rispetto alla situazione del ciclismo femminile: il numero di atlete con uno stipendio pari a zero euro è aumentato dal 17% nel 2019 al 25% nel 2020. A seguito della pandemia da Covid-19, il 29% delle atlete ha subito una riduzione dello stipendio. Più di cento ragazze hanno partecipato al sondaggio ed il 43% di loro ha affermato di aver rimborsato la propria squadra per attrezzature, assistenza medica, assistenza meccanica e costi di viaggio. Il 33% è costretta a svolgere un secondo lavoro per mantenersi.
Tutte ragazze che continuano a svolgere il proprio lavoro al meglio. Ragazze che fanno bene e che la bicicletta, nonostante tutto, fa stare bene. Per quanto tempo sarà ancora possibile tutto questo? Quanti anni dovranno ancora passare? Conviene sbrigarsi. Anche le storie più importanti rischiano di essere inutili se si continua a fingere di non sentirle.