Dipende da che parti guardi.
Il Lombardia, intendo.
Vado a spiegare.

Dall’alto, a volo di drone, vedi tutto più ampio, ma appiattito.
Partenza da quel ramo sul lago di Como. Arrivo a Bergamo, vicino le Mure veneziane e non bergamasche perché – se ve lo state chiedendo – nel ‘500 la città apparteneva a quella Repubblica.
È la Classica Monumento con più dislivello. Un su e giù di 4.400 metri spalmati in oltre 200 km e
6 ore di fatica. Roba per tipi tosti, roba da Pro, insomma.
Dall’alto, dicevamo, tutta la fatica si azzera, ma ti perdi i dettagli.
Dei colori rinunci alle sfumature.
Se sei più vicino, fra il pubblico nell’ultima grande salita – il Passo di Ganda – noti un sacco di cose. Sfiori un sacco di storie.
Voglio dire: uno spettacolo nello spettacolo.

Pubblico da Sanremo – non quello del festival – certo di assistere a un grande show, perché prima di vederle, certe gare, le senti.
Come la carrellata di un film vedi una famiglia tedesca in camper – con bassotto al seguito – e bambino nel passeggino che dorme nonostante il frastuono.
Poco importa se erano lì per caso, i tedeschi, perché sprizzeranno entusiasmo come tutti gli altri al passaggio dei corridori.
Poi noti un anziano, bastone e cappellino, che con la testa vorrebbe rivedere Coppi – che il Lombardia lo vinse 5 volte – e con il resto del corpo corrergli dietro.
Lui che appartiene a quel tempo in cui le corse partivano piano e il mondo era più lento.
C’è anche un ragazzino dietro una montatura spessa, occhi da Bamby e sorriso da Alladin, ma con l’apparecchio. Cartello in mano con richiesta di borraccia, cimelio impossibile da ricevere in quel tratto di strada. Sull’asfalto Merçi Pinot.
Accanto a lui un tipo smilzo, sguardo rapace, tale Edoardo detto Edooo.
Mangia unghie e pane e qualcosa.
Fà il mulettista, scopro. Di fianco la piacente fidanzata bionda innaturale, unghia fluo.
Complici, compartecipi.
E infine, quando meno te l’aspetti, ecco il miracolo.
Ester, di sette anni, quasi otto.
Dapprima tutta salti e piroette, poi ferma, immobile.
Apre un tubetto di plastica, soffia lentamente e crea bolle di sapone. Proprio lì, in quel posto!
Ti sembra di ascoltare l’eco del Big Bang, il sussurro dell’anima.
La nascita dello Stupore.

In breve, è stata una di quelle giornate che se ti chiedono a bruciapelo com’è andata dici una figata, anche se ci sono gare più importanti per cui esaltarsi.
La cronaca la conosciamo: macht con tre papabili e tu che non sai da che parte stare.
O fingi di non saperlo.
Il Messi della situazione è un certo Tadej Pogacar, dorsale numero 1. Il pifferaio magico sloveno che ipnotizza e tu lì a chiederti come fa’.
Sta di fatto che lui regala la confortante sensazione di vedere all’opera un virtuoso della bicicletta. Un giovane Mozart che fa gli sberleffi al mondo del ciclismo moderno con più leggerezza del compositore.
Parte in discesa dopo il Ganda e conquista la vittoria numero 17 in stagione, nonostante i crampi.
Il Jumbo Jet Roglic non vola come al Giro e arriva terzo a 52” dal vincitore.
Infine il terzo favorito Evenepoel che vola a terra a inizio gara e finisce nono.
Secondo arrivato? Andrea Bagioli, colpo di reni e un italiano fra i grandi!

Comunque, sarà per via di quel nome, la classica delle foglie morte, ma al termine della gara, è rimasto un non-so-cosa dentro. Una specie di malinconia da fine calendario World Tour.
Il giorno successivo in scena gli amatori nel loro completino ultimo grido e pancetta ultimo chilo.
Appena 109 km di imitazione e prima salita dopo soli 22, il Muro di Sormano.
Una mulattiera, un’enorme V al contrario, che ti arriva addosso. Un muro, appunto.
Sogneranno di pedalare fra due ali di folla per volare via dalla routine.
Sogneranno di volare via.
Come bolle di sapone.
Come quelle di Ester.
Impronte che svaniscono nel cielo.

Foto: Sprint Cycling Agency