Ai tempi di Sergio Rossignoli, Milano era completamente diversa. I negozi, allora situati nel centro-sud della città, vennero distrutti dalle bombe della guerra mondiale, ma anche Corso Garibaldi, dove trovò casa “Biciclette Rossignoli”, non aveva nulla a che fare con quel che si vede oggi, mentre ci si accosta alla vetrina. «Non c’era tutto questo sbrilluccicare. Ai nostri giorni, Corso Garibaldi è un’isola felice, di una felicità anche finta, se vogliamo, è una via di miliardari, di privilegiati. Quando ero piccolo io e vivevo qui, era quasi una strada della rive gauche di Milano. Si vedevano prostitute ed alcolizzati. Si sapeva che da queste parti c’era il covo degli anarchici e la casa di Pietro Valpreda. Certo, questa è la nostra strada, quella da cui proveniamo e non lo scordiamo nemmeno per un secondo, tenendo sempre presente che è una strada di fatica, sacrifici, grosse difficoltà, non un eterno presente del privilegio»: a parlare è Matia Bonato, nipote di Sergio Rossignoli, eppure, pur non avendolo conosciuto, siamo subito convinti che parole simili avrebbe potuto pronunciarle anche Sergio.

Lui che capiva a vista d’occhio se un telaio fosse dritto o storto. Quel vecchio telaista che, tanti anni fa, scaricò una cinquantina di telai nel cortile di Rossignoli potrebbe ben raccontarlo. Sì, perché Sergio, prendendone uno in mano, lo ammonì con uno sguardo: «Quei telai sono tutti storti». Il telaista contestò, ma il signor Rossignoli, con la dima, confermò quell’impressione «e lo cacciò “a pedate”, facendogli portare via pure tutti i telai». Lui che considerava i meccanici parte della famiglia e a molti comprò casa. Lui che, forse, non aveva la classica dolcezza dei nonni, ma a Matia ha insegnato le cose più importanti: «Poteva esserci un copertone da mettere o due viti da sistemare nel divano della casa in montagna e lo sentivi che mi chiamava: “Ue’ nani, sù, vegn qui a darmi una mano!”. Era andato a lavorare giovanissimo: dormiva spesso in officina, perché c’era tanto lavoro da fare e poco tempo per farlo. Un uomo molto affezionato alla sua creatura, sempre presente nel momento del bisogno della famiglia. Autorevole, autoritario. Tutti gli davano del lei per il rispetto che suscitava».

Sergio Rossignoli è stato a capo di Rossignoli fino agli anni ottanta: andava spesso in bicicletta, anche in città, e delle biciclette si prendeva cura come fanno i meccanici perché era un meccanico. Matia Bonato ha ancora oggi presente la bellissima Rossignoli, con telaio Alan, su cui pedalava: la puliva attentamente, registrava il cambio e prima di uscire si vestiva da ciclista. «Portava la camera d’aria, ma non la borraccia. Diceva che bere, in bicicletta, fa male. Per i suoi ottant’anni, i miei diciotto, facemmo un giro assieme. Negli ultimi tempi, portò quella bicicletta, quasi a custodirla, nella sua casa in collina, in Val d’Intelvi. Mi è rimasta la cura nel parlare di bici e nell’aver a che fare con le bici che aveva lui». La storia racconta che Matia arriva in Rossignoli circa dodici anni fa, nel 2011, proprio quando manca il nonno ed il negozio attraversa un periodo difficile. Lascia il suo precedente lavoro e sceglie di proseguire la via tracciata dal nonno, non senza timori, non senza preoccupazioni: «Il primo concetto con cui mi sono trovato a fare i conti è quello di responsabilità, o meglio, di una responsabilità diversa da quella che si sperimenta da dipendente. In un’attività di questo tipo, ci sono persone che arrivano alle sette del mattino in officina, a lavorare, che magari hanno un mutuo, dei bambini piccoli e tu devi pensare a loro, è un dovere morale. Ho vissuto almeno un paio di momenti davvero complessi qui ed il nostro stipendio era l’ultimo ad essere pagato. Non è facile». Eppure Matia, insieme a Giovanna, Renato e Giorgio, della vecchia generazione, e a Matteo, suo cugino, continua a lavorare in negozio: è orgoglioso di essere l’unico Bonato insieme a tanti Rossignoli e ci scherza sopra. Quando gli chiediamo come si gestiscano le altre difficoltà del suo lavoro, la risposta, già dal tono, ridimensiona tutto: «Credo sia evidente ai più che cosa facciamo. Non operiamo a cuore aperto, non curiamo bambini gravemente malati: sì, è un lavoro ed in tutti i lavori ci sono cose difficili, ma una volta che si ha chiaro questo, si capisce che, bene o male, è tutto alla nostra portata».

Quando si entra da Rossignoli e si sente l’odore di gomma, di muri leggermente scrostati, è impossibile non pensare alla storicità, non artefatta, del luogo e a tutta la strada fatta. Si avverte subito la bicicletta vissuta come mezzo: per andare al lavoro ed anche per “sbarcare il lunario”, il che apre tutto un discorso sulla professionalità e sulla cultura che, ci spiega Bonato, sono sempre più necessarie nel mondo del ciclismo: «Rossignoli è anche storia, ma non solo storia. La storia va di pari passo con la modernità: ogni giorno arrivano da noi biciclette di altissimo livello e voglio che i nostri meccanici sappiano trattarle. Siamo anche il negozio del freno a mazzetta e dell’anziana sciura milanese, però non solo. I miei figli sono nati al Buzzi e quando mi è stato chiesto se fossi tranquillo, ho risposto: “Sì, perché lì fanno nascere bambini come da noi si cambiano le camere d’aria”. Parlavo di casistica e competenza. Mi piace pensare che chi viene da noi abbia lo stesso pensiero, la stessa fiducia». Già, i meccanici ed il loro “posto sincero”: «Sì, perché come tutti i meccanici sono scontrosi, poco amici dei santi, litigano tra loro, usano le mani per lavorare, si tagliano, si fanno male, conoscono la teoria e l’empirismo che la manualità porta». Quel male alle mani, per giorni e giorni, Matia Bonato lo conosce bene: l’ha provato a marzo, quando ha scelto di montare lui copertoni e camera d’aria sulla sua bicicletta e, dopo quaranta minuti, ne è uscito con le mani distrutte. Quel giorno, ha ripensato a una massima del dialetto milanese, in cui si riconosce: “Ofelè fa el to mesté!”. Ovvero alla necessità che ognuno faccia il proprio, in ogni campo.

È la realtà di ogni negozio, di ogni luogo in cui le persone si alzano all’alba per iniziare a lavorare, in cui qualcuno porta dentro e fuori quaranta, cinquanta biciclette al giorno, si confronta, parla, ascolta, cerca di capire. E questa consapevolezza, aggiunge Bonato, è il motore per decidere di fare rete, di fare squadra: mentre l’e-commerce che è sempre più importante, un fenomeno con cui non si può competere, può spazzarti via. Mentre la specializzazione, l’iperspecializzazione, ti lascia indietro se non studi, se non ti aggiorni e la bicicletta è cambiata tantissimo, da quella prima gravel, «che sembrava una bici da corsa, ma col passaggio più ampio e le gomme tassellate», che Matia vide e di cui mandò la foto ai suoi collaboratori, meravigliato, affascinato. C’è tutto questo e poi c’è la sensazione che si prova mettendo in bicicletta qualcuno e quella non cambierà mai: «A cascata, in quel momento, succede una quantità di cose e si trasmette una quantità di valori incredibili, la libertà, lo stare insieme, la sostenibilità, l’efficienza. Se si tratta di una bici da città, intuisci il modo in cui cambierà la città, la modificherà con il suo scorrere, se è una bicicletta da corsa pensi allo sport, al benessere, alla scoperta del territorio, se, invece, metti in sella un bambino sei certo del fatto che quel giorno la sua vita cambierà, perché la prima bicicletta la ricordiamo tutti. In generale, quando metti qualcuno in sella inneschi un cambiamento fortissimo ed inesorabile».

Matia Bonato si ferma, un attimo di silenzio, e riflette su quel permanere di questo sentimento. Poi, a voce più bassa, riprende a parlare: «Rossignoli è da sempre legato alla città, a Milano: una città in cui ci riconosciamo, ma, allo stesso tempo, una città profondamente imperfetta, che deve cambiare. Provare ad innescare il cambiamento e, poi, leggere di incidenti mortali in bicicletta è scoraggiante. Porta a riflettere sulle conseguenze di ciò che facciamo: spesso meravigliose, talvolta drammatiche. Io ho due figli e guardo la città con i loro occhi: quel che va bene per i miei figli va bene anche per me. Serve una città a misura di persone, le biciclette vengono di conseguenza. Se continuiamo a fare quel che facciamo è perché crediamo nel fatto che una città a misura di persone sia meglio, per tutti. Per questo noi incontriamo chi ha una responsabilità politica e chiediamo cosa intenda fare per questa situazione. Da un campo non si possono pretendere solo i frutti: bisogna lavorare, bisogna zappare. La città è il nostro campo».

Da molti anni, in Rossignoli si è presa la decisione di restare aperti anche al mese di agosto: si parla di presidio della città, di punto fermo in cui si sa che, anche nel caldo soffocante, ci si può rifugiare e sentirsi a casa: in un luogo non anonimo, che, in qualche modo, permette di riconoscersi e, quindi, di tornare. Il tutto perché l’essere umano, come diceva Aristotele e come ricorda Matia Bonato, è un animale sociale, con tutto il bello ed il brutto che ne consegue: «Non siamo ipocriti: c’è anche tanta maleducazione, bisogna dirlo. Anzi, a dire il vero, c’è di tutto, perché così sono le persone. Milano è anche la città dei “fighetti”, dei giovani che si comportano da “fighetti”, ma noi ci siamo da prima e sappiamo che anche questa è una maschera, che, grattando grattando, l’essere umano è sempre lo stesso. Spesso pieno di solitudine, di dolore, di voglia di sfogarsi, di raccontare tutto, anche se non ci si conosce. Basta una birra, una coca cola, per liberarsi. Può essere pesante, talvolta lo è. Può essere gratificante, perché per noi la bicicletta è un mezzo per parlare alle persone, per fare cultura, attraverso un libro o un incontro. Alla fine, non può bastare vendere una bicicletta. No, non può proprio bastare».

Così passare da Rossignoli – che nel 2021 ha ottenuto l’Ambrogino – vuol dire vedere il compressore fuori dal negozio, utilizzarlo, magari dire un “grazie”, scoprire un servizio che un negozio offre alle persone, alla città. La nuova sfida riguarda la biomeccanica e il Rossignoli Bike Lab, appena aperto, rivolto sia agli amatori di lungo corso, a chi controlla i millimetri della sella ed i watt, ma anche a chi la bici l’ha scoperta più di recente ed ha male alle spalle, al ginocchio, al sedere, formicolio alle mani: «Al suo interno, un professionista, preparatore atletico, si preoccupa di metterti in sella e un software di Retool verifica ogni parametro. Si tratta di qualcosa di simile alle astronavi: si pedala con tutti dei bollini addosso e ci si vede pedalare sullo schermo. Ad essere sincero, questa cosa mi ha messo un poco i brividi, pensando a nonno che chiudeva un occhio per mettere a fuoco. Chissà cosa avrebbe detto, me lo sto immaginando». Si sorride qualche istante, poi, chiediamo cosa avrebbe effettivamente detto il nonno. «Fammi vedere come si fa»: avrebbe detto così, Matia ne è certo: sarebbe stato entusiasta come era entusiasta del primo cambio Campagnolo, quando uscì.

Parlando di una bicicletta: «quella che ha traghettato il nostro paese dalle macerie della guerra al boom economico che, purtroppo, poi, l’ha cancellata, quella di Coppi e Bartali, dell’epica e della tragedia di Pantani, quella che racconta moltissimo sia a livello sportivo che a livello spiccio». Quella di “Biciclette Rossignoli”, in Corso Garibaldi 71, a Milano.