Words: Gino Cervi
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«I girini non corrono sulla strada, ma sulla polemica. Bocca amara per l’abbandono di Coppi. Lo si vedrà al Vigorelli, dove Magni, l’eterno secondo, vorrà essere primo nell’ultima volata. E ha vinto il Giro. Tenerezze coniugali contro le asprezze del pubblico. Certi cuscini sulla pista simboleggiano questo Giro addormentato. Cecchi, battuto per 11 secondi, è il vincitore morale».

La Settimana Incom del 9 giugno 1948 commenta l’ultima tappa del Giro d’Italia che si è concluso tre giorni prima, il 6 giugno, al Velodromo Vigorelli. Ha vinto Fiorenzo Magni ma anche per la Settimana Incom il «vincitore morale» è Ezio Cecchi, battuto in classifica generale per soli 11 secondi, che ancora oggi, nella storia, rimane lo scarto minimo tra primo e secondo alla fine di un Giro.

Ma che ci stanno a fare quei cuscini sulla pista del Vigorelli? Che cosa è accaduto di speciale in quel Giro d’Italia, il 31°, da metterne in discussione l’esito finale? E perché il vincitore viene trattato così in malo modo?

Il Giro del 1948 era partito da Milano il 15 maggio. Un mese prima si erano svolte le elezioni politiche, le seconde dell’Italia repubblicana. Era stata una campagna elettorale ad altissima tensione e senza esclusione di colpi: da un lato la Democrazia Cristiana, dall’altro il Partito comunista e quello socialista uniti nella coalizione del Fronte popolare. Il mondo cattolico godeva dell’appoggio politico degli Stati Uniti e dei finanziamenti economici del Piano Marshall; il Fronte popolare era presentato come la minacciosa testa di ponte sovietica nel cuore del Vecchio continente. Vinsero la DC, De Gasperi fece il nuovo governo, comunisti e socialisti finirono all’opposizione e i democristiani inaugurarono un’egemonia politica che sarebbe durata per quasi mezzo secolo. Erano le prove generali della Guerra Fredda e il Giro d’Italia cercava di ricucire un paese diviso.

Ma anche in quella passione popolare battevano due cuori contrapposti. Il Giro della Rinascita, quello del 1946, era stato vinto da Gino Bartali; quello del 1947 da Fausto Coppi. Il loro era un “Duello al sole”, come quel western americano arrivato nelle sale cinematografiche italiane proprio nel 1948.

In quel Giro del ’48 i duellanti però rimangono nell’ombra. Restano attardati in classifica fin dalle prime tappe e la ribalta se la prendono altri: Vito Ortelli, Ezio Cecchi e, appunto, Fiorenzo Magni. Sulle Dolomiti però si scatena Coppi e recupera minuti su minuti. Prima le suona a tutti a Cortina d’Ampezzo. Poi nella Cortina-Trento, terzultima tappa, vola su Falzarego e Pordoi. Cecchi, la maglia rosa, viene attardato da una foratura e da una caduta, Magni soffre in salita ma recupera in discesa ed è primo in classifica per soli 11 secondi.

All’arrivo la Bianchi di Coppi sporge un reclamo alla giuria: sul Pordoi Magni è stato aiutato da un’organizzata sessione di spinte. La giuria accoglie il ricorso, ammette che Magni ha «usufruito di numerosissime spinte per lunghi tratti […] con evidente carattere preordinato» e gli infligge un’ammenda di 2.000 lire e una penalizzazione in classifica di 2 minuti. Troppo pochi per Coppi e la Bianchi che, per protesta, il giorno seguente, non si presentano alla partenza.

Gli ultimi chilometri di quel Giro per Magni sono un calvario. I tifosi, quasi tutti per Coppi, lo prendono di mira: sta rubando la vittoria grazie alla “compagnia delle spinte”. Magni non ci sta. Nell’ultima tappa, che si conclude al Velodromo Vigorelli, schiumante di rabbia batte tutti in volata. Così lo racconta nella sua biografia scritta da Auro Bulbarelli:

«Fu il mio personalissimo modo per rispondere ai fischi che mi sommergevano. Mi aggiudicai la tappa, vinsi il Giro d’Italia ma non potei fare il giro d’onore. Sulla pista gettavano di tutto».

Ma è possibile che a Milano quel giorno siano tutti “partigiani” di Coppi? La verità è un’altra. Ascoltiamo quello che scrive il giorno dopo, sulle colonne del quotidiano “Stadio”, un giovane inviato al Giro d’Italia, Enzo Biagi:

«Fischi unanimi, tribune e gradinate fraternizzate negli insulti. Lo inseguivano con precisi lanci di cuscini, monetine, cartaccia e involti di ogni genere. Lui sorrideva e salutava per farsi coraggio. Non so di che entità siano state le infrazioni compiute da Magni sul Pordoi, ma mi ripugna e voglio escludere che i fischiatori di Milano intendessero mescolare sport e politica colpendo un ex camicia nera. […] Magni, se ha delle colpe, di qualunque genere siano, le ha già duramente scontate».

Attilio Camoriano, su“L’Unità”, la racconta invece in modo un po’ diverso:

«La folla ha reso giustizia a Coppi: ha fischiato Magni e applaudito Cecchi. […] La morale del Giro d’Italia è questa: il timone del ciclismo deve essere guidato da mani più sicure che sappiano guidare e giudicare».

A differenza di Biagi, nessun riferimento alla politica. Pare però che Camoriano lo avesse fatto, e molto esplicitamente, il giorno prima. Sulla strada da Trento a Brescia dalla sua auto al seguito, al megafono arringava così gli spettatori in attesa del passaggio della corsa: «Sportivi! Sta arrivando il gruppo! Il gruppo dove c’è la maglia rosa del fascista Magni!». A farlo smettere arrivò furibondo lo stesso Magni, tirandogli tre o quattro colpi di pompa sulla carrozzeria.

Ma perché la gente, nella primavera del 1948, a tre anni dalla fine della guerra, dice che Magni è fascista? Dobbiamo fare un passo indietro. Fiorenzo Magni è nato a Vaiano di Prato, il 10 dicembre 1920. Cresce in un paesino della val di Bisenzio, Fornaci di Usella, in una grande casa tra i boschi di castagni dell’Appennino, con un fienile e una stalla con i cavalli che il padre carrettiere usa per i trasporti. A dodici anni monta sulla sua prima bici, nera, da passeggio. Poco dopo toglie parafango e carter così da farla sembrare una bici da corsa. E con quella si mette a inseguire i corridori del posto. Con la prima bici vera, inizia a correre. Però di nascosto dalla famiglia, che non vede di buon occhio quella passionaccia che lo distoglie dallo studio.

Nel 1936 partecipa alle prime gare, categoria allievi, con la maglia dell’Associazione Ciclistica Pratese. In una corsa al Padiglione, una borgata di Scandicci, va in fuga con un ragazzo di Sesto Fiorentino che ha tre mesi meno di lui. Magni perde la volata, ma trova un amico, anzi, l’amico della vita: Alfredo Martini. Magni è forte: vince parecchie corse, tra cui anche il titolo di campione toscano di categoria. Quando in un incidente stradale muore il padre, Fiorenzo ha diciassette anni e decide che la bicicletta sarà il suo mestiere. Vince anche tra i dilettanti. È alto, sottile e per questo lo chiamano “Cipressino”. Ma ha forza e coraggio da vendere. La salita non è il suo pane, ma sul passo nessuno lo stacca e in discesa va più forte di tutti: è sempre l’ultimo a tirare i freni. Costante Girardengo che lo vede correre in quegli anni dice di lui: «Se questo qui non diventa un campione, sono rimbambito». Non è rimbambito e la Bianchi per la stagione 1941 a “Cipressino” fa un contratto da professionista.

Nel frattempo però è scoppiata la guerra. Magni, arruolato nel 19° Reggimento artiglieria di Firenze, continua ad allenarsi e a correre: nel ’41 arriva 4° alla Milano-Sanremo, nel ’42 vince il Giro del Piemonte; a novembre, al Vigorelli, nel giro di pochi giorni batte prima il record dei 50 km (1h 07’ 23’’) e poi quello dei 100 (2h 20’ 54’’).

Poi arriva il ’43. A luglio cade il fascismo, dopo l’8 settembre inizia la guerra civile. Magni ha ventidue anni e risponde alla chiamata alle armi della Repubblica Sociale Italiana. Viene arruolato nella Milizia Volontaria della Sicurezza Nazionale. Pochi mesi dopo Fiorenzo lascia la Toscana e con la madre si trasferisce al nord, a Monza. Lì può continuare ad allenarsi e a correre. Viene tesserato per il Pedale Monzese. Partecipa a qualche gara, tra le poche che ancora si disputano, e ne vince un paio. Ma dopo il 25 aprile è ancora in fuga. Prima a San Marino, poi in Puglia, infine a Roma. Perché scappa Fiorenzo? Su di lui incombe un’infamante accusa: quella di aver preso parte alla cosiddetta strage di Valibona.

I primi giorni del gennaio 1944, a Valibona, piccola borgata nel comune di Calenzano sulle pendici del Monte Maggiore, la milizia fascista aveva assaltato un casolare in cui si era rifugiata una brigata partigiana. Nello scontro a fuoco vi furono vittime da una parte e dall’altra. Tra i caduti il capo partigiano, Lanciotto Ballerini, figura carismatica della Resistenza toscana. Sui fatti di Valibona, a guerra conclusa, si avviò un’inchiesta e finalmente nel gennaio del 1947 si aprì un processo a Firenze. Magni era tra gli imputati, benché in contumacia. Tra i molti chiamati a testimoniare, anche Alfredo Martini. Al contrario dell’amico Fiorenzo, Alfredo aveva preso parte alla Resistenza. Martini alla richiesta del giudice dichiarò, come si legge negli atti del processo, che «il Magni […] corridore ciclista fino al 25 luglio 1943 mi è parso un’ottima persona».

Una leggenda vuole che sia stata questa testimonianza a scagionare l’amico. Probabilmente non è così: in realtà non c’era davvero nessuna prova che Magni fosse presente a Valibona. Lui stesso, che non ha mai rinnegato quella scelta di campo nella Repubblica Sociale, ha però sempre sostenuto di «non aver mai sparato un colpo di fucile».

Il processo di Firenze si conclude i primi giorni di febbraio del 1947. Magni, che nel frattempo era ritornato a Monza ed era stato tesserato per la Viscontea, ma non poteva partecipare alle corse, viene assolto. Torna a gareggiare il 9 marzo, nella Milano-Torino. A maggio disputa il suo primo Giro d’Italia. La 4a tappa prevede un arrivo proprio a Prato. Sul Barigazzo e sull’Abetone, dominano Coppi e Bartali, che al traguardo arrivano primo e secondo. Magni rimane attardato. Dicono che all’arrivo all’ippodromo qualcuno lo aspetti per fargli, poco amichevolmente, la festa. Tutto però fila liscio. La stagione finisce in crescendo per Magni: una vittoria alla Tre Valli Varesine e il quarto posto, a un soffio dalle medaglie, ai Mondiali di Reims.

Ma è la vittoria del Giro del 1948, a fargli svoltare la carriera. Dopo quel contestatissimo successo, si sfoga con Mario Fossati, cronista della “Gazzetta” e suo vicino di casa a Monza e, per giunta, come Martini, comunista: «Non so perché, ma non posso mai masticare il mio pane in pace». L’amarezza si trasforma in rabbiosa fame di vittorie. Nel 1949, a marzo, vince il Giro delle Fiandre, il primo straniero a vincere sui terribili “muri”:

È il primo dei tre successi consecutivi nella classica fiamminga. Dopo il 1949, Magni vince anche nel 1950 e nel 1951 e diventa per tutti “il Leone delle Fiandre”. Il ciclismo italiano di quegli anni non è solo Coppi e Bartali. Fiorenzo Magni è “il Terzo Uomo”. Come il titolo di un film che esce proprio nel 1949, strepitosamente interpretato da Orson Welles. Memorabile una sua battuta sugli svizzeri e gli orologi a cucù:

«Sai che cosa diceva quel tale? In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù».

Proprio uno svizzero gli si mette di traverso al Mondiale su strada a Varese, nel 1951. Quel giorno Magni sembra avere più gamba di tutti e si presenta all’ultimo giro fiancheggiato da due compagni di squadra: Minardi e Bevilacqua. La vittoria sembra a portata di mano ma qualcosa non funziona nello sprint sulla pista dell’ippodromo. A sorpresa vince Ferdi Kübler, come scrive Ciro Verratti, un «autentico avvoltoio del ciclismo, per il suo profilo adunco, per la sua andatura felpata, per quel certo senso di rapina che c’è nel suo stile di corsa». Dall’orologio svizzero non spunta quel giorno l’innocuo cucù ma un rapace predatore. Magni, beffato, è solo secondo.

Ma non è forse questo lo smacco più cocente della sua carriera. L’anno prima, al Tour, la maglia del primato non l’aveva solo immaginata, ma addirittura indossata. 25 luglio 1950: tappone pirenaico Pau-Saint-Gaudens, da scalare Aubisque, Tourmalet e Aspin. In maglia gialla c’è un outsider, il francese Gauthier. A fare la corsa, è Robic, “Testa di vetro”. Inseguono Kübler, Ockers, Bobet. Bartali, per molti il grande favorito in vista delle tappe di montagna, resta al coperto. Fino sul Tourmalet, quando rinviene sui fuggitivi. Kübler e Magni sono attardati. Sull’ultima salita di giornata, l’Aspin succede il fattaccio. La strada è stretta. I tifosi a migliaia. Una moto disturba l’andatura di Bartali e Robic. Ginettaccio sbanda, si arrota con Testa di vetro, cade. Risale in sella, ma poco dopo Bartali viene aggredito. Un energumeno lo disarciona e gli scaraventa la bicicletta fuori strada. Bartali si difende. Arriva Goddet, il direttore di corsa, ad arginare il parapiglia. Bartali riprende. Robic, invece, per un problema meccanico, rimane appiedato. Al Gran premio della Montagna, c’è un gruppetto in testa alla corsa, tra cui Bobet, Bartali e Ockers. Ma mancano più di 80 km al traguardo di Saint-Gaudens e in testa rallentano. In discesa vengono raggiunti da nove inseguitori. C’è anche Magni che, giù dal Tourmalet e dall’Aspin ha dato prova delle sue indomabili capacità di discesista e ha recuperato il ritardo in salita. Tra tutti i fuggitivi Magni è quello messo meglio in classifica: può prendere la maglia gialla. Pedala a tutta in pianura e all’arrivo favorisce la volata di Bartali, che vince la tappa. Magni è primo in classifica, con 2 minuti e mezzo su Kübler, 3 minuti e 20 secondi su Bobet. Bartali è sesto, a 4’ e 17’’. Ma sull’auto che porta la squadra italiana all’albergo, Bartali fulmina Magni: «Complimenti, hai vinto il Giro di Francia. Io domani non riparto». Dice che sull’Aspin ha addirittura visto gente col coltello, che una macchina nera, in discesa, ha cercato di farlo cadere in un burrone. In albergo si chiude in camera e non scende a cena. Il commissario tecnico Alfredo Binda prova a convincerlo. Niente da fare. Bartali ha deciso: ha paura, non vuole rischiare la pelle. Si ritira. Con lui, forse per decisioni prese dall’alto – la Federazione, il Coni, alcuni dicono addirittura il governo – si ritira tutta la squadra. Molte cose non sono chiare e non sono mai state chiarite. Bartali era attardato in classifica, ma ci sarebbero state ancora le tappe sulle Alpi per recuperare. Due anni prima, nel suo trionfale Tour del ’48, a Bobet, di minuti ne aveva recuperati ben più di 4. C’è chi dice che Ginettaccio era debilitato e sapeva di non potercela fare: dopo il successo di Coppi dell’anno prima, non avrebbe potuto sopportare di vedere un altro italiano vincere a Parigi. Quindi, tutti a casa: “Muoia Sansone con tutti i filistei!”. A Magni non resta che ripiegare la maglia gialla e infilarla in valigia. Anni dopo in un’intervista Fiorenzo dirà, laconico: «Bartali ha sbagliato. Comunque sono storie passate, guardiamo avanti».

Fiorenzo Magni è stato uno che ha sempre guardato avanti. E guardato lontano. L’anno seguente, il 1951, Mondiale a parte, è il suo anno d’oro. Corre con una nuova squadra, la Ganna: il suo patron è proprio Luigi Ganna, il primo vincitore del Giro d’Italia che ora produce biciclette col suo nome. L’abbinata porta bene. Magni vince il suo secondo Giro, questa volta senza nessuna polemica. Il ’51 è anche l’anno del terzo Fiandre, oltre che della Milano-Torino, del Giro del Lazio, del Giro di Romagna, del Campionato italiano e del Trofeo Baracchi. Ma un’altra bella vittoria arriva giù dalla bicicletta. Fiorenzo Magni inizia la sua carriera di imprenditore: apre a Monza una concessionaria della Moto Guzzi. Due anni dopo, alle motociclette si affiancano le automobili, le Lancia, per la precisione. Nei decenni a seguire, Magni espanderà la sua attività commerciale diventando presidente di tutti i concessionari Lancia in Italia e poi, dagli anni ’80, dei concessionari Opel. Magni è così. Sa guardare avanti, e lontano.

Lo dimostra ancora alla fine del 1953. La Ganna smobilita il reparto corse e a Fiorenzo viene un’idea: perché non introdurre nel mondo del ciclismo la sponsorizzazione di marchi “extra-settore”? Fino ad allora le squadre reclamizzavano solo marchi produttori di biciclette, o di pneumatici, o altri accessori ciclistici. Ma il mercato dei consumi si stava ampliando con il boom economico, il ciclismo era all’epoca ancora lo sport più popolare e cominciava a essere diffuso dalle trasmissioni televisive. Magni convince la famiglia Zimmermann, proprietaria dei Laboratori Cosmochimici, produttori della famosa crema Nivea, a sponsorizzare la sua squadra. Nasce, per la stagione 1954, la Nivea-Fuchs. A fornire le bici è l’azienda milanese del commendator Giovanni Tappella che, fin dal 1919, produce biciclette col marchio Fuchs, che in tedesco significa “volpe”. Le biciclette sono costruite nell’officina del “Sarto”, il mitico telaista Faliero Masi, che tiene bottega sotto le tribune del Vigorelli. L’idea di Magni è geniale: il Leone si affianca alla Volpe. La forza all’astuzia: sembra una pagina del Principe di Machiavelli.

È una rivoluzione. Alla Bianchi, alla Legnano, alla Atala, alla Bottecchia, alla Wilier, alla Torpado si affiancano nuovi nomi e nuovi colori che faranno la storia, e il costume, del ciclismo negli anni a venire. Dalle macchine per caffè Faema agli elettrodomestici Ignis e Philco, dai vermouth Carpano ai dentifrici Chlorodont e poi giù giù fino alle bibite San Pellegrino, ai salumi Molteni, alle cucine componibili Salvarani e Scic, ai lampadari Zonca, ai tessuti Filotex, ai gelati Sammontana e Sanson… E a innescare la rivoluzione degli sponsor, come quando innescava le fughe che facevano saltare le corse, è stato proprio lui: Fiorenzo Magni.

Anche con le persone che incontra sulla sua strada Magni sa vedere “lontano”. Una mattina di fine aprile del 1955, durante un allenamento in Brianza, si lamenta per un dolore a una gamba che lo tormenta da un po’. Un giovane ciclista che si è aggregato al gruppo dei pro, si fa coraggio e gli dice: «Signor Fiorenzo, sa perché le fa male?». Magni si chiede da dove salta fuori quel piccoletto che crede di sapere il perché dei suoi malanni. Il ragazzo insiste: «Signor Magni, guardi la pedivella, è storta, non è in asse, la pedalata non è rotonda, e dai e dai e dai, le fa male la gamba. Se vuole, gliela sistemo io. Faccio anche il meccanico». Magni gli dà retta e lo segue fino alla sua officina di Cambiago, poco più che un bugigattolo. Una limata alla pedivella e via. Magni ringrazia e, prima di rimontare in sella, gli chiede: «Come ti chiami?». «Colnago Ernesto» risponde il ragazzo. Meno di un mese dopo, l’Ernestino affianca Faliero Masi sull’ammiraglia della Nivea-Fuchs al Giro d’Italia. È lui che gli monta le gomme rinforzate nella penultima tappa, la Trento-San Pellegrino. È la condizione necessaria affinché Magni, secondo in classifica, possa attaccare la maglia rosa Gastone Nencini su un insidioso tratto di sterrato. È l’ultima, disperata possibilità di poter ribaltare la classifica. E questo accade: Magni scappa, mezzo gruppo rimane con le gomme a terra. Gli resistono solo Coppi e Nencini, ma per poco. Anche a Nencini scoppiano le gomme e Fiorenzo e Fausto lo attaccano senza pietà. Mancano ancora 150 km all’arrivo a San Pellegrino, ma Fiorenzo è una furia e Coppi gli dà una mano. Dietro, col vento contro e senza squadra a dargli aiuto, Nencini naufraga. I due vecchi campioni, sette anni dopo le polemiche delle spinte sul Pordoi, volano verso la vittoria: a Coppi il traguardo di San Pellegrino, a Magni la maglia rosa e il terzo e ultimo di Giro della sua carriera.

Il ’56 è l’ultima stagione per Magni. Ma il Leone continua a essere indomabile. Al Giro cade nella 10a tappa, la Grosseto-Livorno, e si frattura la clavicola sinistra: è martedì. Di ritirarsi così non se ne parla. Dopo il giorno di riposo, Magni corre due tappe con l’impugnatura del manubrio ben imbottita per attutire le vibrazioni. Il sabato a Bologna si disputa la cronoscalata del Santuario della Madonna di San Luca. Colnago gli suggerisce di legare una camera d’aria al manubrio e di stringere tra i denti l’altra estremità, così da alleggerire la presa del braccio sinistro.

Sul San Luca Fiorenzo stringe una briglia in bocca per tenere a bada il suo ferreo destriero. Per farlo ci vuole un fisico bestiale. Magni ha trentacinque anni, una pelata che ne dimostra sessanta e un naso schiacciato come una scarpa, ricordo di una caduta di quasi vent’anni prima. Il resto è muscoli, ossa rotte, denti stretti, camera d’aria di lattice e telaio d’acciaio. Sblilenco e sofferente Magni sale la sua personalissima Via Crucis in quel sabato 2 giugno 1956, incitato e sospinto dall’abbraccio appassionato della città (allora) più rossa e comunista d’Italia. Quello che otto anni prima era “la camicia nera in maglia rosa” è diventato un’icona simbolo della storia del ciclismo: un fachiro in bicicletta.

Ma la via Crucis non finisce sul San Luca. Il giorno dopo, nella Bologna-Rapallo, Magni non vede una buca e cade sulla spalla già rotta: sviene. Lo adagiano su una barella ma si riprende e vuole continuare. Il gruppo, per rispetto, lo aspetta. È domenica. Quattro giorni dopo, giovedì, nella tappa che parte da Sondrio, scala lo Stelvio e arriva secondo a Merano. Non è finita: l’indomani, nella Merano-Monte Bondone, il Giro si perde nella tempesta: neve, ghiaccio, temperature sotto zero. Sembra la ritirata di Russia. Nella tregenda primo è Charly Gaul, che si aggiudica il Giro; ma alle sue spalle – si fa per dire… perché passano quasi otto minuti – sbuca Fiorenzo Magni, forse anestetizzato dal gelo… Due giorni dopo, all’arrivo a Milano, è secondo in classifica generale. È il suo nono e ultimo Giro d’Italia: a parte le tre vittorie, arriva due volte secondo e non esce mai dai primi dieci. Ci vuole davvero, un fisico bestiale.

Ma prima di far calare il sipario sulla stagione, e sulla carriera sportiva di Magni, c’è un ultimo colpo di teatro. 21 ottobre 1955, Giro di Lombardia. Fausto Coppi è in fuga con Diego Ronchini. Il gruppo che insegue pare rassegnato. Una macchina lo sopravanza, per portarsi sui fuggitivi. A bordo Giulia Occhini, la “Dama Bianca”. Non si trattiene e parte lo sberleffo: il gesto dell’ombrello. È come se avesse gettato un cerino nella benzina. Magni, il più incendiario, guida l’inseguimento. Scrive Gianni Brera:

«il furore di Magni è irresistibile. Pochi atleti al mondo sanno offrire questo spettacolo di potenza. La Dama, sciagurata, avrà modo di pentirsi. L’urlo continuo della folla avverte Magni e i suoi che Coppi e Ronchini sono ormai alle viste. Li colgono sulla Ghisolfa e Coppi, a bocca aperta nel secondare l’affanno, capisce che qualcosa di storto è avvenuto alle sue spalle».

Ancora una volta il Vigorelli è il palcoscenico di quel popolare melodramma che è il ciclismo. Coppi sa che quello può essere il suo canto del cigno e non si rassegna. Inizia la volata con una progressione come solo lui sa ancora fare, il pubblico lo asseconda in un boato assordante, ma quando sta per tagliare il traguardo all’esterno lo passa un lampo biondo: il francese Darrigade. Il Campionissimo mette il piede a terra e scoppia in un pianto dirotto che sembra quello di un bambino inconsolabile. Fausto cerca Fiorenzo con lo sguardo, quasi a chiedere il perché. Non lo sa ancora che cosa è successo. Magni gli dice: «Ti avrei inseguito fino in capo al mondo».

Fiorenzo appende la bici al chiodo, ma resta nelle corse. Per due anni è direttore sportivo alla Leo-Chlodoront: nel 1957 guiderà alla conquista del Giro d’Italia Gastone Nencini (sì, proprio quello cui aveva teso l’agguato due anni prima sullo sterrato di Tione di Trento…). Poi tre anni, dal ’60 al ’62, alla Philco, in cui lancia corridori come Guido Carlesi e Franco Bitossi. Dal 1963 al 1966 è Commissario tecnico della Nazionale: sfiora il Mondiale con Adorni, secondo nel 1964, dietro a Jan Janssen, ma è grazie a lui se, a partire dal 1966, i commissari tecnici possono seguire la corsa dalle ammiraglie.

Nel 2009 chiude la sua attività imprenditoriale nel campo delle automobili, per dedicarsi alla sua nuova creazione: dal 2006 ha promosso e fondato il Museo del Ciclismo Madonna del Ghisallo, un luogo meraviglioso, sospeso tra le montagne e il lago di Como, dove si coltiva con passione la memoria dello sport che Fiorenzo ha onorato per tutta la vita.

Fiorenzo Magni muore a Monza il 19 ottobre del 2012. Alfredo Martini, nella sua biografia La vita è una ruota, scritta con Marco Pastonesi, ricorda così quel momento:

«La sera in cui Fiorenzo si è sentito male, lo sapeva soltanto la sua famiglia. Avvisarmi, mi hanno poi detto,

sarebbe stato doloroso. Per tutti: per loro e per me. Così sono andato a dormire senza sapere che cosa fosse accaduto al mio amico. Poi, però, di notte, mi sono alzato. Insonne, agitato, nervoso. E solo la mattina, quando è squillato il telefono, ho capito il perché. Lo avevo sentito nell’aria. Per certe cose non c’è bisogno di telefonarsi.

Noi ci telefonavamo quasi tutti i giorni, e certi giorni anche due volte al giorno. Ci raccontavamo, ci confrontavamo, ci alleavamo. Tra noi, come sottolineava spesso Fiorenzo, non c’è mai stata mezza frase storta, anzi, neanche mezza parola storta. Ci volevamo bene. Eravamo diversi. Non politicamente, perché nessuno dei due ha mai fatto politica, ma ideologicamente. Però c’intendevamo, perché tutti e due ci comportavamo con onestà, e l’onestà non ha colore».

Più che “il Terzo uomo” Fiorenzo Magni fu il terzo incomodo e s’inserì nell’eterna contesa dei due litiganti, Coppi e Bartali, godendo spesso. Il numero 3, del resto, sembrava fatto apposta per lui: nel suo invidiabile palmarès ci sono 3 Giri d’Italia (1948, 1951 e 1955), 3 Giri delle Fiandre (1949, 1950, 1951), 3 campionati italiani su strada (1951, 1953 e 1954), 3 Giri del Piemonte (1942, 1953 e 1956), 3 Trofei Baracchi a cronometro a coppie (1949-51). Più 6 tappe e 24 giorni di maglia rosa al Giro (anche questi multipli di 3): non sono multipli di 3 le 7 tappe al Tour, ma come non ricordarle?

L’avete capito. La storia di Fiorenzo Magni è un romanzo a pedali. Un romanzo in cui dentro allo sport passa la storia, la politica, il lavoro, l’economia, le invenzioni di un’epoca in cui anche l’Italia pareva andare di corsa. Coppi e Bartali sono il simbolo di quel periodo. Bartali era il ciclismo, prima che arrivasse Coppi: era l’incarnazione di un’Italia antica e resistente, mai morta. In Bartali c’era qualcosa di medievale, un’irruenza da Savonarola. Coppi che aveva cambiato la faccia al ciclismo accompagnandolo nella modernità, era invece un enigmatico esistenzialista. Ma quanto a personalità e a carisma, Magni non era loro da meno. Era il leone ed era la volpe. E per sceneggiare la sua vita in un film, ci vorrebbe una scrittura da Machiavelli. Da Principe della pedivella.

Fonti

La vicenda giudiziaria dei “fatti di Valibona” e del coinvolgimento di Magni è stata dettagliatamente, e appassionatamente, ricostruita in un libro, Il caso Fiorenzo Magni. L’uomo e il campione nell’Italia divisa, scritto nel 2018 da Walter Bernardi. Vi si affrontano i molti chiaroscuri della vicenda e, anche a parecchi anni di distanza, l’incapacità collettiva del nostro paese a fare chiarezza e rielaborare una memoria condivisa e pacificatoria.

Altre fonti.

Auro Bulbarelli, Magni. Il terzo uomo, RAI ERI, 2012

Enrico Currò, Mario Fossati e la storia del giornalismo sportivo in Italia (1945-2010), Bolis Edizioni, 2018

Alfredo Martini con Marco Pastonesi, La vita è una ruota, Ediciclo Editore, 2014

Gianni Brera, Coppi e il diavolo, Rizzoli, 1981

Ernesto Colnago, Il Maestro e la bicicletta, conversazione con Marco Pastonesi, 66tha2nd, 2020