Era estate e molti amici di Sacha Modolo, terminata la scuola, avevano da mesi iniziato a lavorare in fabbrica: i primi guadagni, i primi stipendi e le prime vacanze, magari in discoteca a divertirsi. Modolo correva in bicicletta da qualche anno, nessun guadagno o ben poco e le ferie poteva scordarsele perché in quei mesi c’erano le gare. Decise così di dire ai genitori che avrebbe smesso e sarebbe andato a cercare lavoro in fabbrica. «Quel giorno mio nonno ci vide lungo. Mi disse: “Se vuoi andare a lavorare, domani mattina vieni con me”. Nonno consegnava bibite ai privati e ai bar. Era tutto un caricare e scaricare da quel camioncino. A sera lo guardai e: “Ho capito, torno a pedalare”».
A Sacha Modolo non è mai mancato nulla a casa, ma la sua era una famiglia umile, una di quelle famiglie che certe cose non avrebbe mai potuto permettersele. «Ho saputo che la prima bicicletta ce l’hanno regalata, altrimenti non avrei potuto comprarla” racconta, mentre parla della sua indole da ragazzo. In Veneto si dice “remengo” e vuol dire scalmanato, irrequieto. Quel ragazzo si è riscattato con il ciclismo: «Non mi sono mai sentito arrivato, ma, se fai un certo percorso e ti accade quello che è successo a me, lo vivi come un riscatto. Senza il ciclismo avrei conosciuto solo il mio paese e la mia vita sarebbe finita lì. Succede a tanti».
Negli ultimi anni qualcosa era cambiato. Modolo lo ammette, si era un poco spento e pensava di smettere più che di continuare. Anche a casa diceva quello che aveva sempre detto: «Quando smetterò non ne farò una malattia e del ciclismo non ne vorrò più sapere». Eppure di ciclismo parlava sempre. Sua moglie glielo ha detto: «Mostri tanto distaccamento per questo mondo, ma in realtà pensi solo alla bicicletta». E Sacha non nasconde che la verità è proprio quella.
Dal 2018 una serie di problemi fisici lo hanno bloccato. C’è voluto tempo prima di capirne la causa, nel frattempo si brancolava nel buio. La sua è la storia di chiunque attenda un esito che non arriva. «All’inizio non ho pensato a nulla di tragico. Anche da ragazzo mi allenavo poco e riuscivo a vincere. Prima mi sono detto che dovevo cambiare allenamento, poi che gli altri andavano di più e non potevo farci molto». Fino a che Modolo inizia a mangiare sempre meno, forse anche poco. Uno stato di infiammazione molto forte che mette preoccupazione: «Ho temuto fosse qualcosa di più grave. Poi ho iniziato a curarmi ma per stare meglio è servito molto tempo». Una crisi arrivata proprio quando stava iniziando a capire che tipo di corridore era: tutti lo hanno sempre trattato come un velocista, lui avrebbe voluto essere qualcosa di diverso. Quel sesto posto al Fiandre lo racconta bene. «Quando Pengo mi chiese la prima volta che pressione delle gomme tenere sul pavé, mi venne da ridere. Non sapevo nulla di questi dettagli. Capii che avevo ancora tanta pastasciutta da mangiare. Marcato mi aiutò».
C’è l’esperienza degli anni passati e un cerchio che si chiude col ritorno in Bardiani Csf-Faizanè. Modolo è ritornato quel ragazzo, quello che vuole tornare a vincere, non importa dove. Che vuole decidere da solo dove e come dire basta. «Molti mi dicono che avessi avuto una testa diversa avrei vinto di più. Forse o forse avrei vinto meno. Certe volte bisogna anche accontentarsi. Non ho rimpianti e questo mi basta».
Se guarda avanti sa che, comunque vada, la fine della carriera si avvicina. Non ha paura, forse qualche nostalgia: «Tutto questo mi mancherà perché sono stato fortunato. In bicicletta si fa fatica al massimo per sei, sette ore. Nelle ditte ci sono persone che fanno otto ore per molto meno e fanno più fatica di noi. Dobbiamo rispettarle. Ma non mi spaventa rinunciare a questo. Ho paura che mi manchi la bicicletta, quello sì».