Non si può parlare di Old Willunga Hill senza parlare di numeri. Nel ciclismo, si sa, i numeri contano fino a un certo punto. In realtà non solo nel ciclismo, anche nella vita. Perché poi certi spunti o certe spinte con i numeri hanno ben poco a che fare. E ogni giorno vive di spunti e spinte, a prescindere da ciò che raccontano i numeri. Gli spunti sono quelli della mente e di qualcosa che non sappiamo dove esattamente ma è da qualche parte in noi, come l’essenza, come il sapore del pane. Dov’è il sapore del pane? Anche le spinte, quando non sono puramente materiali, di mani che si allungano, e il ciclismo per fortuna conserva questa grazia, questa capacità di allungare la mano verso chi non va più avanti, sono frutto di quella stessa mente e di quella stessa essenza. Willunga Hill è così distante dai numeri che dovrebbero raccontarla. Sapete perché? Perché raccontare l’asfalto solo con i numeri è roba da topografi e l’uomo dell’asfalto sa ben altre cose, come del pane.
Willunga Hill è fatta, costruita, da 3500 metri di strada disciolta dal caldo torrido affacciata sui vitigni di McLaren Vale. Lì solo sterpaglie, più secche dell’aria che non si sente lassù, e vegetazione che per resistere si è addomesticata alle temperature e ai vizi del proprio cielo. Quanti sono 3500 metri in relazione a tappe di duecento chilometri? Pochi, ben pochi. Però c’è la pendenza e quella strada ha una pendenza notevole, del 7,5%. La pendenza è l’inclinazione. L’inclinazione è durezza ma anche predisposizione, tendenza, volontà. Non significa solo che per salire durerai fatica, significa anche che per salire dovrai essere predisposto. E qui c’è già tutto, perché fatica e predisposizione procedono appaiate, come i rapporti che innestano la pedalata. Senza predisposizione, senza volontà, la fatica non ti porterà in cima. Ma senza fatica, la volontà sarà sterile capriccio, vuota parola di cui riempirsi la bocca. Messa così, Willunga Hill è solo una salita, non molto lunga, anzi decisamente breve, ma ripida, molto ripida. Non diresti mai che a questa salita possa essere intrecciato il nome di un corridore come accade per Mortirolo, Stelvio, Alpe d’Huez o Mont Ventoux. Non lo diresti mai perché ti sei abituato, o ti hanno abituato, a contare la realtà piuttosto che a sentirla.
Sia chiaro: Willunga Hill dal punto di vista strettamente ciclistico non ha nulla a che vedere con le vette citate prima. Questo bisogna dirlo forte e chiaro ma questo dice tutto e niente. A Willunga Hill, ultima, e forse unica, ascesa del Tour Down Under ha vinto per sei anni consecutivi Richie Porte. Richie Porte, lui promessa delle promesse, lui martoriato dalla sfortuna, lui nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, a Willunga Hill è sempre stato impeccabile. A tal punto che Willunga sembrava una benedizione e una maledizione. Era sin troppo facile pronosticare Porte vincitore a Willunga Hill ed era diventato difficile, troppo difficile, credere a Porte sul suo podio, quello che non gli era mai appartenuto ma forse per questo era più suo di tante cose realmente sue, quello del Tour de France. Porte era il vincitore di Willunga e Willunga era la salita di Porte. E per quanto potesse fare Porte per impressionare i suoi rivali, Willunga ed il Tour restavano tali. Gli inizi spumeggianti sono belle storie le prime volte, poi diventano eterno ritorno dell’impossibile e alla fine, forse, stufano anche. Sicuramente Richie Porte non ha vinto a Willunga nel 2020 perché gli è mancato qualcosa o perché ha trovato qualcuno più forte di lui, Matthew Holmes nello specifico. Il punto non è questo. Il punto è che, forse proprio qui, c’è il sapore del pane, c’è la vera storia dell’asfalto. Quella di cui i numeri non dicono niente.
Qui Porte ha capito che l’ovvio è la storia di chi ha poca fantasia. E lo ha capito perdendo dove aveva sempre vinto. Sì, perché è facile dire: ”Puoi fare bene al Tour” ma stai parlando di una sensazione che ormai non ricordi nemmeno. Anche le cellule hanno una memoria: è quella che ci fa reagire in modo simile a situazioni simili, è quella attraverso cui impariamo come reagire. Quella memoria ogni tanto va risvegliata con le vibrazioni dell’inaspettato altrimenti si abitua al ricordo e non lo crea. Porte sapeva sin troppo bene come era vincere a Willunga Hill e forse quel giorno lo dava anche per scontato. Per questo ha perso. Quello che aveva dimenticato era come fosse perdere lì dove tutti sapevano che avrebbe vinto. Perdere lì dove sembrava impossibile.
Quel giorno Richie Porte ha letto una storia diversa. Da lì lo spunto e la spinta. Perché ora che l’ovvio era andato in frantumi, l’aria era tornata. Quando la strada sale troppo e anche la volontà sembra non bastare, devi rilanciare perché di ciò che ricordi, in quel momento, non interessa a nessuno. Oggi quella memoria è diversa ed ha come sfondo i Campi Elisi ed un terzo posto al Tour de France. Una gara di tre settimane con salite così diverse da Willunga, nei numeri ma non nella sostanza. Perché che ti è ancora possibile far bene al Tour, puoi impararlo anche un giorno di gennaio, dall’altra parte del mondo. Di tutto questo sa quel pane, di tutto questo sa quell’asfalto.
Foto: Dario Belingheri/BettiniPhoto©2020