Il giorno in cui suo padre, ciclista e appassionato di ciclismo, gli ha regalato la prima bicicletta da corsa, la reazione di Giorgio Emanuel è stata un misto di paura e di “odio” verso quel mezzo che aveva sempre vissuto in casa e a cui addossava diverse colpe, quella di non giocare a calcio come tutti i suoi amici, ad esempio. Dietro casa, c’era il campo in cui lavorava suo nonno e un trattore appena avviato, Giorgio corse da lui, con la bicicletta sotto mano: «Nonno, per favore, tagliala, distruggila, passaci sopra con il trattore, però portala via da me. Non la voglio e basta». Quell’uomo, ora malgaro, aveva avuto una vita piena e difficile: a causa dei bombardamenti, subiti in guerra, non sentiva bene e, a causa di una scarica elettrica che l’aveva colpito nei campi, poteva camminare solo molto piano, a piccoli passi, eppure, quando parlava delle sue montagne, tutto passava in secondo piano. Le montagne sapeva anche odiarle, per i loro inverni freddi, per la neve “cattiva”, i ghiacci e gli animali, ma da lì non se ne sarebbe mai andato. Ogni tanto, si sedeva con Giorgio, nei campi dei pascoli, e con la mano iniziava ad indicare: «Vedi l’Argentera? Se osservi bene, noterai due punte, ecco, quello in mezzo è il Corno Stella». Sembra di sentirla ancora oggi la sua voce e quelle descrizioni, quei racconti. Per questo, quel giorno chiese a lui di distruggere quella bicicletta, perché si fidava ciecamente, ed il nonno disse solo «abbi pazienza, ancora un poco di pazienza» eppure, col suo tono, quasi lo convinceva, come già gli era successo, quando aveva iniziato a pensare che di tutte quelle montagne, segnate da quelle dita, avrebbe voluto esplorare la cima, poi tornare a raccontargliela.
La prima mountain bike, qualche anno dopo, forse era più simile al suo carattere, libera nei boschi, fra la terra e le pietre, “più feroce”, ma, alla prima gara, cadde male e suo padre gliela levò di mano. Pareva finito tutto lì, mentre giocava a beach volley in spiaggia e la nazionale di tiro con l’arco lo convocava. Finito? Sì, almeno sino ai diciotto anni. «Lo sappiamo bene, è l’età della patente, delle serate in discoteca: dormivo due ore per notte e, al mattino, mi presentavo agli allenamenti con gli occhi gonfi e la testa frastornata. I miei genitori lavoravano e non riuscivano ad accompagnarmi ovunque per le gare: presi quella scusa e cercai di convincerli che era meglio rinunciare al tiro con l’arco. In realtà, non avevo la testa per una carriera professionistica e non avere la testa, a certi livelli, significa non avere la stoffa. Preferivo divertirmi in spiaggia e non pensare a nulla». A suo padre, però, di quelle sensazioni di ragazzino alle prese con la prima bicicletta, di quella sofferenza, non aveva detto nulla e non ha mai detto niente: «In fondo, lui mi sognava in quell’ambiente, già non ero riuscito a realizzare il suo sogno, mi sembrava profondamente ingiusto ferirlo, spiegando questo dolore. Alla fine, col senno di poi, sarebbe stata anche una ferita inutile, perché la bicicletta è ancora nella mia quotidianità».
La bicicletta l’aveva portata sulle vette, ma, in quel senso, era quasi diventata un limite, nonostante ci avesse percorso il Cammino di Santiago, perché su certe cime è necessario essere soli, altro non serve, è troppo. Era stato un breve ritorno, l’ennesimo. Le cime delle montagne le ha esplorate scalando, arrampicando, assieme a Maurizio, amico e maestro, e ora è sicuro che nonno non aveva inventato proprio nulla, era tutto vero, un misto di saggezza e di esperienza. Poi una proposta di lavoro da parte dell’azienda in cui era cresciuto, un lavoro lontano, in Cile, nelle centrali idroelettriche, il rifiuto, un nuovo lavoro e un posto di responsabilità. Giusto due settimane dopo, un dialogo con un amico.
«Sai, voglio fare l’Iron Bike. Mi aiuti?».
«Giorgio, ma sei tutto matto. Hai fatto una vita ad arrampicare, come pensi di fare? Dai, si tratta di una sciocchezza».
«No, non mi interessa. Voglio farlo, semmai cammino con la bici fra le mani. Mi aiuti? Sennò faccio da solo».
Quell’amico, messo alle strette, l’ha aiutato, lungo nove mesi di preparazione e, alla fine, il giorno delll’Iron Bike è arrivato, proprio poche mattine dopo il giorno in cui Maurizio se n’era andato per sempre, durante una scalata all’Himalaya, e non sarebbe più tornato. Una mattina sin troppo triste, dopo tanta attesa: le montagne di casa, il ritmo della pedalata, il respiro affaticato, la fatica che morde, l’unico modo per non pensare e, all’arrivo, un’emozione difficile da raccontare che ricorda ancora oggi, mentre ripensa a tutte le volte in cui anche lui ha odiato le montagne, che pur ama, e la bicicletta, che pur era tornata: «La bicicletta insegna la pazienza, i tempi sono lunghi, per andare da una città all’altra o per scalare il Colle Fauniera. Anche a me è capitato di pensare di tornare indietro, per la stanchezza o la noia, non l’ho fatto come non lo fa quasi nessuno in bicicletta. Per me sono stati preziosi gli insegnamenti dei miei genitori, mi dicevano: “Non devi subire la vita. Le scelte sono materiale complesso, difficile, anche rischioso, se vogliamo, però gli esseri umani hanno il dovere di scegliere, non di essere perfetti: noi vogliamo che tu scelga e puoi scegliere quel che preferisci, senza giudizio alcuno, ma una cosa vorremmo la ricordassi. Devi essere responsabile delle tue decisioni e provare a portarle fino in fondo”. Quando una salita è troppo tosta, ci ripenso». Gli capita al colle di San Bernardo del Vecchio, dove pedala almeno una sessantina di volte l’anno, nella chiesetta lassù, gli è successo sul Galibier, sulla Bonette, soprattutto nelle gare in condizioni maggiormente estreme. Sì, perché l’idea a cui ha dato vita in cui è sfociata questa storia è stata quella di competere nelle cinque gare più dure al mondo: ha gareggiato in Nepal, in Europa con l’Iron Bike e, se non ci fosse stata la pandemia, sarebbe partito per una corsa in Australia che, ora, non si svolge più. All’Atlas Mountain Race, in Marocco, forse, i momenti più difficili: «Alle due di notte, le mie gambe sprofondavano in mezzo metro di neve. Contavo di arrivare al “campo uno” in sei ore, ne ho impiegate dodici. Chi me lo fa fare? Non lo so, però so che farlo è l’ultimo passo. Penso che alle persone sia necessario raccontare l’emozione del percorso, della volontà, del progetto. Forse è quella che spinge a fare cose che razionalmente difficilmente si capiscono, come l’ultracycling che costringe a non dormire ed a pedalare nel buio della notte». Suo padre è sottilmente orgoglioso di questo figlio pedalatore, ma non è abituato a mostrarlo, anzi, a volte, gli dice che è un folle, come quando, su una fettuccia sospesa a tremila metri, in Valle Varaita, percorse, a piedi, lo spazio tra due montagne, però, racconta a tutti le sue avventure: «Al bar, con gli amici, divento una sorta di figlio-eroe e le mie avventure sono vere e proprie imprese. Mi ricompensa di quel dolore che, forse, gli ho dato anni fa ed è bellissimo così»,
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