Elisa Roux è andata a vivere da sola quando aveva poco più di vent’anni. All’inizio erano tutti monolocali, case accoglienti, ma piccole, così piccole che sua sorella Stefania, quando passava a trovarla, le diceva sempre: «Bello qui, ma non c’è spazio nemmeno per una bicicletta». Lei non capiva e non capisce tutt’oggi il perché di questa frase, tanto più che, in quei momenti, non pedalava per nulla e le biciclette non le interessavano nemmeno. Stefania, però, quelle parole gliele ripeteva sempre, ad ogni cambio di abitazione: erano tutte case carine, ma una bici non ci sarebbe mai entrata. Sarà per questo motivo che, nella casa nuova, in cui Elisa vive, da qualche tempo, con Giorgio, lo spazio per le biciclette l’ha trovato, l’ha lasciato: anzi, in cucina, è stato ritagliato una sorta di ripostiglio, un bussolotto in cui è posta una vecchia Colnago del 1973, ritrovata nella clinica psichiatrica dove Elisa lavora. Nel giardino c’era una capanna destinata agli attrezzi e ad altre “vecchie cianfrusaglie”, in un angolo, tuttavia, erano riposte una decina di biciclette, ormai conciate da buttare via, donate alla clinica dai volontari. Un tempo, vi pedalavano i pazienti della clinica, per svagarsi, ma, quando vennero effettuati dei lavori di ristrutturazione e quel giardino divenne sempre più bello, per le biciclette non ci fu spazio: si dovevano buttare via. «Tutte non potremo mai salvarle, ma una sì, una puoi prenderla e le troveremo un posto»: parola di Giorgio, il compagno di Elisa. Quell’unica bicicletta era proprio la Colnago 1973, custodita nella loro cucina. Stefania, purtroppo, è andata via nel 2017, a causa di una malattia, ma ora in casa c’è spazio per una bicicletta, anzi, per più di una bicicletta sola ed Elisa sorride, tra la malinconia e una lieve felicità.
In fondo, sembra passato così tanto tempo dalla prima bicicletta, ma non sono trascorsi neppure tre anni: era il gennaio del 2021. Elisa aveva appena conosciuto Giorgio Emanuel e sapeva della sua passione per il ciclismo, di quanto fosse bravo in quello sport. Interessarsi al ciclismo era, di fondo, un modo per trascorrere degli istanti assieme, per condividere una passione e quindi aumentare il lasso di tempo condiviso. Era stato proprio Giorgio a dirle, passando da un negozio: «Ho visto la tua bici, devi prenderla, è perfetta per quello che sei!». Già, quella bicicletta era davvero bella: un grigio opaco difficile da descrivere che, però, la rende ancora oggi quella di cui Elisa Roux si ricorda meglio. Nelle sue idee non avrebbe voluto spendere più di cinquecento euro per la prima bici, quasi fosse un tentativo, una prova, perché non sapeva come sarebbe andata, non sapeva quanto l’avrebbe effettivamente usata. Spenderà circa cinque volte quella cifra e oggi sa di aver fatto la cosa giusta. Ci pensa soprattutto in qualche pomeriggio in clinica, mentre fuori il cielo è di un azzurro che acceca ed i raggi del sole rimpallano in ogni dove, fra gli alberi ed il prato: è certa che lei potrà uscire, forse pedalare, di certo respirare l’aria là fuori. Sa altrettanto bene che quei pazienti vivono ventiquattro ore al giorno fra quelle mura, molti sono giovani, dopo la pandemia, sono sempre più giovani e quel cielo e quei bagliori di luce non possono che guardarli da dietro un vetro, senza alcun progetto. In quegli istanti, si sente fortunata, aumenta la sua capacità di guardare, di vedere. La stessa cosa accadde anche al Cammino di Santiago, quando partì sola per colmare la mancanza di Stefania, pur non essendo per nulla sportiva, con ancora nelle orecchie la voce della madre che le diceva di come le sue cugine fossero bravissime a sciare, di come le amiche fossero campionesse in qualche disciplina. Lei no, lei pensava ad altro, eppure quei giorni lontano, da sola, l’hanno cambiata, come la bicicletta ha cambiato il suo modo di leggere il mondo. Con Giorgio affronterà il Tour, in bicicletta, della Toscana, scalerà i Pirenei, senza valigie piene di vestiti, solo con i fondelli e un paio di ricambi, scoprirà vette nuove, meno conosciute, più aspre di quelle famose, ma, ancora prima, esplorerà sentieri e vialetti che portano alle colline e alle montagne vicino a casa, in Piemonte. Poi il Nepal, l’ultimo viaggio, compiuto poche settimane fa.
Nell’immaginario e nella realtà, che spesso coincidono, talvolta si scambiano, il Nepal è il luogo degli 8000 metri, ma non solo. L’arrivo a Kathmandu sorprende Elisa: «Le folle che si spostano in città sono immense: macchine, pullman, moto che viaggiano senza alcun apparente senso logico, nella mobilità, in un caos che fa restare immobili, senza parole. Ci sono cani che passano e attraversano la strada e palazzoni giganti, in cui le scale sono in bambù e gli operai lavorano scalzi, mentre le biciclette sono un mezzo di lavoro, trasportano tappeti, carni, anche polli. Il senso di spaesamento è inevitabile». L’orientamento, in realtà, si perde spesso, di fronte a quei monti che sembrano essere la fine del mondo, della strada, del viaggio, e, poi, a quelle vallate che, da un momento all’altro, si aprono e sono infinite. Ma anche al cospetto della giungla in cui bisogna fare attenzione al rischio sanguisughe, sino al Mustang, alla sabbia che pare quasi un deserto. In totale, il Tour dell’Annapurna si comporrà di circa 278 chilometri, più di undicimila metri di dislivello e circa cinquanta ore in sella. Proprio in quelle ore, tutti guardavano le biciclette e provavano curiosità, anche solo per quei colori vivaci, azzurro e giallo, mentre le loro erano vecchie, rovinate, arrugginite. Qualcuno vuole provarle: «Eravamo a circa 4800 metri, diretti ai 5400 metri, con un sentiero a strapiombo su un fiume, in cui anche noi dovevamo fare attenzione, per i rischi ed il senso di vertigine che invade. Ad un certo punto, da una casetta, nel nulla, esce un ragazzino indiano: capelli lunghi fino al collo e maglione di lana. Sale sulla mia bicicletta ed inizia a correre a mille, avanti ed indietro, concedendosi anche un’impennata prima di restituirmela. Sarà stata una delle prime in cui provava una bici, ma il suo era un talento naturale, genuino». Qualcuno in vetta, nemmeno chiede, accarezza la bicicletta e prova a pedalare, molti gridano «in bici, in bici!», ovvero «avete visto? Sono saliti in bici».
La fatica è una compagna quotidiana, Elisa Roux si dice che, forse, avrebbe dovuto prepararsi meglio. In realtà, le strade sono sconnesse, secche, bisogna pedalare piano, fare attenzione e, certi giorni, proprio non si vorrebbe ripartire, perché anche solo quindici chilometri paiono interminabili. Anche a sera è necessario adattarsi: in camera, c’è una turca, un secchio d’acqua, niente carta igienica, niente riscaldamento, l’acqua per la doccia è fredda, molte cose sono improvvisate, come il trasporto dei loro borsoni su una jeep, a sera, li ritrovano in albergo unti di olio motore, chissà dove viaggiavano. Nella hall di un albergo, alcuni scatti, molto semplici, del proprietario dell’hotel, ritraggono il leopardo delle nevi, un animale bellissimo, maestoso, capace di mimetizzarsi alla perfezione, di cui sono sopravvissuti solo venti esemplari: «Sento ancora il profumo dei mandarini, nei trasferimenti. Così verdi da sembrare acerbi, in realtà maturi, piccoli, buonissimi, completamente diversi dai nostri. L’altro profumo è quello delle spezie, in abbondanza sulla carne. Il verde domina nei boschi, nelle foreste, dove il sole filtra a tratti, si vedono le liane e la tentazione è di fermarsi a fotografare ogni dettaglio, lassù i ghiacciai, bianchi, la neve, talvolta la sabbia, la ghiaia. A ridosso del cielo». Lassù sorge il sole.
Elisa e Giorgio erano nei dintorni di Poon Hill, nei giorni conclusivi del loro viaggio, era sera, in programma, per il giorno successivo c’era la salita di ben 260 scalini per vedere l’alba. La partenza è prevista per le cinque, ma già alle quattro di notte l’hotel è in fermento: «Non riuscivo a capire, a me sembrava già prestissimo partire a quell’ora, visto che il sole sorgeva alle sei e diciassette. Addirittura, nella sala colazioni era già quasi tutto esaurito e, come siamo arrivati, la guida ci ha messo fretta. Bisognava partire immediatamente». Il motivo lo capiranno su quegli scalini, che tormentano i muscoli, quasi li martellano e lasciano segni per giorni: scalini che impiegheranno circa tre quarti d’ora a percorrere, in mezzo a duecento, trecento persone che rincorrono il sorgere del sole: «Ci hanno detto che tutti i giorni si ripete questa scena, anche se ci sarebbe, accanto, una collinetta in cui si potrebbe vedere addirittura meglio, ma questa è la loro usanza. Lì vicino c’è una capanna, offre del tè, una bevanda calda per tutti, poi sorge il sole, all’ora prefissata, nonostante ogni rincorsa e tutta la fretta».
Momenti belli che, condivisi, aumentano il loro valore, il loro potenziale e quei quasi tre anni in sella paiono essere molti di più, come se la bicicletta ci fosse sempre stata, come se quei monolocali, piccoli, minuscoli, ora avessero un angolino per tutte le bici che avrebbero potuto esservi parcheggiate. Come voleva Stefania, come vuole Elisa.
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