Nel paese in cui è cresciuto Matej Mohorič in Slovenia ci saranno state trenta case, non di più. La sua famiglia aveva una fattoria e lui aiutava i suoi genitori: «Avevamo maiali, pecore e galline. Gli animali non hanno giorni di riposo e c’era sempre da lavorare. In estate avevamo anche l’erba da tagliare». Quando parla di lavoro, Matej ha in mente quei giorni: «Non ci si poteva sottrarre a ciò che c’era da fare e se dovevamo andare in stalla non c’erano storie da raccontare. Cercare scuse è solo fatica mentale in più. Oggi, se ho quattro ore di allenamento da fare, le faccio senza titubare perché il dovere è dovere».
Quando non aiutava in famiglia, andava nei boschi insieme agli amici e con la mountain bike si divertiva a saltare i tronchi d’albero che trovava. Era divertente, per questo a casa ha più di sette biciclette: una per ogni specialità. L’unico rimpianto? «Ogni giorno vorrei provarle tutte, fare un tratto di strada con ciascuna, ma non è possibile». L’attenzione è sempre molta: per non esagerare, per rimanere lucidi. «Certo, voglio vincere, come ogni ciclista, e quando vinco mi emoziono, non dimentico, però, che il ciclismo è soprattutto il mio lavoro. Un lavoro che mi piace ma sempre un lavoro. La mia vita non cambierà di certo se invece di vincere venti gare ne vincerò quaranta. A sessant’anni non sarà questo a fare la differenza. Bisogna averlo chiaro».
Ed è questo lavoro a diventare sempre più difficile con il passare degli anni. Perché da giovani si vuole migliorare, si ha tutto da imparare e la spinta è molta, quando inizi a realizzarti tutto cambia. «Siccome hai raggiunto un livello alto ti viene chiesto di mantenerlo e se possibile di migliorare ancora. È sempre più difficile. Quando hai una famiglia diventa ancora più complesso perché partire per mesi e mesi e lasciare tutti a casa non è poi così bello come può esserlo da ragazzo».
«Noi non vinciamo solo per noi stessi. Vinciamo per tutte le persone che ci guardano e che magari vedendo quella vittoria possono cambiare qualcosa nella propria vita o anche solo essere contente per qualche istante. Vinciamo per le persone del nostro staff che non possono vincere» è qualcosa di cui Mohorič si è reso conto dopo la vittoria delle due tappe al Tour de France. Ricordarsi questo serve soprattutto in inverno quando le gare sembrano lontane e la motivazione può diminuire. «Se non ti alleni bene adesso, a luglio non sarai in forma e quando le persone ti aspetteranno tu non potrai fare nulla. Se non ho molta voglia, penso a questo».
Poi c’è ciò che bisognerebbe cambiare nel ciclismo e non sarebbe così difficile, in fondo. Per esempio, la sicurezza: «Noi non corriamo su piste e le strade non sono pensate per i ciclisti. Sono progettate per le auto con strettoie e rotonde per rallentarle. Duecento ciclisti a tutta velocità trovano ovvie difficoltà a transitare». Mohorič ha le idee chiare: come evolve la società, deve evolvere il ciclismo, magari cambiare regole. «Penso a una neutralizzazione anticipata nelle tappe di pianura, magari a dieci chilometri dal traguardo. Sarebbe più bello per il pubblico che vedrebbe passare gli uomini di classifica staccati, in tutta tranquillità e più sicuro per tutti».
Proprio per cambiare, per migliorare, nei giorni scorsi, Mohorič ha presentato la sua Fondazione, dedicata soprattutto ai giovani perché da loro parte tutto. «Al ciclismo sloveno un grosso apporto viene proprio dai giovani, dalla categoria juniores. È giusto esaltarli come enfant prodige, quando è il caso, ma prima di tutto bisogna affiancarli e aiutarli a crescere. Essere disposti a investire su di loro. Penseremo anche ai bambini, proveremo a metterli in bicicletta, a raccontare anche a loro cosa può essere una bicicletta. A spiegarlo alle loro famiglie».
Ciò che ha vissuto in bicicletta, Mohorič lo racconterà volentieri soprattutto «se lo vorranno, perché chi ti chiede di raccontare è predisposto ad ascoltare» e ascoltare è importante. Lui, per esempio, ha passato molto tempo ad ascoltare Damiano Caruso, a guardare la meticolosità del suo essere professionista e per Caruso questi sacrifici hanno pagato. Con Colbrelli ha invece condiviso le classiche: «Ha un motore enorme, chissà quanto avrebbe potuto vincere. Quest’anno, al Tour, era sempre al posto giusto, spesso sfortunato. Quando vincevamo era contento per noi, io però scorgevo quella voglia, quella fame nel suo modo di fare. Sono contento per il suo momento».
I progetti di Mohorič, invece, sono concreti. Come le pietre del Fiandre o lo scatto di un dente sulla catena sul Poggio alla Sanremo. Come la canicola estiva sulle strade di Francia al Tour, dove la Bahrain vuole da sempre fare bene. La condizione c’è, la voglia non è mai mancata. E per ogni cosa che non andrà ci sarà il lavoro, quello che Mohorič ha imparato in quei pomeriggi di ragazzo e ha custodito come valore.