Dopo più di un anno, Omar Mohamed Ali e suo padre si sono incontrati oggi all’aeroporto del Cairo e per più di tre settimane viaggeranno assieme nelle loro terre originarie, quelle d’Egitto. Omar correrà e pedalerà, papà lo aspetterà insieme alla squadra di supporto e al pomeriggio chiacchiererà con lui e visiterà città. In fondo è stato proprio papà a volere questo viaggio assieme. «Quando gli ho telefonato e gli ho detto che avevo intenzione di partire alla volta dell’Egitto, mi ha subito detto che, se fossi partito, lui sarebbe stato al mio fianco». Fino a qui potrebbe essere una storia come tante altre, invece no, perché Omar e papà sono stati lontani per troppo tempo e ancora oggi non si conoscono pienamente.
«Oggi so che la storia di mio padre è la storia di un uomo a caccia dei propri sogni. Da bambino non potevo neppure immaginarlo e avrei voluto fosse come tutti i genitori dei miei compagni di classe: quelli che andavano in campeggio, in montagna e al mare con i figli. Lui no, lui non c’era mai. Sono stato arrabbiato molti anni con lui poi ho capito che non avrebbe mai potuto essere come loro. Papà veniva da un paese povero, aveva combattuto la guerra del Sinai, l’aveva persa, e prima di conoscere mamma viveva in Inghilterra. Lì dove sarebbe tornato dopo il divorzio. Era consulente finanziario e in quegli anni nessuno qui avrebbe affidato i propri risparmi a un uomo di colore». Omar racconta che papà è cambiato, dice che la vera avventura sarà la riscoperta di quest’uomo e pensa alle domande che vorrebbe fargli.
«Nonostante tutto, in quegli anni ha mantenuto cinque persone. Da bambino quando mamma e papà si lasciano tu stai istintivamente dalla parte della mamma perché cresci con lei, papà è colui che ti ha abbandonato. Non è così. Mio padre, diventando anziano, ha sentito sempre più la mancanza della propria famiglia, è diabetico e in Inghilterra ha tutto, ma noi gli manchiamo. Vorrei chiedergli tante cose ma ho anche paura perché con lui non ho la confidenza tipica dei figli con i padri. Magari, se troverò il momento, gli chiederò se abbia mai pensato di rifarsi una famiglia. Lo vorrei sapere da tanto».
Il viaggio partirà da El Alamein. «Sono stato militare, andrò al sacrario e lascerò il mio cappello da alpino. Lo sento come un dovere. In fondo, El Alamein è una parte di Italia, in terra egiziana, dove durante la guerra hanno perso la vita troppe persone». Poi ci si sposterà verso Alessandria d’Egitto, la città natale del padre di Omar. «L’ultima volta che sono stato ad Alessandria era il 1992, per le vacanze d’agosto, a casa della nonna. Quell’anno ci fu il terremoto, la piramide di Giza venne danneggiata, e noi tornammo a casa solo a ottobre inoltrato perché i voli erano sospesi. La casa di mia nonna subì dei danni e pendeva da un lato, così, per far stare dritto il letto e riuscire a dormire, gli mettevamo dei libri sotto». Da qui, Omar si muoverà verso il Cairo e poi verso l’Oasi desertica di Bahareya. «Sarà una strada desertica di 400 chilometri. Farò circa 50 chilometri al giorno e ne uscirò in otto giorni. A fianco a me scorreranno due deserti: quello bianco, calcareo, di pietre e il “grande mare di sabbia” del deserto occidentale». E via verso l’oasi di Dakhla, di Kargha e finalmente Luxor, la Valle dei Re. L’ultima tappa, ad oggi, sarà Aswan, ma Omar confessa che, in fondo, gli piacerebbe arrivare ad Abu Simbel e, se ne avrà modo, ci proverà.
La domanda viene naturale: qual è la cosa che più ti spaventa? «Perdermi in mezzo al deserto. In Oman, nel 2019, mi successe, ma non ero solo. Qui, nonostante la squadra di supporto, passerò ore e ore da solo e quindi la paura è maggiore ma, come dico sempre io, se hai un obiettivo, lui ha te. Difficilmente ti perderai, se credi a questo. Forse è così che ho scelto il minimalismo, nello sport come nella vita. Non serve molto per farcela». In realtà c’è un’altra cosa a cui Omar crede e che lo aiuta: il destino. Ci crede da quella volta in cui papà gli raccontò della sua guerra. «Me ne parlò solo una volta e si vedeva quanto soffriva. Una spia israeliana fece attaccare la postazione di mio padre: molti rimasero feriti, un suo compagno gli chiese dell’acqua e papà andò alla base a prendergliela. In quegli istanti la postazione venne rasa al suolo. Papà riuscì a tornare a casa a piedi con altri diciassette compagni. Si nascosero fra i corpi dei soldati uccisi e si sporcarono di sangue per non farsi riconoscere. Due israeliani si fermarono proprio sopra il suo corpo, uno gli tirò un calcio: “È morto anche questo”. E proseguirono. Papà mi dice sempre che bisogna credere nel destino, che quando ci succede qualcosa di brutto è solo perché ci aspetta qualcosa di meglio. Lui ha passato tre terremoti, un uragano, la guerra, il Covid ed ha ancora voglia di scoprire, di viaggiare, di conoscere. Noi diciamo che ha la pelle del coccodrillo del Nilo, tanto è forte. Forse è il caso di ascoltarlo. Forse è proprio perché ho lui davanti che riesco a credere nel destino».