Seguendo il flow: Giulia Baroncini è arrivata a Chicago

Di Giulia Baroncini e del suo viaggio in bicicletta, da Trecenta, paese in cui è nata, a Chicago, sulle orme del viaggio di 130 anni fa, di Luigi Masetti, vi avevamo raccontato un paio di mesi fa, prima della partenza, ma, come molti dei fatti della quotidianità, l'arrivo di Giulia a Chicago, a inizio agosto, è stato diverso da come se l'era immaginato lei e da come, scrivendone, ce lo eravamo immaginato anche noi, così, al settantaquattresimo giorno lontano da casa, dalla camera riservata agli ospiti di una casa di Cleveland, una videochiamata ha riavvolto il filo del racconto. «Sto da Dio, altrochè» esclama decisa, seduta su una sedia, con una camicia hawaiana ed in mano una tazza di caffè ancora caldo, negli Stati Uniti è mattina presto, sul soffitto della camera un ventilatore le cui pale, ora, sono ferme.

«Da Chicago sono ripartita giusto l'altro ieri, avrei dovuto fermarmi tre o quattro giorni, mi sono fermata per dieci giorni e, quando sono ripartita, ero dispiaciuta, ma non era iniziata così bene. Qui non sono abituati al bikepacking, così, se vedono qualche viaggiatore in sella, lo fermano tutti e fanno le più svariate domande. A Chicago no, a Chicago mi fermavano tutti e mi dicevano solo "be careful", stai attenta. Queste parole sono state uno schermo attraverso cui, almeno nei primi giorni, ho vissuto la città. Sapevo che la città poteva essere abbastanza complicata, a tratti pericolosa, non così, però. Alla fine, come altrove, sono state le persone a salvarmi dalle paure». Giulia Baroncini spiega che senza gli incontri, probabilmente, sarebbe potuto anche essere noioso, perché una camera d'albergo ed il paesaggio non possono bastare a colmare le giornate di un viaggio. Le persone l'hanno salvata, portandola a fare kayak e mostrandole la città mentre si muovevano su un fiume, oppure accompagnandola in vetta ad un grattacielo per guardare tutto dall'alto, ad un concerto jazz o su una ciclabile accanto al fiume: «Questi due mesi per me sono stati molto intensi, sembrano passati anni da quel nove giugno. Ero arrivata ad un punto di saturazione, forse anche per questo quel "be careful" mi aveva spaventato più del solito, ero stanca. Chicago mi ha ricaricato, le sue persone mi hanno ricaricato e adesso, al pensiero che fra un mese sarà finito tutto, provo già una sorta di malinconia. Non fatevi influenzare da quel che dice la gente, non troppo almeno, vivete le esperienze sulla vostra pelle. Ricordatelo».

Proprio ricordando questo principio, Giulia Baroncini ha preso una decisione: da Chicago è salita su un treno e a Cleveland è arrivata in treno. Quelle strade, quei drittoni, nel nulla, campi, case e asfalto, li aveva già percorsi all'andata, e ora sa cosa è giusto fare: «Non devo fare numeri, non mi interessa tornare a casa e vantarmi dei miei 8000 chilometri in bicicletta, preferisco farne meno, ma gustarmeli. Mi spiego? Voglio dare qualità al mio tempo. Avrei perso l'entusiasmo di pedalare per continuare a chiedermi quando sarebbe finita. Non aveva alcun senso». Qui Baroncini si sofferma per qualche minuto: «Gli americani parlano di "get a feeling", avere una sensazione, provare qualcosa, ascoltare te stesso: ecco, noi dovremmo vivere e viaggiare così. Seguendo il "flow", il flusso, di quel che c'è e di quello che proviamo e, se non sentiamo nulla di buono, forse, dovremmo anche trovare il coraggio di lasciar perdere, di andare altrove, di fare altro. Dobbiamo fare qualcosa per noi, per essere felici». Così, il tempo risparmiato percorrendo quei 500 chilometri in treno Baroncini lo utilizzerà per fermarsi qualche ora in più con le persone con cui si trova bene, per vedere meglio una città. Già altre volte avrebbe voluto farlo e non lo ha fatto, adesso questa occasione non la perderà più.

Intanto a Cleveland, i proprietari di casa, che già l'avevano ospitata all'andata, le organizzano le giornate e lei resta senza parole: partite di baseball, gite e, qualche giorno fa, il giro "Little Italy", con amici italo-americani, che le hanno raccontato tanto della loro storia, di come sono arrivati lì, di come si sono stanziati, della ricerca delle loro origini: «Nel loro sguardo, mentre parlavano dell'Italia, ho capito quanto sia importante anche per me l'Italia. Ho sentito quanto sia bella, quanto siamo fortunati e, forse per la prima volta, ho detto ad alta voce che sono orgogliosa di essere italiana». Siamo abituati a sentirla ridere e anche ora Giulia sorride, ma i suoi occhi sono lucidi, la sua voce increspata: lei che non parla mai di mancanze, che esprime il concetto più totale di libertà, si è commossa. «Forse casa non mi manca, perché non so nemmeno io dove vorrei fosse la mia casa, la mia città. Vorrei casa fosse ovunque, mi sento a casa ovunque. Ho cambiato quattordici case, cinque o sei paesi».

Allora la casa di Giulia è in Svizzera, nelle sue ciclabili, a Lucerna, a Zurigo, in quel fiume dove le persone si tuffano, a Strasburgo, nella ciclabile lungo il Reno, a Bruxelles, che, dopo tante volte, questa volta, in bicicletta, sembrava nuova, a Canterbury, nelle sue campagne, nei suoi cottages, a Londra, nel movimento della città, a Manhattan, nelle sue luci, nella sua gente, di notte, a New York, vista, tempo fa, a Natale, ora in estate, fra qualche tempo, a settembre, in autunno, nella zona dell'Hudson, zona che di solito gli italiani non conoscono per motivi di turismo, a Buffalo, al Lago Erie, dove la vista si apre, all'Indiana Dunes National Park, nel tramonto sulle dune dorate del parco, sul lago Michigan, con Chicago sullo sfondo, casa è perfino nelle campagne e nei drittoni tra Cleveland e Chicago.

Casa è nell'ospitalità che l'America sa donare: «Si nota proprio una sorta di contentezza nell'avere un ospite a casa. Tutte le case hanno una camera in più per gli ospiti, porte aperte, ovunque. Vogliono conoscere, scoprire, se poi dici che sei italiano vanno in estasi. Qui sono abituati al mix di culture e sono affascinati dallo scambio culturale. Non avessi avuto il biglietto dell'aereo prenotato, forse avrei allungato ancora il mio viaggio. Non perché voglia vivere qui, non credo di volerci vivere, ma quelle piccole cose che accadono durante il viaggio mi danno una carica assurda per cui a casa, ora come ora, non vorrei tornare». Accanto alle parole, il rumore dei treni che Giulia ha registrato, perché particolare, diverso da quello che si sente in Europa.

C'è l'odore delle città, particolare, caratteristico, che identifica la città americana, tra mezzi di trasporto e rotaie, quello delle campagne da respirare a pieni polmoni, e c'è il sapore delle pannocchie che anche in Italia le ricorderanno l'America. C'è la lingua in cui si parla che è compagna di viaggio: «Le lingue mi piacciono perché sono una via per entrare nel profondo di una cultura. Qualcuno diceva che parlare la stessa lingua significa entrare nel cuore delle persone, è vero. Se si vuole raccontare qualcosa, ci si riesce, ci si fa capire, ma parlare la stessa lingua è un'altra cosa. Certe volte, ora di sera, sono stanca e faccio fatica anche io, ma mi sforzo lo stesso, le persone lo apprezzano. Mi sembra bello. Per questo motivo ho insegnato qualche parola di italiano a chi me lo chiedeva e ho spiegato come vediamo noi determinate cose: le domande sono un modo di avvicinarsi, di comprendersi».

Un ragazzo di Chicago le ha raccontato di aver vissuto a Bologna, anni fa, e di voler tornare in Italia in bicicletta per un viaggio in bikepacking. La bicicletta di Giulia Baroncini oggi è ferma, ripartirà domani, con un compagno di viaggio che, per quindici giorni, la accompagnerà nel tragitto di ritorno. Seguendo il flow, dei pedali, delle ruote, del vento in faccia, del viaggio.


Granguanche Audax Road 2023

“It’s a demanding route for experienced riders as it includes serious climbs, high mountains, and remote areas. Experienced means well trained, technically skilled, and wisely equipped. Exhaustion, sleep deprivation, and night rides add even more risk to a challenging ride. Participants are fully responsible for their safety and logistics.”

Queste sono le prime parole che leggo sul sito. Affascinante vero? La descrizione prosegue...

“Granguanche is a cycling route across the Canary Islands. It’s a ride to the next ferry planned in three options for any choice of bike and terrain. From sandy beaches to snowy peaks, through empty deserts, enchanted rainforests, moon-like volcanic landscapes, lush tropical canyons, sand dunes, black lava fields and ancient pine forests. This archipelago seems to host every corner of the planet…and some sights from another world.”

Le isole in questione sono le Canarie, distanti solo 100 km dal Marocco, i cui i paesaggi spaziano da spiagge di sabbia nera, deserti, foreste tropicali, paesaggi vulcanici che sembra di stare sulla luna, canyons vertiginosi, e boschi di pini, e sullo sfondo l’oceano che si confonde con il blu del cielo.

Ma facciamo un passo indietro. Che cos’è la Granguanche Audax? La Granguanche è un evento di ultra-cycling che attraversa l’arcipelago delle isole Canarie. L'evento segue le classiche regole e i principi degli eventi senza supporto di ultra-cycling, ma nello spirito dell’Audax, e quindi i partecipanti possono fare gruppo e drafting, cioè pedalare dietro un altro ciclista approfittando del fatto che blocca il vento. Si può scegliere tra tre tipi di percorso a traccia fissa - trail, MTB oppure road - e diversi tipi di pace, cioè le andature. Chi riesce a mantenere l’Audax pace e completare il percorso in meno di 48 ore, riceve addirittura il rimborso dell’iscrizione! Gli altri pace vanno dai 3 ai 5 giorni. In realtà non c’è un vero e proprio limite di tempo. Le andature fornite sono delle risorse per pianificare. Il tempo limite è dettato solo dai traghetti per le isole. È una gara del tutto personale contro il tempo, non contro gli altri partecipanti. Il ritmo lo decidi tu e la competizione è solo con te stesso. Il concetto è semplice: pedala nel minor tempo possibile per prendere il traghetto per la prossima isola.

La cosa mi stuzzica abbastanza da iscrivermi senza troppi pensieri.
Scelgo la traccia Road che consiste in 600 km di percorso e 14000 metri di elevazione, 5 isole e 4 traghetti. Il mio obiettivo è quello di seguire il pace dei 3 giorni: non così veloce come nel passo suggerito dell’Audax (2 giorni) ma neanche troppo rilassato come quello del party pace (5 giorni). Voglio godermi i paesaggi e aggiungere un po’ di sfida all’impresa.
Non sono tanto i chilometri a spaventarmi quanto il dislivello. Sono sempre stata lenta a salire e a vederli così i numeri mi spaventano. Ma sì, dai, al massimo finirò per avere una super abbronzatura e una vacanza alle Canarie! In fondo è così. Ci si imbarca in un’impresa perché hai quel dubbio che si insinua nella testa. Ce la farò? C’è solo un modo per scoprirlo.

Day 1

Lanzarote. Ore 07:00. Wahoo dice 101 km e 15:30 m TO GO.

Dormito pochissimo. Tutta colpa dell’adrenalina che non vuole scendere. Fuori l’aria è tiepida e tira vento da Nord-Est. Ottimo penso. Spero che questo vento a favore ci accompagni fino alla fine. La partenza è a Orzola, sulla punta nord di Lanzarote. Tra il mio alloggio e Orzola c’è una discesa ed è tutto bagnato. Fa niente. Sono troppo adrenalinica per mettermi su i copriscarpe. Alla partenza c’è già il pulmino degli organizzatori dove ritiro il mio pacco, cap 66, con il tracker, il cappellino e gli adesivi per la bici. Noto con piacere la presenza numerosa di donne cicliste alla partenza. Si percepisce un mix di emozioni sui visi dei partecipanti: volti timidi, sorridenti, preoccupati, spavaldi. Io provo una gran voglia di salire sulla mia Cinelli e pedalare libera, inseguendo solo quella traccia di Komoot scaricata sul dispositivo. Non bado tanto ai numeri totali dell’evento. Inutile pensarci. Mi ripeto una frase di Omar di Felice: “Se pensi è la fine, se pedali arrivi”.

Ore 08:00. Partita. Lanzarote vola accompagnata da un forte vento a favore che spinge. E noi ci lasciamo trasportare. Si attraversa El Jable, con le sue dune di sabbia, e il parco di Timanfaya, risultato di un’esplosione vulcanica di qualche secolo fa. Che paesaggio lunare e primordiale! Il mio amico Joel mi sta dietro e facciamo già amicizia con alcuni partecipanti. Spingiamo sui pedali e in 4 ore abbiamo attraversato l’isola e siamo al traghetto.

Fuerteventura. Wahoo dice 137 km e 2030 metri TO GO.

Al porto mi accoglie la mia amica Anna. Mannaggia è un secolo che non la vedo eppure è lì che mi saluta e fa il tifo per me! Che sorprese alle volte la vita. Breve sosta cibo e poi si rimonta in sella. Lasciamo Corralejo e mi si aprono davanti dune di sabbia infinite attraversate da un unico nastro nero. Una strada dritta. La traccia del mio Wahoo però non è così dritta e punta a destra. Si sale per Tindaya, la montagna sacra di Fuerteventura. I colori dominanti sono nero, rosso e marrone. Solo il blu del cielo e del mare fanno da contrasto. Lo sguardo si perde in questo gioco di colori ma le gambe non si stancano e continuano con il loro ritmo.
Si sale ancora verso il Mirador del Risco de las Peñas con qualche goccia di pioggia. E si scende in una discesa tecnica, tutta a zig zag, tra pareti vertiginose di roccia rossa e nera. Devo stare attenta perché il vento soffia e mi spinge ad ogni curva. Il tramonto arriva e il cielo si tinge di rosa e arancione. Mancano 30 km al porto di Morro Jable e recuperiamo lungo la strada Irene e Sean. Qualche scambio di battute e si arriva al porto dove la strada si ferma. Mi sdraio a terra, chiudo gli occhi e distendo i muscoli. Primo giorno andato. Due isole attraversate.

Day 2

Gran Canaria. Ore 06:30. Wahoo dice 136 km e 3560 metri TO GO.

La vita dell’ultra-cyclist non è facile. Ma ancor meno lo è quando hai da combattere il mal di mare. Il traghetto per la Gran Canaria ha messo a dura prova tutti noi ma una volta arrivati a Las Palmas, la nausea passa e ci mettiamo sulla bici! Ormai il nostro gruppetto è formato dal mio amico Joel Scozzese, Harriet Australiana, Irene Austriaca e Sean Canadese. Ognuno di noi ha una storia diversa che ci ha condotto alla Granguanche. Ti ritrovi con sconosciuti di nazionalità diversa, spinti ognuno da una propria motivazione, a pedalare verso il Pico de Las Nieves. La vita è pazzesca! Ma la salita non perdona. Sia che spingi sia che pedali, la velocità non cambia. Wahoo segna 21%, 27%, 28% di gradiente, forse di più ma non voglio guardare. È troppo per me. Scendo e rimango indietro con i miei mostri nella mente: domande che mi pongo e dubbi che si insinuano. Non mollo. Metto su Spotify e controllo Komoot. Tra poco spiana mi ripeto. Mi fermo a mangiare un po’ di Polvorones, un dolce spagnolo, che mi da un po’ di forza e sono pronta a ripartire. Salgo non solo in sella ma anche di quota. Siamo a 1850 metri di elevazione, una nebbia umida mi avvolge mentre mi ritrovo nella foresta. Riprendo Sean che sta faticando. E finalmente ecco il cartello per il Pico de Las Nieves! Poco tempo per gioire perché si sta facendo tardi e il traghetto delle 18:00 non aspetta. Ricevo dei messaggi ma non posso distrarmi. Segue un saliscendi tosto con panorami mozzafiato. Lo sguardo non riesce a cogliere tutta la profondità del paesaggio tra monoliti, canyon, precipizi e villaggi rurali arroccati sulle rocce. La vertigine mi prende e allora mi concentro sulla strada. Si sale di nuovo e riprendo Joel e Harriet. “Forza!” Li incito! “Dobbiamo raggiungere il porto!” E così finiamo la salita e scendiamo a velocità incredibile. Ad un certo punto un raggio di sole squarcia la nebbia e illumina un colle con dei pini, una casetta e in lontananza il mare. Siamo senza fiato di fronte alla drammaticità della natura. Uno spettacolo gratuito così semplice ma potente. Alcune immagini ti rimangono nella mente e nel cuore. Che bello è il pianeta!

Continuiamo a scendere. Mancano solo pochi chilometri ma le 18:00 sono appena passate. Vediamo un traghetto che prende il largo mentre il sole scende all’orizzonte: mannaggia, l’abbiamo perso! Per fortuna il prossimo è alle 20:00. Però ci si pone davanti una domanda: come facciamo a recuperare queste due ore perse? Il piano prevedeva di proseguire per ancora un paio di ore sulla prossima isola ma avendo perso la coincidenza non si può fare. Quando capitano gli imprevisti succedono due cose. O ti arrendi. Oppure mangi e ripianifichi. Ed è proprio in quei momenti che capisci di aver trovato la compagnia giusta. Infatti Harriet, Ire ed io condividiamo la stessa ambizione: finire l’evento in 3 giorni! Siamo toste, abbiamo gambe e bici: non ci manca nulla! Basta svegliarsi presto e pedalare. Nel frattempo arriva la notizia che Laurens ten Dam e Guillaume Bourgeois sono arrivati, e Lael Wilcox, la prima tra le donne cicliste, è già sull’ultima isola. Grandi! Hanno completato l’evento con l’Audax pace in meno di 2 giorni dall’inizio dell’evento! Ispirati dai primi arrivati, il morale torna alto e prendiamo l’ultimo traghetto alle 20 con destinazione Santa Cruz, Tenerife. Tre isole attraversate. Ne mancano solo due.

Day 3

Tenerife. Ore 03:30. Wahoo dice 144 km e 3780 metri TO GO.

Quando partecipo ad un evento di ultra-cycling e tocca svegliarmi nel cuore della notte ripenso sempre ad un’intervista di un famoso ultra-cyclist. Tra le varie domande, gli chiesero quale fosse il suo set up per dormire e lui rispose più o meno così: “Dormire? Questa è una gara di ultra-cycling, mica si dorme!”

E così mi tiro su e anche i miei compagni. Le ragazze sono già in piedi e Joel e Sean decidono di seguirci. Si parte nel buio. La maggior parte dei puntini di Dotwatcher sono fermi tranne i nostri che si inerpicano su per il Parque Rural de Anaga. Salgo con i miei 8-10 km orari costanti. Non voglio spingere. Non ancora. L’alba arriva illuminando La Laguna e in lontananza il Teide. Boom! Il Teide... E chi se lo aspettava? Un gigante anche da così lontano! Facciamo rifornimento a La Esperanza: non ci saranno altre soste perché la salita al Monte Teide è lunga e il traghetto non aspetta. Ormai il sole è alto nel cielo e mi inerpico in solitaria tra i boschi con il profumo inebriante dei pini. Joel e Sean sono indietro e Harriet e Irene avanti. Guardo il telefono, rispondo a qualche messaggio. Che bello sentire le voci familiari delle persone a casa: fa stare bene sapere che c’è qualcuno che ti segue e ti pensa. I boschi si diradano e ora c’è solo roccia e sabbia. Harriet mi scrive e mi dice di far attenzione al vento in discesa. Le gambe sono stanche per via della salita costante. E poi c’è lui. Quel gigante del Teide con la neve in cima. Ma chi se lo aspettava così bello, maestoso e immobile. Tutti quei ciclisti che gli passano accanto e si allenano. Lui invece è li con la cima al cielo e le radici giù in profondità nel fuoco del cuore della terra, da millenni prima che costruissero le strade per osservarlo da vicino. Il grosso è fatto mi dico. Ora mancano solo due piccole alture e si scende. Sembra facile ma non è così perché le due salite sono brevi ma si fanno sentire. Controllo l’ora e mi accorgo che mancano solo 50 minuti al traghetto! Tocca menare! Mi sono persa come al solito davanti alla bellezza della natura. In discesa mi piego talmente tanto che ho paura di cadere con le borse della bici. I freni non li tocco più, gli occhi puntati sulla linea bianca della strada e le mani stringono il manubrio. Pochi chilometri ancora e sono al porto. 14:15. Forza ce la posso fare. 14:20 entro in città. Maledetto traffico. Manca pochissimo al porto ma il traghetto è già partito. Mi avvio verso la biglietteria un po’ delusa. E poi alzo gli occhi: davanti a me vedo due bici parcheggiate e due cicliste sedute a terra. Sono Harriet e Irene! Anche loro l’hanno perso. I nostri sguardi si incrociano e scoppiamo in una risata liberatoria! Avremo anche perso il ferry boat per pochi minuti di nuovo ma abbiamo comunque coperto l’intera isola di Tenerife e recuperato quelle due ore del giorno prima!

La Gomera. Ore 17:15 . Wahoo dice 98 km e 2970 metri TO GO.

Sbarchiamo a La Gomera con il traghetto delle 16:00. Ultima isola, paradiso subtropicale ricoperta di verde lussureggiante, foreste di laurisilva, palme e felci. Alcuni partecipanti sono avanti a noi e finiranno sicuramente prima della mezzanotte. Ma noi non molliamo: siamo piene di entusiasmo, abbiamo voglia di pedalare e di divertirci. Ci sono ancora diverse ore di luce e la notte è lunga. Ci fermiamo a mangiare dopo 25 km in un piccolo ristorante ancora aperto, gestito da una coppia di anziani che ci prepara tortillas, pane e succo d’arancia. Addirittura ci preparano delle tortillas da portarci dietro come se anche loro sapessero quali sono le nostre intenzioni. Il cielo è scuro e si riempie di stelle. Una coperta di puntini luminosi scintillanti e le pareti di roccia verticali che si stagliano sopra le nostre teste. Luci accese, la notte è cominciata. Ormai è chiaro che avremo finito insieme. Un’italiana, un’austriaca e un’australiana a fare una notturna attraversando il parco Garajonay su un’isola dell’oceano atlantico con il vento che soffia. Scherziamo, parliamo di bici, di set up, di viaggi passati, di sogni futuri, di amori, di delusioni, di meccanica, di cibo e di ultra cycling. Passata la mezzanotte la stanchezza comincia a farsi sentire. In fondo sono 20 ore che siamo sveglie e stiamo sulla bici senza dormire o riposare. Matteo, l’organizzatore, ci scrive e consiglia prudenza perché l’ultima discesa sarà molto esposta con raffiche di vento. Seguiamo le nostre luci che illuminano la strada e aprono il varco di nebbia e umidità che avvolge i picchi più alti dell’isola. Il vento è gelido ma ci scaldiamo salendo e le nostre chiacchiere alleviano la fatica e la salita.

Wahoo dice 22 km e 0 metri TO GO

Finalmente anche l’ultimo metro di salita è conquistato. Incredule, ci fermiamo, ci abbracciamo e ridiamo. Veramente ora è solo discesa? La traccia non mente. È ora di scendere.
E con le bici fianco a fianco, allineate nel buio, arriviamo infine al porto di San Sebastian.

San Sebastian, La Gomera. Ore 0253. Wahoo dice o km e 0 metri TO GO.

Ci sarebbe tanto da parlare dell’ultra-distance e di come questi eventi ti cambino profondamente. Ma una cosa c’è da dire. Per me, il vero spirito di questa Granguanche non è stata la competizione, quanto la condivisione. E ho imparato che le salite sono belle, anche di notte. Ma in compagnia sono ancora più belle.

Report di Guendalina Capone
Foto: @matminelli


La TransAm di Omar Di Felice

Mentre parlava con un amico, qualche giorno fa, Omar Di Felice si è chiesto se fosse davvero successo, se davvero avesse conquistato la Trans America. Anche mentre ce lo racconta, in realtà, sembra chiederselo, tanto che, ad un certo punto, chiosa: «In fondo, già solo il fatto che ne stiamo parlando vuol dire che qualcosa di vero c'è. Probabilmente ho bisogno di restare a casa qualche giorno e pensarci da solo: lì capirò quel che è accaduto». Quel che è accaduto lo riepiloghiamo anche noi: Di Felice ha percorso 7000 chilometri e circa 55000 metri di dislivello, da Astoria, in Oregon, a Yorktown, in Virginia, in 18 giorni, 10 ore e 13 minuti. La Trans America era questo "viaggio" e Di Felice è stato il più veloce a compierlo. Ha vinto, il primo italiano a farlo. Nel restare a casa qualche giorno, c'è parte della sua festa per il traguardo conquistato, una festa che, però, ha caratteri particolari: «Ho quarantuno anni e quando ho iniziato non pensavo minimamente di poter fare quel che poi ho fatto: ho partecipato a 46 gare, 17 le ho vinte, in altre 17 o 18 volte ho raggiunto il podio. All'inizio credevo di dovermi tuffare sempre nel passo successivo, senza mai celebrare, senza mai festeggiare. Vivo di concretezza e continuo a pensare che non ci si possa cullare sugli allori, che sia necessario guardare avanti, fare altro, non vivere di racconti passati. Non mi piace chi lo fa. Ma una pizza con amici è una festa piccola, in fondo, che serve solo a ricordarsi quel che è stato. A ricordarsi che, nella vita, bisogna anche saper celebrare le piccole e le grandi cose. Io ho imparato». In quell'età, che Omar ripete più volte nella nostra intervista, c'è anche tutta la consapevolezza che si ha dopo più di quaranta gare, ma anche quella che si ha a quarant'anni e magari non a venti: una tranquillità nei problemi che, riflettendoci ora e guardandola dall'esterno, al di fuori dalle situazioni che l'hanno sfidata, meraviglia anche Di Felice stesso.

Si parla di quando una bomba d'acqua, con grandine a non finire, l'ha sorpreso in Colorado e fermandosi a dormire, per circa quattro ore, in attesa che le condizioni meteorologiche migliorassero, ha perso tutto il vantaggio accumulato fino a quel momento. In quegli istanti, con la stanchezza, può sopraggiungere il panico, invece no: «Ero in assoluto controllo, una sorta di pace dei sensi che mi portava a fare quel che era necessario, inevitabile in casi come questi, senza prendermela». Qualcosa di simile è accaduto anche in Virginia, dove un maltempo eccezionale, ha rovesciato al suolo acqua a non finire: Di Felice non ha più nulla di invernale, ha già spedito tutto a casa, fa freddo ed inizia a manifestarsi un principio di ipotermia. Nessuno apre alla porta del Bed and Breakfast che ha prenotato, sono le tre di notte, deve chiamare la proprietaria: entra grazie ad un codice fornitogli al telefono, si cambia, asciuga tutto e riparte. «Nel frattempo le ottanta miglia che avevo di vantaggio erano diventate venticinque. Pazienza, serve solo questo. Certo, quando riparti, riparti a tutta perché vuoi vincere, battagli per prendere il traghetto in tempo, perché vuoi vincere, ma devi accettare gli inconvenienti. Il ragazzo canadese che è arrivato terzo ha raccontato di aver vissuto molto male le forature, di essersi innervosito: umanamente lo capisco benissimo, ma bisogna pensare al fatto che in un viaggio di settemila chilometri è inevitabile forare ed in un viaggio attraverso quattro stagioni, perché questa è la Trans America, è impossibile non incappare nelle piogge forti o nel caldo asfissiante». Così, sorridendo, ci confessa di aver capito quel detto che afferma che "dopo i quaranta, arriva il bello", perché i suoi risultati migliori sono arrivati proprio dopo i quaranta e, soprattutto, perché, dopo i quaranta, è arrivata la capacità di focalizzarsi solo sulla propria persona.

«Quante volte mi sono preoccupato dei miei avversari in carriera? Ora non più. La prima notte ho dormito, anche se tutti i miei rivali non lo hanno fatto: non ho battuto ciglio, perché sentivo di averne bisogno. Ascolto il mio corpo e capisco ciò che mi chiede. Forse i risultati migliori sono anche dovuti al fatto che mi adatto maggiormente, i trentenni della mia epoca non erano così bravi a farlo. I trentenni di oggi sono diversi: vincono di più, hanno esperienza e capacità, arrivano prima, però si stancano anche prima. Le carriere credo si accorceranno anche nell'ultracycling, non solo nel professionismo. Ma, per quanto mi riguarda, i miei quarant'anni sono meglio dei miei trenta». Anni che, a tratti, forse, sono come quei drittoni che Omar Di Felice si è trovato di fronte in Kansas, lunghi, infiniti, strade che paiono finire direttamente nel cielo, mentre il vento soffia forte contro: strade che, per quanto difficili lo esaltano e, praticamente, non gli fanno sentire la fatica. Capita che la via che si percorre sia quasi un premio, questo sono stati gli ultimi quindici, forse venti, chilometri, sotto un sole meraviglioso, verso il traguardo. Se certe strade sono un premio, di certo una gara così è un viaggio, in cui si interagisce con le persone, per mangiare, per dormire, in cui si attraversano piccoli e grandi paesi, in cui si attraversa l'America: «Sono partito pensando al sogno americano, pedalando ho toccato con mano tutte le contraddizioni di una terra, di grandi e piccole città. Da un lato, nelle città, cartelli contro l'aborto, dall'altro fucili e armi vendute al supermercato, in autentici banconi, vicino al cibo. Un paese in cui gli uffici postali sono sempre aperti e chiunque può entrarvi, per dormire o cambiarsi: mi è capitato e mi sono sentito accolto. Un paese in cui le strade restituiscono l'idea della sicurezza. Non solo le auto sorpassano i ciclisti ad una adeguata distanza, ma mantengono anche una giusta distanza nel procedere in modo da riuscire a reagire in tempo in caso di cadute. C'è questo e c'è il junk food, il cibo spazzatura, di cui, comunque, ho dovuto nutrirmi in quei giorni: uova, bacon, polletti fritti, haribo, hamburger». Di Felice racconta di non essere assolutamente schizzinoso sul fattore alimentazione e spiega che, anche in questo caso, la parola chiave è adattamento: «Se hai bisogno di sali e non li hai devi mangiare cibi salati, lo stesso vale per gli aminoacidi e le fonti proteiche. Talvolta un Mars in una stazione di servizio può essere una buona soluzione. Adattarsi significa abituarsi e abituarsi significa tenersi allenato a digerire in ogni situazione e condizione, anche in allenamenti lunghi o situazioni sfavorevoli. Io provo tutto questo già in preparazione. Quello a cui bisogna fare attenzione sono sempre le condizioni igieniche dei posti in cui si va. Questo è essenziale».

Due giornate difficili, probabilmente le più difficili, arrivano proprio in Kansas: circa ottanta chilometri senza potersi rifornire di acqua, mal di testa, giramenti di testa, in una giornata che non finiva più. Omar Di Felice la gestisce e la supera, soprattutto, non raccontando nulla sui social, non lascia modo ai suoi avversari di capire questa difficoltà e di attaccarlo: «La strategia è tutto. Io mi ci focalizzo molto e penso che anche i miei avversari lo facciano. L'ultimo giorno, quando ho avuto un principio di ipotermia, non ho detto il motivo: di qualcosa si saranno accorti, perché il vantaggio calava, ma non potevano averne la certezza. Forse anche per questo non mi hanno attaccato, forse semplicemente perché non avevano le gambe». Quando arriva a Yorktown, Omar Di Felice è molto provato fisicamente, oggi ammette che, se ci fossero stati cento chilometri in più, avrebbe fatto fatica a farli, e che, gli ultimi chilometri, li ha percorsi solo con la testa. Per giorni, dopo il ritorno, ha avvertito dolore a fare le scale, a causa di una spossatezza che non lo lasciava; ha ripreso a pedalare, lo fa "dignitosamente" ma senza alcuna possibilità di fare performance, per quello servirà ancora un mese e mezzo, forse due. Una valutazione che è, comunque, sempre soggettiva e dipende da quanto si è raschiato il fondo del barile.

C'è stato un attimo, durante la Trans America, mentre era in testa da solo, in cui Omar Di Felice si è detto: «Se vincessi, perché non chiudere così? Perché non terminare qui la tua carriera? Potresti chiudere alla grande». La domanda vera era un'altra: qual è il momento giusto per smettere? «Di certo smetterò quando sentirò di essere ad un buon livello, non vorrei trascinarmi lungo gli ultimi anni di carriera, ma non è ancora il momento. Fare quello che faccio non mi pesa, non mi pesano i sacrifici. Riesco a bilanciare i momenti gara e di sforzo e quelli di stacco, godendomeli entrambi. Sono convinto che sia giusto riempire la vita anche di altro, non solo del ciclismo, e provo a farlo. Così mi sono risposto che non è ancora il momento di smettere. Che, poi, smettere è sempre tra virgolette perché alla bicicletta mi dedicherò sempre lo stesso». Sì, Omar Di Felice continuerà a gareggiare e molto probabilmente a vincere. Da qui nasce l'ultima domanda. Ma se Di Felice non avesse vinto tutto quello che ha vinto, se fosse stato un onesto pedalatore, senza acuti, avrebbe continuato lo stesso in questo percorso in sella?

«Sì, credo proprio di sì. Ho sempre voluto far parte di questo mondo, ho fatto tante rinunce, tanti sacrifici e alle prime gare, quando le cose non andavano così bene e arrivavo al traguardo con fatica, ricordo che provavo la stessa soddisfazione di oggi che vinco. Per essere soddisfatti non serve per forza vincere, sebbene la vittoria sia quello per cui tutti gareggiamo, si trova soddisfazione in tanti piccoli miglioramenti, si trova soddisfazione nell'insistere, nel tenere duro e nel dimostrare, a te stesso prima che agli altri, che quel traguardo per cui tanto hai lavorato puoi raggiungerlo. Ancor di più se non nasci con un particolare talento. Non sembri falsa umiltà, non lo è. Io non sono nato per questo, ne sono abbastanza convinto. Da giovane, quando l'ho capito, ci sono rimasto male, perché avrei voluto avere quel talento cristallino di quelli a cui riesce tutto semplice. A me non è mai riuscito semplice nulla. Poi ho capito che il talento da solo non basta, che se non si lavora sodo, ci si perde anche con il talento. Così sono orgoglioso della mia fatica e di tutto quello che ha comportato. Tempo fa, leggevo che Javier Zanetti, il capitano dell'Inter, per molti anni, si allenava persino in aeroporto, prima dei voli per le partite. Mi sono rivisto in quelle parole, perché mi è capitato e mi capiterà ancora, anche se, guardandomi vincere, magari non ci si pensa». Succede agli atleti e Omar Di Felice si sente solo questo: un uomo e un atleta.

Foto: di Elisa Raney e Rand Milam


Diario dall'Alaska: il rispetto del freddo, la comprensione della paura

C'è un essere vivente impietoso che stringe, come in una morsa, chiunque stia percorrendo l’Iditarod Trail, in Alaska. Pesa sulla schiena, mentre, in ginocchio, si tornano a gonfiare gli pneumatici che hanno perso pressione proprio sotto l'agguato di questo animale: è il freddo. Willy Mulonia ricorda il suo professore universitario, si chiama Chechu (Ceciu), e quella volta in cui gli chiese se il freddo potesse essere un'emozione: fu proprio Chechu a dirgli di sì, mentre i suoi colleghi gli spiegavano che, al massimo, poteva essere una sensazione.

«Il freddo è un'emozione - ci spiega Willy- perché diventa l'elaborazione di tutte le cose che senti e che, così trasformate, riconoscerai al prossimo incontro e saprai come affrontarle». Il freddo che non è da temere, ma da rispettare, anche quando si presenta col buio, nel buio, ed è davvero spaventoso: fatichi a vedere a causa del ghiaccio che penzola dalle ciglia, però distingui nettamente le impronte dei lupi sulla strada e il cervello rischia di andare in tilt. Perché il freddo induce al delirio, prima, ed al congelamento, poi.

Ti fa fare cose che non faresti mai, così ti blocca, inibisce ogni possibilità di reazione. «Quando senti freddo è troppo tardi, come quando senti fame in una tappa dolomitica. Col freddo si mangia come lupi, gli stessi di cui vedi le orme. Devi fare attenzione a non rompere niente, perché le basse temperature rendono tutto più fragile, sottoposto alla rottura. Tranne la neve che si ammassa, si fa più dura e apparentemente sembra più facile da percorrere, se non fosse per la pressione delle gomme che, proprio il freddo abbassa di colpo». L'unica possibilità è prevenire, in questo sta il rispetto.

Sul manubrio di Willy, Tiziano e Roberto c'è un termometro analogico, acquistato da Willy in Finlandia. Gli altri concorrenti non capiscono a cosa serva, perché sia lì. Willy Mulonia lo ha ben chiaro: basta abbassare lo sguardo per prendere coscienza della temperatura e coprirsi prima che sia troppo tardi. Sì, coprirsi ma non troppo perché, se si inizia a sudare, è la fine. Un altro nemico, ostico, fra i tanti dell'Alaska. Ogni tanto lo sguardo va verso il cielo: «Giove e Venere sono vicinissimi. Me lo ha detto Roberto, giusto qualche giorno fa, così, quando lo noto, penso che lui è davanti a me, rifletto su quanto davanti e, poi, continuo a pedalare». In diciassette ore, Willy, Tiziano e Roberto hanno fatto un tratto che normalmente si fa in due giorni, “un'impresa eroica nell'impresa stessa" come direbbe Giancarlo Brocci, e Nikolaj è sempre più vicina. Ci sono le impronte del fratello Tiziano davanti a Willy e lui prova a capire di che impronte si tratti: «Se è la camminata di qualcuno che è stanco, sfinito, oppure affamato o se sta camminando perché vuole scaldarsi i piedi. Il problema è che quando fa così freddo non ci si può permettere di pensare agli altri. E ora, proprio ora, il termometro segna meno quaranta». Di rispetto e di non paura è il rapporto col freddo, ma la paura è parte di ogni viaggio, soprattutto da queste parti.

Nei primi tempi, Willy Mulonia temeva l'acqua, poi ha capito come affrontarla, come difendersi dai suoi pericoli e questo non è scontato perché la paura allerta il cervello e rischia di causare una reazione che non serve, spropositata, che è un inganno della nostra mente. Si tratta di un'emozione primaria che, certamente, ha anche dei lati positivi: «Serviva per stare all'erta, per fronteggiare la bestia selvaggia, fuori dalla grotta. Un eredità che trasciniamo ancora oggi nel nostro quotidiano da allora. Il nostro cervello è portato a focalizzarsi sul negativo». La paura è umana, non può esisterne l'assenza, esiste piuttosto la convivenza con questa emozione. Quando si parla di essere valorosi, significa riuscire a fare questo, evitare il "sequestro amigdalino", come lo chiamano le neuroscienze: «Confondi un uomo con una tigre, tutto diventa più grande, smisurato, impossibile da affrontare. Noi esseri umani, tra l'altro, siamo abituati a giudicarci di continuo. Non valutiamo gli errori, li giudichiamo e, con quelli, giudichiamo noi stessi».

Il valore sta nel riuscire ad aprire lo stesso quella porta e a muovere il primo passo verso ciò che ci spaventa, perché, solo dopo quell'esperienza, si riesce a conoscere un'altra parte di noi, più completa o, sicuramente, mai incontrata prima. «Si può farlo in Alaska od ovunque nel mondo ed in qualsiasi ambito, a patto di lavorare sulla fede in noi stessi. Sulla fiducia che abbiamo delle nostre capacità. Non si raggiunge solo ciò che si vuole, si raggiunge ciò che si necessita, di cui si ha bisogno». Qui Willy torna a San Tommaso e Sant'Agostino: il primo con il suo "se non vedo, non credo" e l'altro con un capovolto "se non credo, non vedo".

«Concordo con Sant'Agostino. Penso sia indispensabile credere fortemente al proprio obbiettivo a ciò che si vuole raggiungere per poi vederlo effettivamente». Prima di tutto, però, c'è la conoscenza della propria persona che è la base, la regola incisa su una pietra all’ingresso del Tempio di Apollo: "Conosci te stesso". Soprattutto perché questa conoscenza permette di ridimensionare la paura del resto: «Si tratta comunque di qualcosa di occulto, ma, in questo modo, è possibile aprire la porta ed affrontarlo, scoprirlo e, quindi conoscerlo». C'è l'essere, ovvero il conosci te stesso, il saper essere, quindi la capacità di relazionarsi con gli altri, e, infine, il saper fare che è il virtuosismo di ciascuno, qualcosa che si fa per noi stessi e per gli altri. «La paura si affronta come l'Alaska, essendo umili, non arroganti, ma coraggiosi. C'è un libro intitolato "Il cammino dell'eroe": da quelle righe capisci che l'eroe è una persona semplice, genuina, che ha sofferto, che ha imparato. E quando sei solo, a spingere la tua bici, ci pensi e ti fai coraggio».

Willy sorride, pensa alla strada che ha fatto, a quanto l'Alaska, ancora una volta, l'ha cambiato, poi torna a parlare: «Platone diceva: “Ognuno può essere eroe per amore". Siamo chiamati a questo».
Proprio così, nulla da aggiungere.


Cape Epic: questione di autenticità

Keegan Swenson è certo che, in bicicletta, serva solo essere quel che si è, fino in fondo. Potremmo dire che Swenson creda alla verità di una bicicletta o, forse, che creda alla verità che ogni persona può raccontare: in sella oppure giù dalla sella. Lachlan Morton dice qualcosa di simile: quando racconta che l'idea di correre la prossima Cape Epic, dal 19 al 26 marzo, con Swenson, lo ha preoccupato, innervosito perché "Keegan è un fuoriclasse e io non sono sicuro di esserne all'altezza". Di più: Lachlan Morton spiega di aver avuto timore e proprio il fatto che lo ammetta fa parte di quell'autenticità che Swenson cerca. Importante è soprattutto che, facendo leva su quel timore, su quella paura, considerando quello stato d'animo, dandogli valore, Lachlan Morton abbia accettato la proposta di Keegan e, in Sud Africa, correrà al suo fianco.
Quella di cui parla Morton è una sorta di proprietà della paura che, se riconosciuta e fronteggiata in un certo modo, può diventare un moltiplicatore di bellezza: "Ho detto sì proprio perché mi sembrava una prospettiva scoraggiante, perché ero nervoso e preoccupato". Perché, aggiungiamo noi, dietro questi timori c'è la possibilità di provare ancora qualcosa di nuovo, addirittura di inesplorato: essere messo in difficoltà come via per andare più a fondo, per scoprire un'altra profondità in quello che si fa. Questo è il significato di quello spontaneo: "Non ero mai stato così nervoso prima di una gara, è bello".
Gli ultimi mesi di duri allenamenti del duo Morton-Swenson si sono mossi in questa prospettiva, con sullo sfondo il Sud Africa: rocce, polvere, sabbia, terra, una vegetazione diversa da conoscere, con cui entrare in sintonia per riuscire a conviverci, per arrivare fino in fondo e fare bene. Il meglio possibile. Si parla di podio e, quando si parla di podio, neanche troppo velatamente si parla di vittoria, almeno di una o due frazioni. Sarà certamente una fra le coppie da attenzionare: pare che Lachlan apporterà le proprie conoscenze tattiche e Keegan la propria esperienza. Dal canto loro, quando potranno, rivolgeranno l’ attenzione alle altre coppie sul percorso, soprattutto a quelle meno note e, ancor di più, a coloro che saranno lì con il solo desiderio di completare la prova, di arrivare al traguardo. Anche questo ha a che vedere con la verità di una bicicletta, con la verità di chiunque pedali: può essere bella, talvolta ancor più interessante, pure la storia di chi non chiede altro che provare e serve molta autenticità per questo.
La stessa dell’essere sfatti dalla fatica, dalle energie che non si recuperano, dalle cadute e dagli errori che, comunque vada, alla Cape Epic faranno tutti. Vincere non sarà questione di mancanza di errori, sarà, semmai, questione della capacità di riparare agli sbagli, propri e del proprio compagno. Swenson e Morton ci faranno divertire.


Diario dall'Alaska: la mente ed il fuoco

Qualche giorno fa, Willy Mulonia era ancora in quel bosco di abeti neri e betulle, di quel grigio monotono che, in Alaska, torna a ripetersi di continuo, senza stacchi. Era in quel bosco di alberi, che definisce anime perse, per provare la partenza di Iditarod Trail Inviitational, con il fratello Tiziano: quarantacinque chilometri e la neve che cade incessantemente dalla mattina. Il fiato smorzato dal freddo e il ricordo che, l'anno scorso, quello stesso tratto l'aveva percorso in quattro ore, quest'anno ce ne sono volute otto. Quando Willy inizia a parlare, la prima considerazione è tagliente: «Se ci pensassi, sarebbe un disastro, una catastrofe». Ma, per fortuna, non è tutto qui e Willy Mulonia, nel tempo, l'ha compreso bene. Si tratta di un segreto nella gestione delle esperienze: «Non bisogna mai paragonare e di conseguenza mai giudicare. Un binomio fondamentale perché la mente ha un ruolo importantissimo in questi casi. L'anno scorso in questo tratto, su questa salita, stavo pedalando, ora sono a piedi e spingo la bicicletta. Quante cose sono cambiate? Più torno in Alaska, più capisco che le cose cambiano. Più passano gli anni e il cambiamento diventa una realtà con cui interfacciarsi perché, all'improvviso, impieghi molto più tempo per fare cose che, prima, facevi in velocità, naturalmente». Già, il cambiamento a cui bisogna saper dare la giusta lettura per riuscire a continuare. Willy Mulonia questa lettura la divide in tre fasi.

Si riconosce il cambiamento, si accetta la realtà modificata e, soprattutto, si cerca di far sì che questo nuovo aspetto delle cose possa giovarti, in qualche modo. «Non puoi parlare alla mente in maniera negativa, perché il cervello non recepisce questo messaggio. Se ti chiedo di non pensare ad un elefante rosso, tu ci pensi. Se all'inizio di questa salita, mi dico di scendere di sella perché non ce la faccio, mi sto parlando male. Invece devo parlarmi bene: scendo di sella per risparmiare energie. Si tratta di un dovere che abbiamo tutti». Intanto là, in fondo, c'è Tiziano che ha girato la bicicletta e sta aspettando Willy, per andare assieme alla cabin che è «posto di giubilo, di felicità, di premio, di ricompensa dopo la giornata». Nella tormenta, ci spiega Willy, si forgia il carattere, nei momenti di calma si accresce il potenziale e questo, nonostante la fatica, è un momento di calma, perché la gara non è ancora iniziata: un allenamento del genere ha permesso di ripassare i punti forti della propria capacità, delle proprie abilità. Si impara, è questo il punto: un banco di scuola in cui nessuno insegna, al massimo qualcuno aiuta ad imparare. E quel temperino, che è l'Alaska, forgia la matita che poi scriverà. La matita è sempre Willy che si parla in positivo, senza giudizio. Magari pensa al mare.

Adesso sta smettendo di nevicare, un altro premio, dopo la fatica. Piano piano si va verso l'uscita del bosco, verso Butterfly Lake: «Il bosco è spesso vissuto come groviglio, come luogo di estrema difficoltà, invece, se sai parlarti bene, il bosco è un luogo di sicurezza, perché, appena ne esci, il vento soffia forte, ti castiga, ti punisce. Nel bosco puoi ripararti, l'animale ferito va nel bosco per curarsi e l'uomo nel dolore dovrebbe camminare nella natura. Come il lupo, il bosco non è pericoloso, è, ad esempio, il luogo dove trovi la legna per il fuoco». Sì, il fuoco. Per Willy Mulonia è vita e morte, è sicurezza, calore, ma anche rischio, pericolo fuori controllo, è rinascita e distruzione. Anche la forma delle fiamme che, dalla grande base, ballano, spingendosi verso l'alto, sembra quasi una divinità.

Willy, Tiziano e Roberto si ritrovano insieme e ognuno ha un suo compito, qualcosa che gli riesce naturale, che lo contraddistingue: Tiziano si occupa del meteo, Roberto della traccia e Willy si prende cura proprio del fuoco. Anche in estate, quando è nella natura, osserva le piante, la loro corteccia, il luogo ideale per costruire un giaciglio o per accendere una fiamma, con un cerino, come gli ha sempre detto un suo caro amico che oggi non c'è più: «Dai, fammi vedere se sai accendere un fuoco con un cerino». A questo scopo, sono quattro i kit che Mulonia ha portato: quei cerini sono sapientemente protetti dalle intemperie. Uno di questi kit lo tiene addosso, «nel caso in cui la bici dovesse finire in acqua. So dove li ho, non devo cercarli. Sono una sicurezza».

L'accensione del fuoco è un rito, la prima cosa che Willy Mulonia fa, dopo essersi ben coperto, per tenere al caldo il corpo e ascoltarlo raccontare ogni gesto a tal fine è come una storia: il momento dell'arrivo, la ricerca del posto migliore, la neve che viene spostata, la pulizia della base del pino, controllando che sopra non ci sia neve, fare un tetto, il taglio dei rami, l'isolamento del luogo dove ci si sdraierà la notte e i materassini pronti. «Non troppo lontano dal giaciglio, preparo un buco nella neve, una base con dei tronchetti di medio taglio, utilizzando una catena di una motosega con due maniglie al fondo, e sopra metto la corteccia delle betulle che inseguo ovunque con gli occhi, pensando a quanta potrei prenderne per il mio fuoco». Così, attraverso la legna accumulata dal taglio e dalla pulizia delle piante secche, si nutre il fuoco. Lì, ci si riunisce, un whisky a sera, qualche parola, poi si va a dormire e il fuoco, lentamente, si spegne durante la notte. Quel fuoco, in Alaska, è, per Willy, Tiziano e Roberto, focolare domestico dove si riunisce la famiglia. Quelle fiamme ipnotizzano, come l'acqua del mare, di un fiume o la vita di un bambino che è appena nato, il suo movimento.

Ora ha proprio smesso di nevicare, la cabin è lì, vicina, la giornata è finita: un cerino, una striscia per sfregarlo e il suo suono. La concentrazione dell'attimo in cui bisogna far partire la prima scintilla, il primo scoppio, perché non si può sbagliare: «Se pensi ad altro, non accenderai mai il fuoco. Se vuoi dar vita a una divinità, non puoi sentirti più importante di lei. Il fuoco ti salva, il fuoco ti distrugge. Tutto qui».
Sì, tutto qui, almeno per oggi. Il 26 febbraio è partita l’avventura di Iditarod Trail Invitational e da lì, per Willy, ci saranno ancora pagine di diario da riempire.


Diario dall'Alaska: Love Joy Drive

La pelle di Willy Mulonia è una cartina geografica. I primi a scoprirlo sono stati i figli di Willy che, sin da bambini, hanno dato un altro nome alla vitiligine che ha colpito il tessuto cutaneo del padre. Così, seduti sulle sue ginocchia, abbracciandolo, esploravano quella carta geografica e, dall'altra stanza, li sentivi gridare: «Questa è la Patagonia! Questo, invece, l'Alaska!» e così via, in una geografia tutta loro. Willy, che in quei giorni stava facendo i conti con la convivenza con la vitiligine, trovava in questo gioco il modo migliore per accettarla: su quella pelle, alla fine, qualcuno poteva vedere il mondo, anche quello talmente lontano che, in una sera di alcuni anni dopo, a cena, ha fatto chiedere al figlio: "Papà, perché torni in Alaska?". Il nostro "Diario dall'Alaska" parte proprio da questa risposta, mentre lì è già mattina, Willy Mulonia si sta allenando per Iditarod Trail Invitational e dal cielo è caduto un metro di neve in appena tre giorni.

«Potrei dire che ci ritorno per un fatto estetico, perché mi piace, ma non avrei detto tutto. Ritorno, soprattutto, perché è il mio luogo nel mondo, quello in cui ritrovo me stesso. Qui non c'è la mia famiglia, eppure quando sono qui mi sembra di non essermene mai andato. Tutto riparte da capo, dal punto esatto in cui si era interrotto». Ogni volta, però, è diversa, perché diverso è il viaggiatore anche se si tratta sempre di Willy, lui che quest'anno ha avuto un timore nuovo, un nuovo dubbio: «E se l'Alaska, questa volta, dovesse spaventarmi già dai vetri dell'aeroporto?». Una domanda a cui non c'è risposta razionale, almeno sino all'arrivo, ma a cui anche i sogni della notte provano a dare tranquillità. Un sogno nuovo che lo riporta a un vecchio viaggio, quando, anni fa, in Amazzonia, una famiglia ha accolto Willy per molto tempo e, prima che ripartisse, il padre lo ha preso da parte: «Vedi questo tatuaggio che abbiamo tutti noi sul collo e sul viso? Indica l'appartenenza a questa casa, a questa famiglia. Vorremmo inciderlo anche sulla tua pelle, in modo che, ovunque sarai, saprai di appartenere anche all'Amazzonia. Pensaci questa notte, domani ci dirai». Non fu una notte facile per Mulonia che, al mattino, rispose forse nell'unico modo possibile: «Non posso, nonostante vi sia grato per questa idea. Non posso perché non starò qui ma tornerò a casa, in un altro paese lontano e le persone di quel paese non capirebbero. Nemmeno io riuscirei a spiegare tutto questo». Ancora oggi, Willy pensa a quel giorno, riflette e si chiede se abbia fatto davvero bene a rispondere così, però, qualche notte prima del volo aereo ha sognato un’accoglienza simile da parte delle persone che vivono in Alaska e, probabilmente solo allora, si è sentito davvero tranquillo, davvero pronto.

I bagagli, i voli aerei, le nuvole dall'alto in basso e di nuovo la terra, via verso una casa che, da sempre, ospita Willy, suo fratello Tiziano e Roberto Gazzoli, a dieci giorni da Iditarod. Le indicazioni portano in Love Joy Drive, dove c'è quell’abitazione: «Solo la via, con le parole amore e gioia, sembra un’apoteosi del viaggio. Anche se so cosa c'è là fuori: il freddo, il gelo, il ghiaccio, il buio e le alci che sono un pericolo da queste parti. C'è la fame, la sete, la sofferenza e il dolore. C'è anche la possibilità di ritrovarsi, di tornare avendo aggiustato qualcosa dentro». Willy Mulonia porta l'esempio del temperino e della matita: è un atto ruvido il temperare la punta, ma necessario. E le punte temperate non servono solo alle matite per scrivere, pure agli uomini per vivere. L'Alaska è il temperino e Willy è esattamente dove vuole essere. Willy e Tiziano, fratelli da sempre, che da queste parti diventano ancor più fratelli. Si guardano come non si guardano mai, si parlano come non si parlano mai, si ascoltano allo stesso modo e si dicono cose che, senza l'Alaska, non si direbbero.

Mentre parliamo, in sottofondo, la radio trasmette una canzone di Ornella Vanoni e Mulonia ci dice che è la sua musica preferita prima di eventi di questo tipo. Soprattutto quando c'è la malinconia delle cose che succedono e non dovrebbero succedere. L'altro ieri, sulle sponde del lago Shell, sul percorso di IditaRod, c'è stato un incendio. A bruciare è stato Shell Lake Lodge, un rifugio per tutti coloro che percorrono le strade dell'Alaska, un luogo dove gli "Angeli del Trail", così li chiamano da queste parti, aspettano i corridori e li assistono con molta umanità. Dove c'è Zoe, che gestisce il rifugio da molti anni: una signora che Willy e Tiziano hanno anche aiutato con dei lavori, in cucina, per permetterle di muoversi più comodamente. Una signora che oggi il pensiero non vuole non proprio lasciare: «Sarà triste passare da quelle parti e non poter entrare in quel rifugio. Però, su gofoundme, c'è una racconta di fondi per Shell Lake Lodge, tutti possono fare qualcosa affinché il brutto lasci un poco di spazio al bello della solidarietà. Quest'anno cercheremo un altro rifugio, ma a Zoe continueremo a pensare perché il dolore di una persona lungo il trail è sostenuto e compreso da chiunque, almeno una volta, sia passato di lì».
Intanto, con quella musica nell’aria, si preparano i pacchi che, entro sabato 18 febbraio, verranno inviati dall'organizzazione nei vari villaggi per i ciclisti che arrivano. «Se i ciclisti arrivano, bisogna aggiungere. Anzi, se arriveremo. Ma, anche nel caso in cui non arrivi nessuno di noi, quei pacchi non saranno stati spediti invano, perché verranno aperti dagli altri concorrenti e sarà comunque bello. Anzi, aprire un pacco che non sei stato tu a preparare è ancora più emozionante, quasi come scartare un regalo. Non sai cosa c'è dentro, ti sorprendi ogni volta».
Willy e Tiziano sono pronti, domenica arriverà Roberto, e l'Alaska sarà ancora il filo rosso che li unisce. Nell'ultimo anno, sono stati assieme, come in questi giorni, tre volte e tutte e tre le volte c'era qualcosa che aveva a che vedere con questa terra, fredda e lontana. Hanno scelto il loro nome: "Itialians". ITI come l'abbreviazione di Iditarod Trail Invitational, il resto, invece, è un richiamo all'origine, all'Italia, luogo in cui torneranno dopo che l'Alaska avrà affilato le punte delle loro matite. Sempre uguali e sempre diversi. Il viaggio è appena iniziato.


Quando la fatica è fuori controllo: una riflessione con Mattia De Marchi

Questa volta, partire era più difficile. Mattia De Marchi inizia più o meno così il racconto di Atlas Mountain Race 2023: 1300 chilometri e 20000 metri di dislivello, da Marrakech a Essaouira, in Marocco. Era più difficile soprattutto perché la partenza era la sera, alle diciotto, e, in tutte quelle ore, dal risveglio, i pensieri hanno modo di prendere forma: «Quando ti alzi la mattina e devi correre per partire, non hai quasi il tempo per riflettere su quello che stai facendo. Sul fatto, ad esempio, che resterai solo per alcuni giorni e potrà succedere qualunque cosa. Ora di sera, invece, ci rifletti e quel pensiero un poco ti segna». Tutte cose che, almeno nel caso di Mattia De Marchi, sono andate via dopo le prime pedalate, quasi come se il vero blocco fosse l'inizio, i primi metri, perché, poi, quelle sensazioni si conoscono bene, anzi si riconoscono come qualcosa di familiare e non c'è più tempo per pensare. Così De Marchi parte bene e per un paio di giorni scorda ogni cosa. In Marocco fa freddo, non solo sulle vette, anche nei paesi in cui ognuno cerca di mettersi a disposizione, di aiutare, laddove, forse, si conosce il vero Marocco «una terra che ha poco a che vedere con l'immagine che ne abbiamo noi, con la sua parte turistica, una terra a tratti scavata dalle difficoltà e per questo vera, reale. Uguale alla disponibilità di queste persone».

In quei momenti, per De Marchi anche dormire fuori da un negozio, in un sacco a pelo, con una temperatura vicina allo zero sembra perfettamente naturale. Eppure qualcosa di strano c'è: quando si mette a dormire, il respiro di De Marchi diventa affannoso e veloce. Ci si pensa per qualche istante e poi non più. Ma quel respiro è già un segnale del limite, della fatica. La fatica è pane quotidiano in eventi come questo: il suo sintomo più classico è il collo che cede, l'impossibilità di tenerlo alto, di guardare avanti. «Ho visto persone che mettono un rotolo di carta igienica sotto il mento per proseguire, qualcuno che usa la camera d'aria per aiutarsi a stare dritto, per poter continuare. Una cosa è certa: uno sforzo simile non fa bene al fisico, bisogna saperlo. E bisogna anche sapere che potrebbe arrivare il momento in cui l'unica cosa razionale sia quella di scendere dalla sella senza farsi prendere troppo da ciò che si sta facendo, pensando solo alla propria salute». Potrebbe sembrare naturale, quasi scontato, invece non lo è. Sarà una salita a svelare il fatto che quel giorno qualcosa proprio non va.

«Non riuscivo a incamerare il respiro, ma credevo fosse qualcosa di momentaneo dovuto allo sforzo. Invece no, anche in pianura avevo la stessa sensazione. Passava per qualche istante e poi tornava». In quel momento, De Marchi è in testa all'Atlas Mountain Race, la gara che ha cambiato Enough Cycling oppure, per dirla ancora meglio, l'ha fatto diventare ciò che è adesso: «La prima volta, io e Federico Damiani eravamo pronti fisicamente, ma totalmente inconsapevoli. Forse anche quello è stato un bene, forse anche per quello siamo arrivati alla stessa conclusione: alla fine, una bicicletta è tutto quello che serve per essere felici. Quello che intendo dire è che il legame con questa corsa è come un nodo, stretto. Per questo il pensiero di vincerla è potente».
Senza respiro, De Marchi telefona a Giovanni, suo amico, medico che corre in bicicletta: «Se ti sdrai, cosa provi? La stessa sensazione?». De Marchi si sdraia e si sente soffocare, Giovanni lo ferma: «Ritirati e vai a farti visitare, può essere un edema». Non c'è altro da fare e Mattia De Marchi scende effettivamente dalla sua bicicletta, si fa venire a prendere, va in ospedale: i controlli ribadiranno che di edema si è trattato. Solo oggi, diversi giorni dopo, De Marchi ci dice che si sente come prima di partire, si sente bene. «Non ho pensato minimamente alla gara e sono tornato a casa, non lo avessi fatto non so cosa sarebbe successo. Il Marocco resta dove si trova e Atlas tornerà a corrersi, ma, forzare troppo la mano, forse, avrebbe impedito a me di tornarci e di fare molte altre cose. Lo dico con forza perché non sono l'unico a cui è capitato: avete presente la tosse da cui sono affetti gli atleti, quella che spesso si nota nei video di queste gare? Non è qualcosa di grave, ma è comunque sintomo di qualcosa che non va, di qualcosa su cui porre l'attenzione per evitare problematiche peggiori». Il concetto è sempre quello di limite, tuttavia, quando si tocca la salute, quel limite diventa particolarmente importante. Si tratta di accettarlo, ma anche di fare qualcosa per evitare che si arrivi a quel punto, allo stare così male.

«Dei segnali ci sono, per me ci sono stati e forse avrei dovuto coglierli. Bisogna aumentare la conoscenza di questi sintomi, magari raccogliendoli fra gli atleti con delle ricerche. Con Giovanni vogliamo provare a fare così, dedicandoci alla prevenzione, perché a forza di tirare la corda non si sa mai cosa può succedere. Penso che oggi il tema sia questo, più che quello del sonno che, tuttavia, si continua a studiare». Per meglio spiegare il concetto, De Marchi porta un altro esempio, un problema che ha sempre alle articolazioni, durante le gare, probabilmente legato al fatto che pratica poca attività in palestra: «Ho chiesto a chi mi segue e mi hanno detto che ci sono allenamenti particolari per eliminare o ridurre questo problema. Ecco: bisognerebbe fare una cosa simile anche con altre problematiche, comprese quelle legate alle vie respiratorie».
Poi c'è una domanda che Mattia si è fatto, che Giovanni gli ha fatto: «E se in qualche occasione, lontano da tutto e da tutti, con un pesante malessere, fosse necessario avere un medicinale a portata di mano per tutelare la salute?». La risposta è complessa, però è bene darla: «Le parole su cui far leva sono due: "necessario" e "tutela della salute". Il ciclismo purtroppo ha pagato fortemente lo scotto del doping e si rischia di fare confusione: bisogna essere netti nel respingere a priori ogni pratica di quel tipo, che serva a potenziare le prestazioni, senza se e senza ma. Bisogna anche dire che il medicinale deve essere l'ultima via, in ogni caso. Ma se quel medicinale fosse indispensabile e non averlo causasse danni gravi? Sottopongo questa riflessione, nulla di più, ben cosciente del fatto che ci sia una forte tematica di responsabilità personale. Si potrebbe anche pensare di aumentare le ore di riposo, ad esempio. L'importante è pensarci».
Proprio perché ci ha pensato e ci sta pensando, De Marchi spiega che non ha timore nel tornare in corsa, forte di quella prevenzione che sta mettendo in atto: coprendosi di più o semplicemente imparando a fermarsi al momento giusto, fossero anche ore di pausa. Poi c'è la fatica bella, quella da elogiare, per esempio quella degli ultimi perché «so bene che chi percorre una gara di questo tipo in una settimana fa molta più fatica di me, anche se fa meno chilometri al giorno. Mi piace dirlo, ripeterlo, perché è fondamentale».
In quanto alla Atlas Mountain Race, De Marchi tornerà, per divertirsi, per rivedere quel Marocco "vero" di cui ha parlato, per pedalare e anche per vincere perché, su quelle montagne, Mattia vuole vincere.


Come in una fornace

Di Transaphar Tel Aviv-Il Cairo 2022 vi avevamo già parlato, questa estate, prima che questa storia partisse, ancora meglio, prima che i suoi protagonisti, Niccolò, Giovanni e Lorenzo, partissero per un viaggio di 1000 chilometri e 10000 metri di dislivello fra queste due città. Le storie, però, si raccontano almeno due volte: quando si progettano e quando si vivono. Così il filo del viaggio di questi tre ragazzi lo abbiamo ripreso questo autunno, proprio da dove lo avevamo lasciato. Da quel ponte per arrivare in Giordania per cui i tre non avevano il visto necessario e dal timore che in bicicletta a Il Cairo avrebbero potuto non arrivare mai. Le altre strade erano più lunghe, troppo lunghe, rispettivamente cento e quattrocento chilometri in più.
«Abbiamo provato- spiega Niccolò- ci siamo avvicinati a quei militari e, sotto a quel sole, a più di quaranta gradi, abbiamo iniziato a spiegare quel che avremmo voluto. Ci avevano detto tutti che sarebbe stato impossibile, forse non avremmo dovuto crederci più, invece...». C'è qualche istante di silenzio, poi la voce torna: «Hanno guardato le biciclette, hanno controllato tutto, ci hanno fatto firmare molti fogli, ma, alla fine, ci hanno fatto passare. Hanno compreso, hanno capito e di tutto il viaggio questa comprensione è forse una delle cose più belle». Una parola nuova arriva proprio a questo punto della conversazione: audacia. La convinzione di questi tre viaggiatori parte da quel detto "la fortuna aiuta gli audaci".

 

«Si pone sempre l'accento sulla fortuna, noi crediamo che forse l'accento vada posto sull'audacia. A patto di essere coraggiosi si può anche essere fortunati, qualcosa di buono può capitare, ma, senza coraggio, non c'è fortuna». Loro, per quella fortuna, hanno viaggiato in piena notte, per sfuggire al caldo, e si sono fatti forza anche di fronte alle parole più brutte.
Prima di una salita, a tarda notte, in un'aria di servizio, Lorenzo si ferma a parlare con il benzinaio: un signore di mezza età che proprio non vuole credere al loro viaggio, che lo ritiene impossibile, che ritiene assurdo scalare quella salita in piena notte: «Voi non sapete cosa c'è fra quelle strade: è una fornace per cani randagi». Il traduttore del telefono restituisce queste parole, ma Lorenzo, Giovanni e Niccolò non vogliono crederci, credono si tratti di un errore. Di lì a poco tutto sarà chiaro.

«Era davvero una fornace- chiosa Giovanni- e in cima c'erano davvero cani, tanti cani randagi. Siamo riusciti a passare grazie alle luci di un'auto che ha illuminato il percorso, Niccolò ha forato all'inizio della discesa. La paura è rimasta con noi per molto tempo quel giorno». Insieme alla paura, però, anche la gentilezza: quella delle persone per strada, delle famiglie che applaudivano al loro passaggio, quasi li conoscessero, certamente incuriosite dalle biciclette. Lorenzo racconta così: «Le poche biciclette che abbiamo visto erano quelle dei bambini, un gioco per loro che cercavano di batterci il cinque, di festeggiarci».
La gentilezza, sempre importante, quando è incontrata per strada vale di più, cambia le cose perché, in strada, siamo tutti soli, almeno in un certo senso: «Quando su una salita, a quaranta gradi, finisce l'acqua, si spegne la luce, anche se non hai sete, anche se non ci stavi pensando. Da quel momento ci penserai ogni minuto. Anche lì la gentilezza ha cambiato le cose: un camionista si è fermato, ci ha lasciato tre litri d'acqua, ci ha permesso di proseguire».

 

In fondo, spesso basta un gesto, un segnale. Niccolò, Lorenzo e Giovanni erano nei pressi del Mar Morto quando l'imprevedibile si è ripresentato: tre forature in un tratto sterrato e la strada che corre veloce lontano da locali, supermercati e hotel. Chilometri e chilometri senza nulla, la stanchezza, ad un certo punto la fame. Solo una base militare, solo quella. «Mi sono avvicinato a quei militari e ho fatto il classico gesto di chi ha fame, portando la mano alla bocca. Dal volerci mandare via, ci hanno aperto le porte dei locali in cui sostavano tutti i militari e hanno iniziato a mettere di tutto su un tavolo: tonno, pizza, pomodori, bevande. Alla fine ci si capisce, alla fine basta un gesto». Qualcuno tra quei militari ha anche voluto provare le loro biciclette.
Ancora chilometri, ancora pedalate, ancora acqua e cibo, ancora stanchezza, sudore, notti sempre più brevi e giorni sempre più lunghi, anche se fuori è buio, poi Il Cairo. «Si sente, si sa che è là in fondo, ma non ci si crede mai davvero. Almeno fino a quando si intravedono le piramidi. Non è una novità che in Egitto ci siano le piramidi, ma vederle quando arrivi da quattordici giorni di viaggio in bici fa la differenza. Si tratta di una botta di felicità». Simile alle matite portate nelle borse e donate ai bambini ad Amman o a tutte le volte in cui,. durante il viaggio, le luci delle moschee li hanno sorpresi nella notte. Simile a tanti altri piccoli momenti, semplici.
Nel negozio di un distinto signore egiziano, i tre ragazzi comprano tre pettini, un ricordo, un souvenir, in realtà l'unica possibilità perché si vendono solo pettini. Li porteranno a casa, saranno un simbolo, di quel viaggio e di ciò che accade sulle strade che meno si conoscono quando si parte e si ha un pizzico di coraggio in più.
Questo viaggio lo racconteranno ancora, molte volte, ed è giusto così. Perché le storie si raccontano sempre almeno due volte, ma in realtà molte di più.


Sul Mortirolo di notte: Race Across the Alps

Pensate di trovarvi sul Mortirolo in piena notte. Anzi pensate di scalare il Mortirolo quando è già buio, quando gli unici raggi a filtrare non solo quelli del sole ma quelli della luna. Cosa provereste? A Fabrizio Duca è successo e proprio lì, sul Mortirolo, in piena notte, il cambio della sua bicicletta si è rotto. Cosa fare?
Ci torneremo tra poco. Ora, però, facciamo un passo indietro al giorno in cui Fabrizio ha saputo che sarebbe stato l'unico italiano a partecipare alla Race Across the Alps: 525 chilometri attraverso l'arco alpino, più di 14000 metri di dislivello. "È una piccola follia e come tutte le piccole follie c'è chi ti capisce e riesce a immedesimarsi in ciò che provi tu a quell'idea e chi, invece, ti dice solo che è una pazzia". Quell'idea ha anche un tempo: trentadue ore, solo trentadue ore per riuscirci.
Chi organizza si rende conto di quel che chiede e per questo ogni partecipante può portare due persone, due amici per Fabrizio, che staranno in macchina, guideranno tutta la notte e lo affiancheranno per ogni cosa. Oriana, in ammiraglia, dice che accompagnare, in fondo, è un atto d'amore: "Essere pronti ad ascoltare tutto, a non perdere la pazienza anche se sei stanco anche tu, anche se non ce la fai più. Ad avere paura e nasconderla. Se ci pensi questi sono anche gli atteggiamenti di un genitore". Ecco i pensieri di quel venerdì, quando si parte da Nauders.
A Bormio si scatena il diluvio. Sul Gavia l'acqua è ghiacciata, nevica. Fabrizio non riesce più a muovere le mani, fatica a parlare. "Io non capivo che non avrei potuto proseguire così, non accettavo di fermarmi. I miei amici sì e hanno avuto paura. La cosa importante è che mi hanno protetto da quella paura e dopo un'ora mi sono ripreso, sono ripartito". Pedalata dopo pedalata, Aprica e poi Mortirolo.
Era notte lì, vi ricordate? Fabrizio con il cambio rotto non sa più cosa pensare e chiama al telefono il suo meccanico. Già perché in avventure del genere c'è sempre chi, a casa, ha il telefono acceso ed è pronto a rispondere, anche in piena notte. Fabrizio ascolta le indicazioni, impara, capisce, aggiusta e riparte. Ancora, un'altra volta. Andando incontro alla nebbia all'alba del Bernina, a tutte le volte in cui tra Albula, Fluela e passo del Forno ha pensato di fermarsi, ai momenti in cui non riusciva a mangiare.
All'inizio aveva detto ai suoi amici: "Se vedete che non sono più lucido, fermatemi. Fatemi scendere di sella. Portatemi via da quel che sto facendo". Quando quel momento è arrivato, quando quel crollo psicologico è arrivato, Oriana ha preso il cellulare e dal furgone ha iniziato a leggere a voce alta tutti i messaggi di sostegno che arrivavano, mentre Fabrizio si commuoveva, piangeva.
Fabrizio che ad un certo punto ha iniziato a pensare: "Manca solo lo Stelvio" e quando pensi così hai detto tutto. Quello Stelvio che mancava, Fabrizio l'ha percorso e ci è riuscito: 32 ore e 24 minuti. È bastato perché gli organizzatori hanno dilatato il tempo massimo e sarebbe bastato comunque perché Fabrizio ce l'ha fatta. Dopo un giorno di riposo avrebbe voluto ripartire, inventarsi altro, un'altra piccola follia.
"Mi dicono che sono un campione. Non lo sono. Qualcuno parla di eroi per gli uomini che fanno queste gare. Tenete la parole eroe per chi se la merita davvero. Io ho giocato, mi sono divertito. Ho anche rischiato, temuto ma anche nei giochi succede. La mia bicicletta è questo, solo questo". E ora tornate col pensiero sul Mortirolo, in piena notte, e diteci quando bene si sta.