Caro lettore, anzi carissimo, ciò che segue non vuole essere una spiegazione sui fatti di domenica 2 aprile 2023, su ciò che è accaduto nei quasi 280 km tra Bruges a Oudenaarde, una strada che fa a spallate tra muri, stradone e stradine, su e giù, destra e sinistra e poi prende un nome che nell’appassionato suona come il titolo di un’opera unica: De Ronde Van Vlaanderen. No, niente di tutto questo: perché di quella corsa ne avrete già pieni gli occhi e colma la testa di nozioni, istruzioni, punti di vista e racconti.
Ciò che sta per arrivare non ha la minima intenzione di entrare nel dettaglio e cercare di capire come e perché, ancora una volta, il ciclismo che stiamo vivendo ci esalta e ci tiene incollati dal primo all’ultimo chilometro – e il Fiandre di domenica 2 aprile 2023 ne è stato perfetto emblema.
D’altra parte come poteva la corsa più bella del mondo che premia atleti completi sotto ogni aspetto non essere il simbolo di un ciclismo che ha preso una strada che non vuole mollare per nessun motivo al mondo? (E giuriamo che non oggi, non in questa sede, parleremo di malinconia e nostalgia, di tempi che ci sono e che prima o poi non saranno più e per questo motivo dobbiamo goderceli appieno).
La strada che ha reso il ciclismo uno spettacolo (ci illudiamo: più vendibile di quello che è stato negli ultimi due decenni) che ci lascia a bocca aperta e ci fa perdere verso esclamazioni del tipo: “Santocielo! ma cosa stiamo vedendo!”, “Che gara pazzesca!”, eccetera.
No, caro lettore, anzi carissimo che hai come sempre la pazienza di seguire i nostri pensieri contorti, le poche righe che seguono vogliono essere un inno ai fondisti, a quei corridori che grazie a doti perlopiù innate e rifinite col tempo, riescono a tirare fuori il meglio in gare che superano i 230, i 250 km di corsa; quei corridori che, quando in gruppo si raschia il barile fino a far sanguinare le unghie, hanno qualcosa in più, quei corridori che dopo cinque, sei ore di sofferenza ciclistica, portano quella fatica estrema su un altro piano e ci convivono meglio di altri perché madre natura li ha graziati rendendoli perfettamente adatti proprio a una corsa come il Giro delle Fiandre di settimana scorsa, quelli che più la corsa è dura, lunga, complessa per tanti motivi (ritmo, clima, situazioni legate a cadute), hanno qualcosa in più di tre quarti di gruppo – e alcuni di loro saranno subito di nuovo protagonisti alla Roubaix.
Sono quei corridori alla Mads Pedersen, uno che a 24 anni toccava appena palla nelle corse normali e poi invece lo trovavi vincitore di un Mondiale tra i più complessi della storia recente per lunghezza e meteo, corso tutto al freddo e sotto il diluvio, dove diventava complicato alimentarsi bene, quasi al buio, un corridore che senza conoscerlo abbastanza te lo ritrovavi 2° al Fiandre. È diventato il massimo esponente di una scuola (una Sacra Scuola, ha detto qualcuno) che negli anni ha visto Alexander Kristoff il suo totem: le corse sopra i 250 km come parco giochi dove far valere rispetto ad altri le proprie qualità. Mads Pedersen attacca ai 112 chilometri dall’arrivo e porta via la fuga decisiva e poi di nuovo parte da solo quando ne mancano diciannove pensando di potercela fare nel resistere al ritorno di quei due diavolacci impertinenti che dietro staccavano tutto quello che restava del povero gruppo. Aveva detto, Pedersen, corridore che a un certo punto della sua carriera, ben dopo il Mondiale vinto, ha fatto click e di conseguenza un salto di qualità enorme, che per vincere doveva anticipare. C’è quasi riuscito.
Sono quei corridori alla Neilson Powless, fondista eccezionale come sta dimostrando negli anni e come dimostra uno storico che nelle corse di un giorno dice: 1° San Sebastian (2021), 3° alla Dwars (2023, suo esordio tra i professionisti sulle pietre), 5° al Mondiale (2021), 5° al Fiandre l’altro giorno, 7° alla Sanremo (2023), 8° alla Liegi (2022) e buttiamoci dentro anche il 12° posto finale al Tour dello scorso anno. Una delle più liete sorprese delle ultime tre stagioni.
Kasper Asgreen, che nel momento più buio della storia della sua squadra tira fuori una prestazione che pensavamo non fosse più nelle sue corde e anche lui sui muri sembrava annaspare, poi bastava un cambio di inquadratura e te lo ritrovavi scollinare per primo. Oppure Fred Wright, altro che si è visto poco fino all’altro giorno e in una corsa così chiude di nuovo nei primi dieci esattamente come un anno prima: un britannico perfettamente tagliato per le pietre del Nord come non se ne vedono spesso.
E che dire di due come Stefan Küng e Matteo Trentin: loro fanno valere l’esperienza, loro fanno valere l’affinità con queste gare, loro guarda caso su quel podio del Mondiale vinto da Pedersen quella volta lì e non stiamo di certo a rivangare, non di nuovo. Loro con ruoli e caratteristiche diversi – uno capitano passista, l’altro uomo squadra veloce e se il ciclismo fosse uno sport solo di testa e lettura della gara, allora Matteo Trentin sarebbe il numero uno al mondo. E che dire di Matteo Jorgenson: 24 anni, americano come Powless, davanti in una corsa così a questi livelli a dimostrazione di essere uomo da gare dure lui che trova affinità anche col maltempo e con un dislivello elevato. Senza scomodare uno che riscrive i numeri di questo sport, Pogačar, va beh, che ha portato sul suo piano la corsa: per staccare i due van voleva gara dura e così è andata, così ha fatto, inventandosi un numero sull’Oude Kwaremont che ricorderemo per anni.
Non ce ne vogliano quei corridori che sopra un certo chilometraggio ancora non riescono ad esprimere al massimo il proprio potenziale (pensiamo a Pidcock), quei corridori che magari in una carriera non ci riusciranno mai, perché qualcosa si può affinare, vedi gli allenamenti, le tecniche di ogni genere, l’alimentazione, la testa, l’esperienza, eccetera, ma oggi la nostra storia, cari lettori, anzi carissimi, e dedicata a loro, ai fondisti, perché si nasce così, e in uno sport di fatica (perdonate la banalità) ormai le rare volte che si superano tot ore di gara vengono fuori loro, e corse come quelle di domenica al Fiandre esaltano il pubblico ma fanno brillare anche loro, adatti a stare in sella e dare sberle a tutti (dopo averne prese parecchie) per tante ore di fila. Anche se poi come ha scritto Trentin l’altro giorno, alla fine ciò che resta per tutti: “è un gran mal di gambe”.
PS: e domenica alla Roubaix, dal punto di vista del fondo ne vedremo ancora delle belle.
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