L’autobus era appena entrato a Istanbul, sabato sera, in mezzo al traffico. Quando Zanoncello, Colnaghi e Tarozzi, guardandosi attorno, consideravano: «Ci pensate? Domani tutte queste persone saranno ferme per noi». Un ciclista ci pensa quando arriva in una città nuova, pensa alle persone che ci sono, a chi ci sarà a guardarlo, a cosa penserà. Ieri ancor di più, perché ieri è stato l’ultimo giorno. Lo sapevamo già, ma ce lo ha ricordato all’alba, col vento che strapazzava gli alberi al parcheggio, l’autista che ci ha accompagnato per tutta la settimana nelle varie città: «It’s the last day». Poi ci ha messo la mano sulla spalla: «Call me». E siamo sicuri che tornati in Italia, in Spagna, o chissà dove qualcuno gli telefonerà.
Istanbul ieri aveva un appuntamento a cui teneva particolarmente perché il gruppo, che da poco sta volando sopra qualche altra città, si ritroverà a breve, ma ci vorrà tempo perché ritrovi Istanbul e perché Istanbul lo ritrovi, mentre i pescatori si accalcano lungo il viale e i cani inseguono un furgoncino nel centro. Mentre là, in fondo, l’orizzonte è foschia, come quando deve piovere.
E piove, piove dopo dieci chilometri, poche gocce, pochissime, ma quell’asfalto, quello liscio turco, quello che vi abbiamo descritto più volte, fa cadere, sbandare: i corridori, le ammiraglie, persino noi, a piedi, quando scendiamo dalla vettura. Cadute, scivolate, poi il gruppo che si ferma in un viale e parla con la giuria. Vedi facce pensierose, corridori che vanno avanti e indietro, poi la decisione e la radio in ammiraglia che la comunica: «Il Giro di Turchia finisce qui». C’è qualcosa che manca, quell’appuntamento che aveva Istanbul che tra i tanti milioni di abitanti aspettava quelle biciclette. Anche il medico scende dalla macchina, si affianca ai corridori e chiede: «Perché?». Ci fa pensare la domanda, come fa pensare la risposta dei ciclisti che spiegano con attenzione, che mostrano come la bicicletta scivoli. Non sarebbero tenuti a farlo, ma lo fanno: «Non si può, vedi? Si scivola anche sui viali, non solo in curva». Quel medico ascolta, guarda, poi dice «Sì» ed è convinto. Ha capito.
Quell’appuntamento non sarà stato come tutti l’avevano immaginato, ma c’è stato lo stesso. Perché i corridori si sono presi il tempo di farsi medicare, di coprirsi e poi sono ripartiti. Sepulveda è andato da quello stesso medico a farsi curare prima di salire in bicicletta: si sono seduti su un marciapiede e in qualche minuto ha potuto rialzarsi. Ha chiesto subito della bicicletta ed è ripartito. Ci dicono: «Si fa un giro e se smette di piovere se ne fa anche un altro. La gara è neutralizzata, ma per la gente che è qui è giusto così».
Viene a far freddo, i corridori chiedono guanti, anche l’acqua del mare sembra minacciosa, grigia, con quei pescatori sempre lì. Si pedala fino al primo passaggio dal traguardo. Potresti pensare che le persone tornino nelle loro case, quasi deluse, almeno che non aspettino sui ponti dove quell’aria è ancora più fredda. Invece le vedi lì. Poi di corsa al traguardo, al palco, dove Bevin vince il Giro di Turchia, dove i coriandoli azzurri tolgono quel grigiore che fa sembrare autunno.
Istanbul è rimasta dov’era perché aveva un appuntamento e con gli appuntamenti si fa così. Istanbul è rimasta dov’era e dov’è oggi mentre il gruppo è ancora insieme e lei sempre più lontana con un pizzico di amaro in bocca, come fa intuire il telegiornale della sera, ma anche con riconoscenza perché agli appuntamenti si va sempre almeno in due e, se Istanbul non poteva che esserci, il gruppo avrebbe potuto scegliere diversamente. Invece, in un modo o nell’altro, c’è stato. «It was the last day», era l’ultimo giorno, è questo il punto.