Articolo e foto di Benedetto Conte
1270 chilometri e 22000 metri di dislivello da Pompei a Torbole. Dati alla mano non sembrava una cosa grossa o, almeno, non così tanto: dividendo i chilometri e il dislivello per il numero di giorni a disposizione si trattava di mettere in fila 210 chilometri e circa 3500 metri di dislivello al giorno, per diversi giorni. Che potesse essere una cosa grossa sembrava emergere solo dalle esclamazioni dei non addetti ai lavori ma alla fine dei conti, cosa potevano saperne? Bisognava solo pedalare, senza nient’altro a cui dover pensare.
Il meteo non sembrava favorevole fino al giorno della partenza, con neve e temperature polari fino a -10 °C ad attenderci una volta entrati in Abruzzo, dove gli organizzatori avevano decretato uno stop obbligato dalle 22 alle 5 per evitare problemi sui 40 chilometri di nulla sul sentiero in quota che separa Rivisondoli dal lago di Scanno. Un problema che avrei ormai affrontato l’indomani, considerando che alle 21 mi trovavo incollato su una discesa fangosa, scastrando con le mani il fango che continuava ad ammassarsi tra la ruota e il telaio mentre i pronosticati 30 minuti per raggiungere Castel di Sangro si dilatavano sempre e sempre più.
La prima alba, e le prime 3 ore di sonno, partono con un anomalo fastidio al ginocchio destro, che decide di rivendicare la propria esistenza dopo 35 anni, esattamente in quel preciso momento, dopo una vita passata in sordina. Decido di ignorarlo concentrandomi invece sul vento tagliente dell’altopiano abruzzese, nell’attesa di trovare l’anticipata neve in quota. La salita è costante, scenografica e maestosa ad ogni curva fino a quando il paesaggio innevato appare, catapultandomi in un luogo che potrebbe essere tanto remoto quanto quasi impossibile da trovarsi qui. Una discesa scassata sembra farmi planare alle porte di Roma, ben oltre le più rosee aspettative, ferme un centinaio di chilometri più indietro.
La seconda alba, e le seconde 3 ore di sonno, partono sui basoli della Via Appia Antica che dopo 20 chilometri sfociano su un Colosseo semi-deserto illuminato dalle prime luci del sole. 3 brioche al lato di Piazza San Pietro e via verso Viterbo, a testa bassa fino a che la via Francigena non diventa più verde, sempre più fitta, sempre più fangosa. Mi godo i diversi passaggi tecnici, mi diverto, fino a che non ne esco e posso mettermi alla ricerca di un supermercato da svaligiare. Sono da poco passate le 15 e l’Umbria e la Toscana sono poco più in là, cadenzate da Montefiascone, Bagnoregio, Orvieto. Alle 20 solo una discesa e 20 chilometri sullo sterrato compatto di un bosco nel crepuscolo avanzato mi separano da Proceno, da 2 pizze e un letto.
La terza alba, con le sue 4 ore di sonno, inizia tra le colline toscane e la curiosità della salita verso Radicofani di cui tutti parlano. Iniziarla a stomaco quasi vuoto è un’idea che appare sbagliata solo a danni fatti e lo capisce subito anche la signora all’ingresso del paese che, senza proferire parola, mi conduce in silenzio assente a svaligiare il bancone del suo bar vincendo e assicurandosi il premio “Appostamento dell’anno”. La giornata è eccezionale e con i muscoli caldi andare su e giù per la Toscana è puro piacere. Sono tra i primi 20 e la bellezza è tale da farmi attraversare tutto d’un fiato San Quirico d’Orcia, Bonconvento e Siena senza che mi accorga di aver scalato anche diverse posizioni. Prima di attraversare le colline del Chianti, con il sole a picco, faccio una pausa e riparto; le salite ora sono dure e scassate e mi riprometto che oltre il 15% di pendenza, considerando ancora i giorni mancanti, non vale la pena pedalare, anche solo per cambiare postura e rilassare quanto più possibile i muscoli coinvolti. Alle 19 sono pronto per la discesa al tramonto verso Radda in Chianti ma, al primo colpo di pedale, qualcosa non va: il deragliatore penzola affianco alla ruota, completamente staccato dal telaio. Mantengo la calma, so di avere la soluzione ma non so ancora di avere una vite spanata e nulla con me per poter rimediare. Provo e riprovo mentre il sole si abbassa sempre di più, mi abbatto e inizio a pensare al treno che mi riporterà a casa, è domenica e l’unica cosa che posso fare è raggiungere il paese e poi…chissà! Mentre sono lì a tentare il tutto per tutto, un’auto mi si ferma accanto e chiama il meccanico del paese che, accertatosi che avessi il ricambio necessario, si rende disponibile ad aprire la sua bottega. Quanto più rapidamente possibile e incredulo, rimetto tutti i pezzi apposto, smaglio la catena e la infilo nella tasca posteriore, lego il deragliatore al telaio con nastro e fascette e giù sparato per la discesa, tra gli in bocca al lupo di tutta la famiglia stipata nell’auto che mi ha soccorso e che mi sta facendo sentire un campione. Il signor Ramuzzi è costretto ad imprecare un paio di volte, ed io con lui, per riuscire a tirar via quel maledetto forcellino ma poi, mentre io tengo gli occhi stretti e chiusi, girato di spalle, come all’ultimo rigore di una finale mondiale, con un ultimo e decisivo colpo riesce nell’impresa e alle 20.30 mi rimette in corsa, direzione Firenze, un po’ più tardi del solito ma solo 25 chilometri prima delle più ottimistiche delle aspettative.
La quarta alba, con le sue 3 ore di sonno, ha con sé tutti gli acciacchi del caso e il pensiero fisso e costante che oggi bisognerà valicare gli Appennini verso Bologna su salite proibitive e strade scassate chissà quanto. Il primo indizio sull’andazzo della giornata dovrebbe darlo l’attacco della salita al 25% dopo Prato ma bado bene a non farci caso. Al termine della prima salita e della prima discesa tra single track e freni tirati, l’orario e l’umore sono ancora più che fiduciosi. Al termine della seconda salita tutto sembra ancora possibile e nella mia mente si fa largo l’idea di una gloriosa discesa verso Bologna ma non sarà assolutamente così; tra terreni sconnessi, single track e frane da superare, Bologna sembra sempre più lontana e il Santuario di San Luca si rivela, nella sua veste migliore, dopo soli 130 chilometri in ben 13 ore, alle luci del tramonto, quasi come a farlo apposta per vomitarmi addosso quell’emozione tutta adolescenziale di farmi sentire di nuovo come quel “Girardengo appena appena più basso e rock”. Voto 10 per il tempismo: alla fine, che fretta c’era di arrivare se doveva essere nel momento sbagliato?
La quinta alba suona quasi come l’ultima ma non bisogna abbassare la guardia, un rischio grosso nel momento in cui ci si inizia a sentire quasi arrivati. I 100 chilometri di dritta ed infinita pianura che portano a Verona mettono a dura prova la concentrazione ed è meglio rallentare per non buttare alle ortiche quanto fatto finora. Verona arriva dopo ben 5 ore e alle 11 del mattino, sotto un sole che batte, non rimane che l’ultima salita per la Lessinia e l’ultima discesa a picco verso il lago di Garda tenuto nascosto dal Monte Baldo. Mi godo ogni pedalata in salita, tutto il vento in faccia in discesa e tutti gli ultimi 40 chilometri sulla ciclabile finale, messi lì sicuramente non solo per decantare l’adrenalina, la tensione e la stanchezza accumulata fin lì ma per cementare la valanga di ricordi prima del traguardo finale in 5 giorni e 10h. Ora sì che sembra una cosa davvero grossa.
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