A pochi passi dal Castello Sforzesco, un anziano signore si sistema il borsalino sul capo e rivolgendosi ad una donna che lo osserva commenta: «Non avrei nemmeno voluto metterlo, ma mia moglie ha insistito tanto. “Copriti bene che fa freddo!”. Sarà perché divento vecchio».
L’alba sorprende Milano spolverata da un leggero velo di brina e l’aria frizzante del primo mattino consiglia prudenza. Ai bus delle squadre si riempiono le borracce con del tè caldo. Dopo la partenza della gara, su una borraccia abbandonata si fionderà un distinto cinquantenne ma non la raccoglierà, intenerito dallo sguardo di un ragazzo ad osservarlo. Ci dirà: «Era bella, peccato. Non potevo portargliela via, non me la sentivo. Del resto, sai quante ne ho a casa di quando venivo a vedere la partenza della Milano-Sanremo da scolaro?».
Pochi metri più in là, Mathieu van der Poel sostiene che la gara oggi si deciderà sulla Cipressa, Wout van Aert, invece, parla del Poggio. Più cauto è Julian Alaphilippe che invita tutti alla tranquillità: «Abbiamo davanti trecento chilometri, non facciamoci prendere dalla frenesia. La fretta è cattiva consigliera». Ognuno racconta una storia diversa, qualcuno mente sapendo di mentire, altri non sanno davvero cosa aspettarsi, perché una corsa come la Sanremo è davvero imprevedibile.
Vincenzo Nibali allarga le braccia e sorride quando gli chiedono quanto senta la pressione. «Si sente, certo. Ma d’altra parte è così: alla Sanremo non vai per godertela, vai per fare la corsa».
Non serve raccontarlo agli otto uomini che, per citare Gianni Mura, vanno “alla ventura”, che è avventura e sventura, spesso entrambe le cose, legate da un filo sottilissimo. Tra di loro Charles Planet e Andrea Peron, del Team Novo Nordisk, hanno una motivazione particolare per fare fatica e un passato da conoscere. La maglia della squadra ricorda i cent’anni dalla scoperta dell’insulina per la cura del diabete, Andrea Peron sa qualcosa in più: «Ho scoperto di essere diabetico a sedici anni, l’ultimo anno da dilettante ho vinto diverse corse, alcuni mi hanno comunque sbattuto la porta in faccia. Si tratta di ignoranza e pregiudizio. Il ciclismo mi ha fatto bene, mi ha tenuto fuori dai guai che, volente o nolente, da ragazzo puoi ritrovarti addosso».
Arrivando all’Aurelia sembra di precipitare in un varco temporale. Tutto è più veloce, cambia il paesaggio, si intravede il mare, variano le intenzioni. Alessandro Tonelli prova a dare nuova linfa a una fuga senza più respiro. I tre capi e l’imbocco della Cipressa saranno una campana a morto per ogni speranza in via Roma. L’attesa è un battito che cresce. Le pedalate della Jumbo Visma e della Ineos sulla Cipressa sono aghi conficcati nei muscoli già rigonfi di acido lattico di chi annaspa in coda al gruppo. Un elastico che si allunga, si accorcia e poi si strappa. Mathieu van der Poel è nel punto di rottura dell’elastico, oltre la metà del Poggio, quando lo coglie la coda dell’occhio di Julian Alaphilippe. Scatta così l’iridato, denti digrignati e massimo sforzo spingendo sui pedali, Wout van Aert è la sua ombra. Van der Poel scatta dalla pancia del gruppetto di testa, teso, deciso, convinto, quasi a voler cancellare un ricordo, quello di pochi giorni fa, quando, in Toscana, proprio Alaphilippe lo sorprese e lo beffò mentre era troppo indietro per lanciare la volata.
Davanti accelerano, si guardano, notano che Caleb Ewan è ancora lì. Qualcuno pensava che il malessere alla Tirreno-Adriatico potesse essergli restato sulle gambe e, a vederlo, inizia ad interrogarsi: in una situazione simile è il favorito. I grandi attesi della mattinata di Milano iniziano a pesare ogni mossa, non si è riusciti a fare la differenza prima, azzardare adesso è troppo rischioso. C’è troppo da perdere.
È in quell’istante che alla mente di Jasper Stuyven si affaccia un pensiero: «Tutto o niente». Stuyven che era un bel nome, ma non certo uno dei favoriti. Stuyven che non era marcato perché “ci sono van Aert e van der Poel”. Stuyven che è scattato e non lo hanno più rivisto sin dopo il traguardo. Anzi, ancora peggio. Lo hanno visto sino all’ultimo, a ruota di Kragh Andersen, sempre troppo lontano per richiudere.
Il belga è una sorta di illusione, uno specchio pronto ad andare in frantumi. Anche quando il gruppo di biciclette dietro di lui si imbizzarisce, proprio sulla spinta di Caleb Ewan che ha lanciato la volata degli sconfitti.
Alla fine non ci sarà nemmeno un secondo di distacco tra Stuyven , Ewan e van Aert. Avrebbe potuto essere una volata di gruppo, non lo è stata. Caleb Ewan dirà che non avrebbe potuto fare diversamente, che solo quello era l’attimo perfetto per sprintare.
La sconfitta brucia, come la gola in cui si getta acqua spremendo la borraccia quasi a spegnere un fuoco. Puoi raccontarti qualunque storia, ma c’è sempre quella voce a sussurrarti ciò che avrebbe potuto essere, ciò che avresti potuto fare e quella non riesci mai a zittirla. Van der Poel lo ammetterà: «Siamo partiti troppo tardi per controllarci». Controllarsi, in fondo, vuol dire soppesare il “tutto” ed il “niente” e vedere l’abisso che c’è tra l’uno e l’altro. Per questo non scatti, perché il niente ti spaventa. Così si resta a mani vuote, perché quando aspetti, in fondo, sei sempre a mani vuote, il resto è speranza. Jasper Stuyven lo sa molto bene, molto meglio di altri, per questo è scattato. Per questo ha vinto.
Foto: Tommaso Pelagalli/BettiniPhoto©2021