Words: Alex Hutchinson
Voice: Luca Mich e Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda

[il testo è un estratto del libro ENDURE di Alex Hutchinson di Mulatero Editore in uscita a maggio 2021]

Le porte del Velodrome Suisse di Grenchen, una cittadina a metà tra Zurigo e Ginevra, si aprono alle 17.30 del 18 settembre del 2014. L’orario è stato attentamente calcolato per permettere ai milleseicento tifosi di scaldare e umidificare l’ambiente dell’edificio al punto giusto per l’inizio del tentativo di Voigt, previsto novanta minuti dopo. L’aria calda è meno densa e offre pertanto un vantaggio aerodinamico, ma una temperatura eccessiva comporta un rischio di surriscaldamento per il ciclista. Questo è il tipo di dettagli che il team di Voigt ha preso ossessivamente in considerazione, e il risultato degli attenti preparativi è che lui sa di essere capace di realizzare il record, ma è consapevole di avere margini risicati. 

«Una foratura. Una partenza troppo forte. Una giornata storta… Anche una seconda foratura non è da escludere». Negli spogliatoi, sono questi i pensieri che frullano nella testa di Voigt mentre, con l’aiuto di due assistenti, si infila in una tuta aderente come un guanto realizzata ad hoc. Con uno stadio pieno e più di quattro milioni di tifosi di ciclismo incollati davanti ai teleschermi di tutto il mondo è facile capire che l’ansia raggiunga livelli stellari nei minuti che precedono la sua prova. Eppure, per un uomo che sta per sfidare i limiti della sua tolleranza al dolore per un’ora intera, questo rappresenta un vantaggio cruciale. Come un soldato ferito sul campo di battaglia, o un cudù braccato da un leone affamato, gli atleti nel vivo della gara manifestano un fenomeno noto come analgesia indotta da stress che permette loro di ignorare livelli altrimenti paralizzanti di dolore. 

Arriva finalmente il colpo di pistola dello starter e, sul ritmo tecnopunk di una hit di metà anni Novanta (Ready to go dei Republica), Voigt si alza dal sellino e comincia a pedalare.

La maggior parte di noi interpreta il dolore secondo la celebre descrizione del filosofo francese Cartesio, nel suo De homine del 1664: quando ci si tira una martellata su un dito, al cervello arriva un messaggio che, nell’immaginario di Cartesio, fa suonare un campanello d’allarme. In questa visione, c’è una corrispondenza di uno a uno fra il danno o l’infortunio subito e il dolore provato. Il problema di questa visione è che lo stesso infortunio può provocare reazioni significativamente diverse in persone diverse, o persino nella stessa persona in momenti diversi. All’estremo opposto, gli amputati con la sindrome da arto fantasma percepiscono un dolore reale privo di fonte fisica. I medici e i ricercatori che si occupano di dolore hanno pertanto sempre concluso, a partire dall’osservazione dei soldati feriti durante la guerra civile statunitense, che il dolore sia fondamentalmente un fenomeno soggettivo e legato alle circostanze. Per esempio, lo stress, la paura e l’ansia innescano una serie di neurotrasmettitori, endorfine incluse, così come endocannabinoidi, che attenuano o eliminano un dolore che risulterebbe altrimenti intollerabile in circostanze diverse.

Il ventaglio delle sfumature del dolore è infinitamente variegato, così come gli stessi atleti. Uno sprinter di sci di fondo, le cui gare durano meno di quattro minuti, sarà inevitabilmente inondato di metaboliti che bruciano i muscoli dall’interno. Un ultramaratoneta sarà in grado di correre ore e ore a un ritmo apparentemente sostenibile, ma a un certo punto sarà frenato da un accumulo di microlacerazioni a livello muscolare che invieranno fiammate di dolore lancinante nei polpacci e nei quadricipiti a ogni passo. Ed è a metà strada fra questi due estremi, dove si incontrano gli aspetti più atroci di entrambi, secondo chi ci ha provato, che si situa il dolore provocato dall’Ora in pista.

Gli aspetti contestuali sono complici della tortura: il paesaggio immutabile, l’assenza di avversari, il ritmo costante, la carenza di riscontri esterni. La mancanza di distrazioni priva l’atleta di un potente mezzo per alterare la percezione che il cervello ha del dolore, la versione psicologica di sfregare la pelle dove si è subita una botta per interferire con i segnali del dolore nei muscoli. 

Ma anche la durata della gara corre sul filo di una lama psicologica. Ci sono molti modi per delineare il confine tra esercizio ad alta intensità breve e intenso, e sforzi più prolungati e meno frenetici. Uno dei più usati è la soglia del lattato, il livello in cui lo sforzo è tale da provocare un’inesorabile impennata dei livelli di lattato nel sangue. Un concetto di più recente sviluppo è il critical power, o potenza critica, che rappresenta il punto in cui i muscoli non riescono più a mantenersi in uno stato di equilibrio sostenibile di fisiologia stabile. «Sessanta minuti di sforzo massimale, per un atleta ben allenato, si situano in quell’atroce vuoto che si apre fra questi due paletti» spiega Mark Burnley, uno dei fisiologi dell’Endurance Research Group dell’Università del Kent. «I ciclisti dell’Ora devono svolgere la loro prova perennemente al di sopra della soglia del lattato, ma appena sotto il critical power: in altre parole, devono spingere al massimo tasso metabolico permesso dallo stato di fisiologia stabile». Se correttamente eseguita, quindi, l’Ora rappresenta letteralmente lo sforzo ad alta intensità più lungo che si possa sostenere.

Nell’ultima corsa da professionista di Voigt, il re del dolore all’attacco della prova per eccellenza della tempra mentale di uno sportivo, la sfida più dolorosa si rivelerà essere quella contro le vesciche da sellino dovute alla posizione scomoda e innaturale assunta per sessanta minuti. Voigt parte a razzo, con il primo giro da duecentocinquanta metri percorso in diciassette secondi. In poco tempo si costruisce un certo margine rispetto alla tabella di marcia prevista che stabiliva una media di diciassette secondi e nove decimi a giro. I primi dieci minuti gli riescono facili; dopo venti, con l’accumularsi della fatica, Voigt rallenta leggermente, alla ricerca della soglia di sostenibilità. Raggiunta la mezz’ora, il suo osso sacro è talmente dolorante da obbligarlo ad alzarsi dal sellino ogni dieci giri per allentare la pressione: un flagrante passo falso dal punto di vista aerodinamico per un ciclista il cui sponsor ha fornito una speciale tuta aderente, guanti anti-vento, e perfino calzini che minimizzano l’attrito. Per sua fortuna, Voigt si è già costruito un cuscinetto di sicurezza sufficiente per evitare che le vesciche mandino all’aria il suo attacco al record. 

Superati i duecento giri, sulle note trionfanti di The Final Countdown degli Europe ad accompagnare le sue ultime pedalate, Voigt ha il record a portata di mano, tanto da poter permettere ai propri pensieri di divagare per un attimo. C’è orgoglio per quel risultato, gioia per essere riuscito a eseguire perfettamente il piano, sollievo che stia per finire, il tutto mescolato con la triste consapevolezza che i suoi giorni da celebrità stiano per concludersi. 

Finalmente un colpo di pistola segna la fine dell’Ora, e il dolore che fino a quel momento era stato spinto ai margini della coscienza si abbatte su di lui: «Fa male tutto. Il collo fa male per via della posizione aerodinamica tenuta dalla testa. I gomiti per il peso sostenuto dalla parte superiore del corpo. I polmoni per il bruciore e per l’assenza prolungata di sufficiente ossigeno. Il cuore, per aver battuto così forte e così a lungo. La schiena… per non parlare del sedere! Sono immerso in un mondo di dolore atroce». 

Il tabellone indica 51.110 metri, una distanza che oblitera il record precedente di 1.410 metri, quasi un chilometro e mezzo. Il record di Voigt avrebbe resistito la bellezza di sei settimane, prima di essere infranto da un austriaco di nome Matthias Brändle, un ventiquattrenne più giovane di Voigt di quasi due decenni. Il record sarebbe caduto ancora tre volte nel 2015, l’ultima delle quali a opera di un vero peso massimo, il vincitore del Tour de France e cinque volte campione olimpico Bradley Wiggins, che ha spinto il record a 54.526 metri. 

Il tempismo di Voigt, grazie alla coincidenza del cambiamento del regolamento UCI e del suo imminente ritiro, è stato sicuramente fortunato. Ma il suo nome è, e sarà per sempre, iscritto su uno dei registri più esclusivi della storia del ciclismo.

Ci si può chiedere se Voigt ha davvero patito più dolore degli altri. Anche se ci sono ancora molte zone grigie nella letteratura scientifica, sembra effettivamente che i migliori atleti sappiano davvero spingersi in uno spazio più buio, e rimanerci più a lungo, di quello che la maggior parte della gente è disposta a tollerare. Ma il paragone più interessante non è quello tra Voigt e il classico Mario-con-gli-addominali-a-tartaruga, bensì quello tra Voigt e Wiggins e il resto del peloton di ciclisti professionisti. Gli studi relativi a atleti d’élite sono pochi e rari, ed è quasi impossibile raccogliere dati di gara, dei momenti in cui gli atleti vanno veramente a tutta.

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