LENT MA SEGUENT
Partiamo dal nome. Jeroboam è la bottiglia di spumante da 3 litri. 300 centilitri che in una metafora ciclistica è “facile” tramutare in 300 chilometri. È “facile” a parole, perché basta chiudere un secondo gli occhi, concentrarsi sul vero significato di una cosa e trasformarlo a proprio piacimento.
È meno facile per chi questa idea l’ha curata, tracciata, organizzata e resa vera. L’organizzazione ha preso un termine dell’enologia e l’ha reso pedalabile.
Pedalabile… beh, insomma, non sempre.
Ma i ragazzi in maglia azzurra dello staff sono sinceri sin dall’inizio. Il briefing per la 300 è diverso da quella della 150, principalmente per l’intro lapidaria e inconfutabile. Only three words: «È davvero impegnativa».
Di solito si parte con un forza, un daje, un alè, un mola mia, un dai che ce la fate. Ma così è meglio, perché è un attimo prenderla troppo alla leggera. Alzo il buff a filo del labbro superiore e rispondo dentro di me: “Lent ma seguent”.

PECCATI
Anche per questa intro, alla partenza alle 7:30 di sabato mattina mi vien subito da pensare a Geroboamo. Da lui viene il nome. Dal primo re d’Israele, che abbandonò la retta via del Cristianesimo, per venerare il vitello d’oro. Geroboamo il re dei peccati.
E di peccati noi 54 alla partenza del percorso lungo probabilmente ne abbiamo molti da espiare. E infatti la prima parte del percorso è costellata di imprevisti.
Pronti, via, siamo nel gruppo e inizia subito a piovere. Anche lo sterrato è puntuale ed è dietro la prima curva.
Alla prima pausa per cambiare già assetto e indossare il mantello da supereroi weatherproof ci accorgiamo che ho già perso una borraccia. O meglio la falsa borraccia con il GPS tracker.
Bene! Dopo soli 10 km percorsi salutiamo già il gruppo, e sotto l’acqua facciamo rientro verso Erbusco. Fortunatamente incontriamo due ragazzi che stavano tracciando anche il mio percorso. Perdo l’occasione di approfittarne e onestamente metto il mio tracker in un posto più al sicuro, nella sacca sopra il telaio, vicino al cuore pulsante della Canyon Grizl, che già sbuffa: «Simone sei il solito Zaaaai»


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MAI SOLI
La solitudine creata dalla mia ingenuità è in realtà una bolla che ci permette di scegliere il nostro passo, senza alcuna influenza esterna.
Fortunatamente la pioggia smette ed esce un sole timido. La prima vera salita a Polaveno scorre via liscia, come il suo asfalto (che rimpiangeremo) e parliamo anche con un biker locale che ci racconta di come abbia iniziato a spingere in mountain bike per un amico partito troppo presto.
«Voleva fare la Spartacus, anzi era già iscritto. Io non ero preparato per una gara del genere, una specie di Jeroboam in mountain-bike. Ma dovevo farla e l’ho finita. Non ero solo».
E da quel momento, il biker che conosciamo solo per voce e volto, non si è più fermato. Penso al buff che indosso, penso a chi mi ha portato ad essere qui anche oggi ad affrontare una sfida con noi stessi.
Non per vincerla o perderla, ma per affrontarla. Perché quello che rimane, nel bene o nel male, è sempre una piccola consapevolezza in più di poter superare ogni difficoltà. Perché in fondo non siamo mai soli. Nemmeno quando a Bovegno si prende la strada di S. Antonio e si inizia a salire. Nemmeno quando passiamo dalla Santella di S. Antonio, e ci accorgiamo che è vuota. Temiamo che il Santo sia scappato, per quello che ci aspetta. Ed avremo ragione.

LE SETTE CROCETTE
Le sogneremo spesso le sette crocette. Sono lì in cima al passo, al fresco dei loro 2041 metri, dal 1668. Non proprio queste crocette ora in ferro battuto, perché originariamente erano di legno.
Nessuno sa di preciso come mai siano lì, ma per noi sono il primo vero spartiacque della nostra Jeroboam.
Sapevamo che sarebbe stato il passo più duro da affrontare. Almeno sulla carta, ma in effetti sarà così anche sulla ghiaia.
Il muro a secco accompagna i primi tratti di mulattiera, che sfumano gradualmente in sentieri di cresta e in traversi tipici di medio-alta montagna. Non è roba da gravel, ma la Grizl, un po’ pedalata, un po’ spinta, rimane sempre fedele al mio fianco. Così come la Grail di Armin, nonostante un gracchiare costante della catena dilavata dalla pioggia di partenza.
Dalla nebbia che circonda il nostro lento avanzare, spuntano delle presenze, che rompono la monotonia della nostra fatica (e del mal di schiena): davanti a noi due geroboami che arrancano. Non siamo soli.
Poi una baita che invita a comprare il suo formaggio. Uno dei nuovi compagni di viaggio, cade in tentazione e si appesantisce di mezzo kilo di formaggella. Non lo rivedremo più.
Noi chiediamo dell’olio per la catena di Armin. E non è stato facile.
“Avete dell’olio?”
“Olio? Mmm Collio?”
“No, OLIO, olio della catena, della moto”
“Olio? Mmm mah”.
“Ghè mia lè de l’ole?”
“L’ole, certo, chel nurmal della motosega o chel de mangià?”
L’olio della motosega rende la trasmissione di Armin un violino. Salutiamo il formaggiaio, con la promessa di tornarci in un giorno di sole, e proseguiamo tra gli asini e le mucche.
Come tutti i passi di montagna, anche le 7 crocette si fanno desiderare. L’atmosfera bucolica e quieta che ci circonda allevia però anche l’attesa più snervante e i polpacci che tirano tra un passo su tacchette d’acciaio e l’altro.
La vista sul monte Ario, sulle 3 Colombine, sul Campione e sul Guglielmo, è incastrata tra le nuvole basse che, come tende spesse e pesanti, non la fanno passare.
Ma poco importa, lo spettacolo è sul nostro stesso sentiero.
Assistiamo perfino allo spettacolo della vita. Una pecorella partorisce da sola, con noi come unici parenti. La incitiamo mentre dà alla luce il piccolo Geroboamo. Sì, ci ha concesso l’onore di scegliere il nome del piccolo.
E come tutti i passi di montagna, anche le 7 crocette sbucano all’ultimo secondo, dandoci perfino un piccolo scorcio del paesaggio immenso circostante. Solo per qualche minuto.

LA SERENITA’
Può sembrare un ossimoro parlare di serenità durante due giorni di pedalate su sentieri poco brevettati per le due ruote non ammortizzate.
Eppure, dalle sette crocette fischiamo in picchiata sull’asfalto freddo ma accogliente del Passo Maniva, che ci prende per mano e ci spinge fino al Bivacco Tita Secchi.
La sua struttura di legno, quasi una protesi della costa rocciosa su cui appoggia, ha in serbo per noi panini con la nutella e salame bergamasco fresco fresco di taglio.
Il primo timbro, che è in realtà una firma, ci spinge ancora più dell’asfalto del Maniva e ci proietta in pieghe continue tra i 12 tornanti acutissimi che dal Passo Baremone ci mandano “in ferie” ad Anfo.
Le rive del lago d’Idro sanno di week-end tutto salviettone, piedi a mollo e frisbee.
Ed è qui che ci riprendiamo la nostra serenità. Riusciamo a concentrarci su cosa stiamo facendo, su ogni singolo movimento, respiro e sguardo di questa avventura. La fatica c’è, ma se ne sta zitta in un angolo, almeno per un momento, e ci fa godere appieno della vita.
E poco male se dal fondo del lago d’Idro si torna a salire. E si torna a salire per quasi 1500 metri, prima lisci poi ruvidi.
Il tramonto con vista sul cavalluccio marino che è il lago d’Idro, alternato da curve in un bosco che già profuma di sera, rafforzano il senso di serenità che sta guidando il momento più brillante della nostra giornata.
E nemmeno il buio, squarciato dalle nostre amiche torce, ne la foratura della mia anteriore, ma nemmeno gli ultimi portage imprevisti di giornata ci impediscono di raggiungere il secondo check-point.

ENOUGH CYCLING
Quanto avete pedalato oggi? 13 ore, 130 km asprissimi e 4500 metri di dislivello. Beh, diciamo abbastanza, diciamo enough. Potremmo anche dire che ne abbiamo abbastanza, ma non è così.
L’accoglienza birrosa, festosa, e hawaiana (sì, hawaiana), dei mitici Enough Cycling, alla Malga Corva, sul monte Tombea, rallegra la nostra fame.
Sono quasi tutti qua. Del gruppo che abbiamo abbandonato molto presto mancano alcuni coraggiosi, e mancano certamente il Re e il principe del week-end. Geoffrey Langat e Sofiane Sehili, involati già oltre le sponde del lago di Garda. La regina è Nancy Akinyi, anche lei già riflessa dalle acque calme di Salò.
Noi siamo arrivati un po’ tardi alla tettoia rallegrata dalla musica degli Enough. Ci siamo persi salsicce e salamelle cucinati da un Mattia De Marchi in borghese. Sì, tutti nomi di un certo calibro. Noi, per giustificare la nostra presenza tra loro, ci agganciamo umilmente al nostro mantra “Lent ma Seguent”.
E ripieghiamo su un piatto di pasta alla Malga Corva.
E per restare fedeli al nostro mantra, dopo un bel cambio rigenerante, ripartiamo.
Inizia ad essere notte profonda, anzi mattina presto. E allora scegliamo Jimi Hendrix per alternarsi ai bramiti dei cervi e per graffiare il buio e il nostro sonno, mentre camminaliamo (un po’ camminiamo e un po’ pedaliamo), per altri 5 km e 600 metri di dislivello.
La discesa sterrata fino al Lago di Garda è un massaggio shiatsu infinito, e uno slalom tra i rospi giganti immobili in mezzo alla strada che non ci degnano di uno sguardo.
Il primo paese che incontriamo è Piovere. Il nome, e i lampi all’orizzonte ci inducono a proseguire, anzi pure a spingere un po’. Finalmente si può, e il Lago di Garda di notte, senza fari e clacson scivola via che è un piacere. Toscolano Maderno, Gardone Val Trompia e infine Salò.
I sussurri nella testa ci consigliano di riposare un attimo. E così l’entrata di uno studio ortopedico diventa la cuccia per noi e per le fedeli Canyon. Per ben 40 minuti. Suona la sveglia e ci svegliamo. Stanchi sì, ma comunque meno di quando suona in un banalissimo lunedì.

2 ORE DI BUIO
Vero, la notte è durata molto di più. 11 ore abbondanti. Ma due sono state le ore di buio totale, che sono piombate su di noi alla ripartenza da Salò.
Quando si dice: Testa bassa e pedalare. Per due ore per me è stato letteralmente così. Due ore spesso sono tutto quello che hai per pedalare, per allenarti durante la settimana. Qui, nel bel mezzo di questo viaggio in continuo, le due ore sono state un momento di buio lunghissimo.
Non solo metaforicamente ma anche letteralmente.
Accartocciato sulla bicicletta, guardavo il fanalino rosso di Armin, nel buio bagnato di un diluvio anche lui lungo due ore.
Quella lucina intermittente rossa è stata la mia guida e l’unico punto di contatto che avessi con la realtà. Non facevo che copiare meccanicamente le sue traiettorie senza aver le forze per fare altro. Se Armin fosse finito in un fosso, l’avrei fatto anche io. Ma Armin è un drago, non mollava, e non sbagliava una linea, reduce dalle sue passate scorribande di downhill.
Il mio stomaco aveva deciso in autonomia che era il momento di mollare, di tornare a casa al calduccio e per convincermi mi ha tolto tutte le energie, mi ha vietato di mangiare o di bere, e bruciava come un dannato. Ma non ce l’ha fatta.
Io ho smesso di guardare il contachilometri (e quando succede non è un buon segno) se non ogni tanto per vedere l’ora.
Dalle 5 alle 7 mi ripetevo sempre e solo le stesse 6 cose, in un loop che non finiva più:
1) Dai che arrivano le 7.
2) Dai che viene giorno.
3) Dai che smette di piovere
4) Dai che bevi un tè caldo al limone.
5) Dai che si svegliano tutti e vi fanno il tifo controllando il live-tracking.
6) Lent ma seguent
Dicono che il pensiero possa piegare l’universo, alterare la casualità delle cose e farle tendere verso di noi. Non so se sia vero. Forse è solo coincidenza, oppure è il papi che è andato a bussare dal grande capo.
So solo che sono arrivate le 7. È venuto giorno, ha smesso di piovere, ho bevuto un tè caldo al limone (e ho pure fatto un mini sonnellino sul divano comodissimo del bar. “Armin svegliami quando hai finito le tue brioche”), si sono svegliati tutti e hanno cominciato ad incitarci, vedendoci ormai ai meno 100 km, con 6000 metri di dislivello messi in tasca.

IL VOLO DELL’AIRONE
Vero, l’airone per gli sportivi bresciani è Andrea Caracciolo. Ma l’Airone per tutti i ciclisti è Fausto Coppi. E cosa c’entra Fausto Coppi con voi due che arrancate dopo 190 km? Ecco, 190, come i chilometri dell’incredibile fuga di Fausto Coppi al Giro del 1949, nella Pinerolo-Cuneo. E proprio il Campionissimo ci balza in mente nel momento della rinascita e del ritorno della speranza.
Lì, nel bellissimo parco dell’Airone, a Bedizzole, tra i joggers della domenica, famiglie allegre sorprese del sole nonostante le previsioni pessimistiche della vigilia (che sia colpa del wet bias?), rinasciamo.
Il terreno è finalmente gravel, quella ghiaia che sfrigola al passaggio dei nostri pneumatici, opponendo quella giusta resistenza che rende tutto un po’ frizzantino, ma senza sbalzarci come yo-yo sulla sella.
Il parco lascia spazio a pratoni di erba incolta e fradicia, pattugliati dalle squadre di cacciatori Bresciani con i loro cani da riporto.
Pensiamo che possiamo farcela. Il traguardo è ancora distante e ci sono ancora ben tre salite distinte da affrontare, ma il ritmo è finalmente quello giusto. Pensiamo allora che solo una fucilata mal piazzata possa porre la parola fine. Acceleriamo. Anzi, ora sì, voliamo. Come l’airone.

FANGO E MARMO
Quando si iniziano a vedere le cave di marmo di Nuvolera, pensiamo già al fango che potrebbe accoglierci sulle rampe solitamente cavalcate dai camion pesanti.
Entriamo nella cava, e la strada si colora subito di marrancione (sì, marrancione), ci illude con qualche tratto pianeggiante e poi si inerpica dritto per dritto.
Il fango c’è, e accarezza i sassi bianchi reduci dal taglio del marmo. Il fotografo ci attende, ma nota che sorridere in quella posizione da orango-tango è impossibile. E allora fa partire il drone sulle nostre teste, donandoci un attimo di sollievo con quella brezza al calcare.
Il terzo e ultimo check-point è all’insegna dell’ottimismo. “Ormai ci siete”. mancano solo 500 metri di dislivello (parliamone). I ragazzi di 3T mi guardano mentre scolo una bottiglia di coca e non osano sottolinearlo (grazie). Lo faranno solo all’arrivo, ormai certi che qualsiasi problema avessi, ormai era superato.
Superato grazie ad Armin, che inizia a gridare al vento ogni volta che i chilometri all’arrivo diminuiscono di 5.
A Brescia, la salita asfaltata fino a “Brescia Alta” sembra una carezza. La salita sul Monte Picastello un po’ meno. Molto meno. La strada delle trincee è quella tipica salita che “era meglio l’avessero messa all’inizio”. Ma ormai nulla può scalfirci. Se fai 300 km, quando ne mancano 30, la testa è già all’arrivo. E nemmeno quando scopriamo che la nostra traccia non porta a Erbusco, ma a 7 chilometri di distanza, non ci scoraggiamo.
Afferriamo la strada provinciale, che è come sedersi su un divano morbidissimo dopo una giornata seduta su una panca di legno, e sorridiamo alla bellissima accoglienza del villaggio di arrivo.
«Vi aspetta la vostra birra». È quello che volevamo sentirci dire. «Ma prima foto di rito e firma sul pannello».
Non sono molte le firme che ci hanno anticipato. Circa una decina. Segno che “Lent ma Seguent” era il passo giusto anche oggi. Oggi e ieri, dato che siamo partiti alle 8 di sabato e siamo arrivati alle 14 di domenica.
Come si dice? «La notte leoni… la mattina… pure! Altrimenti la Jeroboam 300 non la finisci». Ora lo sappiamo per certo.