Sembra tutto un gioco per lui ed è bello così. Lo sguardo di traverso mentre supera sul traguardo Vingegaard dice tutto: “C’hai provato, eh?”.
“Sorrideva sempre”, si dice. Così come saluta tutti quando scende in senso contrario rispetto all’arrivo. Compagni di squadra, «compatti e che si sono fatti in quattro per me», e tifosi con i cappellini gialli. «Qui all’arrivo c’era la mia compagna e la mia famiglia, oggi per me era un giorno speciale e ci tenevo». A fare bene, che poi per uno così vuol dire vincere.
Eppure. Eppure è come quando fai un gioco da bambino, ma vinci sempre e magari decidi che per una volta lasci agli altri il piacere del successo, ma niente, c’è dentro di te una scintilla, una miccetta sempre accesa, pronta a divampare. La differenza tra i corridori forti e quelli della categoria Pogačar.
Sembra quasi che Vingegaard su quel traguardo scattandogli in faccia abbia alimentato quel fuoco all’apparenza addormentato. Come avesse tirato dentro a Pogačar dei petardi. Come gli avesse dato una di quelle sberle che si dà a chi non riesce a risvegliarsi dal torpore. E quello ha reagito d’istinto.
Pogačar pareva controllare, ma non affondare il colpo, osservando Kamna da lontano, in progressione e con la testa leggermente abbassata per lo sforzo, spingeva forte, con i polpacci tirati, ma «Ero a tutta, è stata una tappa difficile [ma va! Nda], e ritengo Jonas in questo momento lo scalatore più forte del mondo». Già perché tu sai di appartenere a un’altra categoria.
Quello allora lo sorprende, ma non c’è scampo. La differenza è troppa con tutti su quasi tutti i terreni. Sempre. Anche se ti serve un metro, ti basta un metro per vincere in maglia gialla. Un altro capitolo, un altro successo e poi magari a fine carriera faremo i conti per capire a quale categoria appartenere. Al momento di sicuro a quella dei Pogačar.