All’aeroporto di Narvik, era atterrato da poco l’aereo da cui sarebbe scesa Nadia Vaudagna. In auto, in un parcheggio, la aspetta Bruno: è sera inoltrata, ma la luce non abbandona la terra di Norvegia, è luglio, è l’estate del 2023. In città, si dice che Bruno sia l’italiano che vive qui da più tempo, dal 1965, per la precisione, quando vi arrivò, ancora ragazzo, dal Friuli Venezia Giulia, giovane musicista, all’avventura. Nadia è partita da Cavaglià, nella zona di Biella, con lei due ragazzini, i suoi figli, la loro vecchia casa ormai è lontana e non vi farà più ritorno. Fra qualche giorno, a Narvik, anzi, arriverà un vero e proprio bilico con all’interno «tutta la nostra vita precedente». Riccardo Perazzolo, il padre di quei giovani, ha un biglietto aereo prenotato e ben presto seguirà lo stesso volo verso il paese dei fiordi: un volo reale, nel cielo, come quello di un aeroplano, un volo di fantasia come quello delle persone che vanno via e ricominciano da zero, con solo il coraggio. “La dolce vita” è il titolo, una reminiscenza di Fellini, di questa storia ed è il nome di un locale, un bar, caffetteria, gelateria, con le sedie colorate, i dehors più chiari, gli ombrelloni bianchi e i fiori tutto intorno.
Un luogo dove si viene accolti da un bancone con linee che ricalcano un container, su cui sono incisi dei numeri: la latitudine di Narvik, quella di Cavaglià e la distanza dall’Italia alla Norvegia, quasi fosse realmente un container, in viaggio da un porto A ad un porto B: un omaggio al porto di Narvik, affacciato sulle montagne. Chissà, forse, un domani, da queste parti, esisterà anche una rainbow street, una strada colorata dai colori dell’arcobaleno, così sognano Nadia e Riccardo. In città è tutto sfumato tra il grigio ed il nero, questione di storia: della miniera di Kiruna, del ferro che vi si ricavava, della guerra, dei tedeschi, degli inglesi e del centro città raso al suolo. Allora, per “La dolce vita” si cerca il colore, lo si porta. Ma la storia è anche la loro storia, quella di una famiglia nata e cresciuta in Italia che, un pomeriggio, ha chiesto ai propri figli: «Noi vorremmo fare questa scelta, voi sareste d’accordo? Basta un vostro no per bloccare tutto e restare qui, basta un vostro sì per iniziare a muovere passi più decisi». Quei bambini hanno risposto sì e, a distanza di otto anni da una vacanza in Norvegia, sui fiordi, nell’aria leggera e nella natura incontaminata, di un verde intenso, dopo tanti pensieri, altrettanti progetti e molti cambiamenti, un altro volo si è alzato sopra le nuvole.
«La dolce vita non è la nostra. A sera siamo stanchi: la luce continua, in questa stagione, non permette di riposare bene, si perde il senso del tempo. Alle ventuno siamo ancora nel locale e, talvolta, alle due di notte, ci sorprendiamo ancora intenti a fare qualcosa. Non è facile. Forse immaginavamo una vita più semplice, meno impegnativa: non è così. Il tempo non c’è mai, le giornate non bastano. La dolce vita è quella che si nasconde tra le piccole cose d’Italia, che tutti conosciamo perché siamo diventati grandi respirando queste atmosfere: i pranzi e le cene come una festa, a tavola assieme, il caffè ad un tavolino, la possibilità di tirare il fiato e guardarsi attorno, pur con mille problemi. L’Italia è anche questo. Noi vorremmo raccontarlo, a chi a Narvik abita, ma anche a chi vi transita per lavoro o per un viaggio, perché, è vero, la dolce vita non è la nostra eppure non ci manca niente, siamo felici e, soprattutto, guardando avanti, negli anni, non vediamo una nebulosa indefinita, ma una strada, un posto o un tempo verso cui camminare». Nadia, la sera, frequenta i corsi di norvegese organizzati dai volontari della Croce Rossa, e, piano piano, sta imparando la lingua. Riccardo, ormai, conosce le persone che abitualmente varcano la soglia di ingresso del locale e non ha più quel timore che aveva all’inizio, quando le vedeva austere, inespressive, quasi fossero arrabbiate o deluse dal gelato o da quell’affettato. Non lo ha più perché questa è la loro essenza, ma, sulla porta, si voltano sempre e dicono qualcosa di bello sulla loro esperienza. Non a caso, Bruno cita spesso un vecchio detto norvegese: «Meglio farsi perdonare, che chiedere». La musica è in sottofondo e copre i silenzi, la voce bassa di chi conversa nel locale. A Capodanno, invece, i fuochi d’artificio illuminano il cielo e anche nelle case si fatica a sentirsi parlare. Dicono sia un classico, una sorta di tregua dal silenzio.
All’interno di questo locale, l’origano di Pantelleria, i vini della zona di Asti e di Cuneo, l’olio che proviene dall’Umbria, la pasta, molti gusti di gelato, con la frutta ed il latte fresco, al modo in cui Nadia ha imparato l’arte del gelato da sua cognata e come, successivamente, ha studiato, il caffè, quello italiano, per cui non serve il “siru”, le essenze di vaniglia e caramello, che vengono miscelate al caffè norvegese, così tostato, così dorato, da essere troppo forte, con un sapore che si cerca di coprire e così via, tutto di origine italiana, fino al pesto ligure con cui vengono condite le bruschette. Qualche tempo fa, il pesto era finito e, per qualche giorno, non sono state servite più nemmeno le bruschette, per quel principio per cui tutto è, per scelta, italiano. «La nostra missione- raccontano Nadia e Riccardo- è quella di portare qui odori e sapori della tradizione mediterranea e provare a diffondere una cultura differente riguardo al cibo. Spiegando, raccontando e ascoltando». Una missione per cui sono necessari tempo e progetti da sviluppare: «L’Italia, purtroppo, a nostro avviso ha smesso di investire sui giovani, sull’istruzione, sulla sanità, e, quando manca questa visione, automaticamente viene a mancare la possibilità di progettare un futuro, allora si va altrove. Oltre che di sci, sono un appassionato di calcio: è già la seconda volta che non riusciamo a qualificarci al Mondiale. Cosa stiamo facendo per modificare questa realtà? Qui ci sono campi a disposizione dei bambini gratuitamente. Lo stesso vale per la scuola. Non una questione economica, ma di immagine e di visione ampia sulla realtà, di sicurezza. L’esempio è pratico: le porte che ci sono qui, basterebbe una spallata per abbatterle, eppure tutti hanno la certezza che non accadrà. Tutto è connesso, si tiene per mano». Già, le connessioni, spesso casuali, tuttavia capaci di legare storie apparentemente distanti.
Allora, Narvik, la città con la stazione ferroviaria più a nord del mondo, con un porto libero dai ghiacci e l’aeroporto, è stata scelta quasi per caso, prima che succedessero tante altre cose: il comune stava rinnovando dei locali che voleva adibire a caffetteria. Nadia e Riccardo conoscono un signore, il cui nonno, nel 1950, in veste di esploratore, arrivò da Bormio, a caccia di pellicce di foca: quell’anziano signore divenne anche console. Il nipote, invece, aiuta la coppia in questo trasferimento, ma non è l’unico. Un’impiegata del comune li sostiene con la ricerca della casa, una delle poche colorate, rossa, in cui ora vivono, e con l’inserimento a scuola dei figli. Si sentono cercati, voluti, a tratti attesi, nonostante il comune abbia altre proposte. Qualcuno ha dato una mano con il trasloco, oppure nel trasporto di un divano. Prezioso, in ogni caso. Fino al momento in cui, come dei paracadutisti esperti, bisogna lasciarsi andare e avere il coraggio di volare: «Non sappiamo come vivranno questa situazione i nostri figli, con il passare degli anni: noi siamo convinti che possa essere una grossa opportunità anche per loro, pur con le difficoltà che sono naturali». Fuori scorrono le ruote delle biciclette che, nonostante le temperature, a volte molto rigide, girano praticamente ogni giorno in gran numero: c’è sempre uno spazio per i bambini e una strada che porta alle Lofoten, dove si tiene la Cicloturistica. Sulle montagne, anche nei mesi di crepuscolo, la neve è sempre pronta ad accogliere gli sciatori, magari con una luce ad illuminare il percorso. Le piste da sci arrivano quasi fino alla città e Riccardo è uno sciatore provetto: quando si scende, pare quasi di sciare sul mare, è suggestivo. Altre volte, sono lunghe camminate ad allietare le giornate, verso i laghi.
“La dolce vita” resta lì, a Narvik, in quel punto esatto, che sembrava casuale, invece non lo è, è perfetto, perché, anche solo cento metri più in là non avrebbe funzionato come, invece, accade, e ogni giorno continua a raccontare: «Ci piacerebbe che questo fosse un angolo in cui mettere da parte gli orologi, le loro lancette ed il ticchettio che pare ci insegua sempre. Perché il tempo che si dedica al cibo, al buon cibo, non è tempo buttato via, non è tempo perso per cui bisogna mangiare di fretta, senza quasi sapere cosa si stia mangiando, senza gustarsi le vivande, senza assaporare il momento. Al contrario, si tratta di un tempo prezioso, però servono anni per impararlo. Dobbiamo dire che qualche segnale c’è e qualcuno, dopo aver sperimentato questa dimensione, la sceglie». Le missioni, si sa, sono affari un poco speciali, per cui serve dedizione e pazienza: un pezzetto di Italia nell’Artico sta provando ad avverare la propria e sembra ci stia riuscendo.
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