Avete mai avuto il timore di dimenticare una sensazione? Magari una bella sensazione che, in qualche circostanza, avete provato. Sono quelle le occasioni in cui può capitare di pensare: «Non vorrei mai dimenticarmi come mi sento ora». A Valeria Bidoggia è successo la prima volta in cui è stata nelle Fiandre, oppure, per la precisione, la prima volta in cui ha camminato (sì, è bastato camminare) su un tratto di pavè. Ci racconta di averlo accarezzato, di essersi seduta tra quelle pietre e di aver pensato alla storia: «Non c’è essere vivente che possa aver assistito a ciò a cui ha assistito un sasso, una roccia o qualunque altra creatura inanimata. Vero, lì non c’è la coscienza, ma penso che gli esseri umani, quando vi si accostano, possano sentire qualcosa di particolare. Sì, perché noi sappiamo cos’è accaduto lì. Quante biciclette, quanto dolore, quante voci, quanta speranza, è passata da lì. È difficile da raccontare come tutte le cose che percepiamo, ma io l’ho avvertita e ho chiesto a me stessa di non scordarla».
Però la paura di dimenticare c’è sempre e allora si cerca di tornare, di riprovare quel che già si è provato, nella speranza sia ancora la stessa cosa. Valeria ha fatto proprio così e, sulle pietre, è tornata in bicicletta, nella grande festa del sabato, in cui gli appassionati pedalano sul tragitto, come professionisti veri. A tutti gli effetti perché per le persone che sono a guardare non fa molta differenza chi stia passando in quel momento: si tratta, comunque, di qualcuno che sta andando in bicicletta e, solo per questo, bisogna gridare, fare rumore, incitare, forse anche ballare e cantare. «Sai, tutti vogliono riprovare le cose belle, le cose che li hanno resi felici, ma, come sempre, ci sono due volti: il desiderio e la paura. Volevo pedalare su quei tratti, ma avevo anche timore di non farcela, di non essere all’altezza. Forse, persino, di non provare più la sensazione di quella prima volta e di macchiarne il ricordo. In questi casi serve un obbligo: qualcuno che voglia che tu lo faccia. Il regalo di mio marito, per Natale, è stato proprio questo. Il Fiandre ed il coraggio».
Il menu: 75 chilometri di percorso, nove tratti in pavè ed anche la pioggia, perché sabato 1 aprile, in Belgio, il cielo è inclemente. A questo si aggiunge il fatto che questo tipo di tempo atmosferico non lascia tranquillo nessuno, in particolare Valeria: «Credo sia la prova che è tutto nella testa, perché in altre occasioni non sarei nemmeno uscita in bicicletta con la pioggia, figuriamoci su quei muri, con quelle difficoltà. Invece…». Invece è alla partenza ed in macchina ascolta musica che possa caricarla, ha un magone, gli occhi lucidi, canta a voce alta: «Il timore è sempre quello di non essere all’altezza. Nel mio caso è un fatto caratteriale, ma in queste prove pensi ancor di più. In altre occasioni è successo che qualcuno gridasse solo perché ero dalla parte sbagliata della strada, perché “lo intralciavo”: ti senti sotto esame, anche se non lo sei. Ed è un peccato. Ecco, prima che partisse il mio Giro delle Fiandre, mi sentivo così, sotto esame». In Belgio, però, tutto questo non c’è, almeno non lì. Si vedono persone che ridono, spensierate e tutto questo si trasmette. «Forse hanno capito il vero senso di giornate del genere. Io guardavo e mi dicevo: “Quasi quasi rido anche io”. Sorridevo e pensavo che mi sentivo nel mio posto nel mondo». In particolare, sul Paterberg, muro che Valeria percorre metà in bicicletta e metà a piedi: verso la cima, vede due ragazze che ridono, le guarda e ride: «Mi sono resa conto solo dopo, vedendo le fotografie, che ridevo ovunque. Anche se mi facevano male i polsi, le gambe, tutti i muscoli, persino i piedi». Quella fatica che, per quanto faccia male, si vuole vivere fino in fondo «perché ti fa capire quanto vali, quanto puoi fare da sola, senza dipendere da nessuno, con il supporto di tanti, forse, ma da sola. E sapere che sei in grado di cavartela da sola, cambia tutto, rasserena».
Per questo, sul Kwaremont, quando un gruppo di tifosi italiani capisce che anche Valeria è italiana, e chiama a raccolta tutti, al ritmo di: «Spingiamola, dai!». Lei, tira fuori la voce: «No, vi prego: voglio farcela da sola». Quei ragazzi continuano a incitare e la vedono che, spingendo sui pedali, arriva alla fine: esultano. Sarà uno dei tanti momenti di incontro con i tifosi: «Ad un certo punto ho visto un uomo che mi gridava: “Come on! Come on!”. Mi sembrava proprio Andrè Greipel, l’ho guardato e gli ho detto: “Greipel?”. Sì, era lui, ed è tornato ad incitarmi». C’è sorpresa perché fa sempre strano vedere qualcuno per cui si tifava che, adesso, fa il tifo per te, in realtà, la risposta di Valeria Bidoggia è naturale.
«Non conta chi hai davanti, conta il fatto che, se conosci la fatica, quando vedi qualcuno che ne sta facendo molta, non puoi che esserne partecipe. Accade qualcosa di simile con il dolore». Sì, tutto questo nel verde delle Fiandre, “indimenticabile”, e con, nel naso, l’odore del fango, “piacevole e fastidioso allo stesso tempo”. Tutto questo sulle pietre che sono spaventose ma anche rassicuranti, a tratti.
L’arrivo è là in fondo, da molti minuti ormai, ma non arriva mai, quasi fosse un’illusione o il tempo rallentato, fermato. Servono minuti e minuti per transitare sotto l’arrivo, lo stesso dei corridori, di Pogačar o di Kopecky: «Il giorno dopo, mi stupivo del poco tempo impiegato dai professionisti per percorrere il pavè. A me sembra di averci messo un’infinità, ma ce l’ho fatta, con solo 450 chilometri nelle gambe. È incredibile».
Ed in tutto questo, la cosa più importante: «Quella sensazione, quella di cui ti parlavo, che temevo di scordare o di sporcare, è stata la stessa. Identica. Forse davvero non la scorderò mai, non la perderò mai».
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