Un uomo evidentemente più saggio di me, Vasco Pratolini, nel 1955 decise di tornare al Giro d’Italia dopo diversi anni per prendersi una «vacanza di girino». Era inviato per un paio di giornali dell’epoca, scriveva gran bei pezzi di colore, niente più. Un lavoro da sogno, potremmo pensare oggi. Pratolini vedeva la sua partecipazione al Giro come una sorta di liberazione: «Da sei mesi, fino all’altro ieri, sono stato in cura. Avevo dei disturbi, leggeri ma noiosi, soprattutto perché non si capiva di che si trattava. […] La diagnosi è balzata davanti agli occhi con l’evidenza delle cose di natura. Ero ammalato di sedia e di scrittoio. Andar dietro al Giro è la medicina più sicura. Già al solo pensiero, mi è passato come d’incanto il mal di capo. Non sono un veterano del Giro, ma nemmeno una recluta, mi considero diciamo un richiamato».

Ma il Pratolini del ’55 non è più l’ingenuo osservatore di otto anni prima, quando partecipò al suo primo Giro. «Ero io ragazzo quando mi presentai alla punzonatura» scriveva all’epoca, ma uno scrittore ultra-quarantenne che ricorda come sia coetaneo di certi vecchi campioni e vuole rivivere «la baldanza di quando eravamo ragazzi». Dopo tanti anni e/o tanti Giri d’Italia, insomma, ci si fa l’abitudine.

Ecco, similmente a Pratolini la mia medicina si trova durante il Giro d’Italia, ma non è il Giro d’Italia: si tratta dello scoprire posti, zone, salite e discese, piccoli pezzi di mondo insomma, in sella alla bici mia. Al mattino presto, alle volte prestissimo, quando i corridori ancora si stanno svegliando e pochissimi degli addetti ai lavori hanno la mia stessa patologia (tra questi lo scrittore e podcaster Daniel Friebe, correndo, e un meccanico della DSM), inforco la bici e vado in giro. Spesso a caso, ieri no. Ieri ho voluto percorrere prima dei corridori il finale della crono, da Ponte San Giovanni al centro di Perugia, per capire in anticipo e meglio cosa avrebbe atteso i corridori.

Se ne vedono molte, di cose, passando sul percorso di gara prima dei corridori. Già appostata a bordo strada c’è la fotografa Simona, c’è qualcuno che scrive il nome dei corridori sull’asfalto, ci sono coppie di tifosi che a malapena sanno cos’è il ciclismo. Di sicuro non lo sa un anziano che, appena entrato a Perugia città, mi chiede se sono un corridore del Giro. Però ecco, questa è la mia medicina: vedere una città rosa per ore, attesa trepidante per il passaggio dei corridori, rispondere al saluto di pazzi furiosi che incoraggiano un amatore qualsiasi come se fosse Van der Poel, farsi passare un bicchiere di vino sul tratto più duro di salita.

E poi tornare in fretta a fare la doccia, recuperare le cose, andare verso la sala stampa. Nel mentre, qualcuno ti ferma chiedendo: «Scusi, lei sa quand’è che passa il Giro?». È la risposta a questa domanda, «a breve», la mia medicina più sicura.