A tratti, guardando il Passo Maniva, oggi, sembrava di trovarsi davanti a una miniatura, vista dall’alto. Di quelle in qualche vecchia sala, in cui sono tratteggiati pochi dettagli, qualche albero, la strada e i tornanti, dritti e ripidi. Di quelle con le sagome delle cicliste, poche, una o due per ogni angolo, con i soliti colori: rosa, bianca, rossa e blu, magari. Quelle miniature in cui ogni ciclista ha pochi dettagli: il casco, gli occhiali, i calzini. Ma, allo stesso tempo, un’espressione diversa. Ci si avvicina curiosi e si guardano le smorfie, le pupille che sono un punto minuscolo, i denti bianchi che si intravedono per la fatica. Miniature immobili, fuori dal tempo, col tempo che sembra possa tornare in un attimo. Sembra basti dire “stop” oppure “azione” per vedere quelle cicliste animarsi e riprendere il ritmo.
Allora azione. E Juliette Labous lascia la fuga, prosegue da sola, mentre le nuvole coprono il sole: quasi un direttore di orchestra che, non più ascoltato dal gruppo, inizia un assolo, passando da strumento a strumento senza perdere una battuta. Solo un secondo di silenzio e ritorna la sinfonia. Stop. Mentre van Vleuten attacca dalla testa del gruppo e le poche con lei diventano pochissime: solo tre. Come a Cesena. Le stesse: Annemiek van Vleuten, Mavi Garcia e Marta Cavalli.
Azione. Vanno via, in un’alternanza di ritmi e posizioni sui pedali. Di respiri che tornano quando van Vleuten lascia la testa del gruppetto e su un tornante sono quasi appaiate. Per guardarsi, per scoprirsi, per vedere se le avversarie sono davvero come le immagini, se soffrono anche loro. Il nostro stop arriva proprio in questo momento e torniamo ad avvicinarci, a guardare ogni dettaglio. Gli occhi coperti dagli occhiali di van Vleuten e Cavalli e quelli alla luce del sole di Garcia. I suoi occhiali riflettono solo il cielo.
Di nuovo azione e rientrano Longo Borghini e Realini. Longo Borghini va davanti, forza l’andatura, poi rallenta. Allora accelera Cavalli, inventa Garcia, ritenta van Vleuten. Ancora stop, altro fermo immagine. Lassù, Labous vince, a braccia alzate, mentre inizia a piovere. Dietro la maglia rosa, fra quelle poche cicliste sul rettilineo all’insù, attacca: un gioco allo sfinimento quello di Annemiek van Vleuten, quasi una tortura. Una domanda in continua attesa di risposta: “Quando vi staccate? Non state soffrendo ancora abbastanza per lasciarmi andare? Insisto, insisto ancora”.
Azione. Garcia e Cavalli lasciano prima mezza ruota, poi una, poi si staccano e van Vleuten è ancora sola. Saranno seconda e terza sul traguardo, sotto una pioggia più pressante, più pesante, come i muscoli e i pensieri. Come le maglie intrise d’acqua che aumentano il peso di un corpo che già è insopportabile per colpa della fatica, della salita.
Stop. Con i dettagli delle prime pozzanghere che si formano per strada e tutto che sembra finito ma finito non è. Perché su quei tornanti c’è ancora chi deve arrivare, chi lotta con il tempo massimo, chi non capisce più cosa sia sudore e cosa acqua.
Azione, per l’ultima volta. Quando qui, sotto un cielo sempre più buio, arriveranno le ultime, scenderanno di sella, si siederanno a terra e anche per oggi sarà finita. Bella e tragica come ogni salita.