Chissà se anche a Medellín sarà lo stesso. Se quell’eco arriva fino a lì. I nomi dei ciclisti sono evocativi. Riportano indietro di anni e si collegano quasi automaticamente ad altri nomi, come nella ricostruzione di un puzzle. Succede per il ciclismo come per tutti gli altri sport. Chi non ricorda a memoria la formazione dell’Italia campione del mondo nel 1982? Alcune volte quei nomi sono persino associati alla particolare cadenza nella loro pronuncia da parte di un cronista. Quasi sempre a ricordi o pomeriggi estivi davanti al televisore. Magari nell’infanzia o nell’adolescenza. Per questo se vi nominiamo Óscar Sevilla, è come se vi nominassimo anche Santiago Botero, Juan Manuel Garate, Beat Zberg, José Maria Jiménez, Santiago Blanco, Igor Gonzàlez de Galdeano e molti altri. Solo alcuni fra gli atleti che hanno fatto parte del gruppo a cavallo fra gli anni novanta e il duemila.
Magari eravate ragazzini e seguivate il Tour de France durante le vacanze estive, oppure eravate già adulti e per sapere qualcosa dell’andamento della Grande Boucle aspettavate di infilarvi in macchina e di accendere la radio. Sevilla ebbe il suo anno migliore proprio in quel 2001 ed il racconto apparterrebbe agli annali, non fosse che il ”ragazzino” nato ad Albacete, in Castiglia-La Mancia, il 29 settembre 1976, è ancora sulla breccia e a quasi quarantacinque anni, qualche settimana fa, si è imposto nella prova a cronometro della Vuelta al Tàchira, in Venezuela, chiudendo poi secondo in classifica generale.
Óscar Sevilla arriva in gruppo nel 1998. Esile, non molto alto, ha il classico fisico da scalatore ed il sorriso tipico degli spagnoli. Corre per la Kelme marchio di abbigliamento divenuto noto in Italia per quella maglia a strisce verdi e bianche. Squadra di scalatori e fuggiaschi: Roberto Heras e Fernando Escartìn i più celebri, Alejandro Valverde tra i volti noti lanciati nel professionismo. Al Tour del 2001 chiude settimo, Sevilla. Ha quasi venti minuti da Lance Armstrong, non tiene il passo dell’americano ma è sempre nel gruppo dei migliori e prova anche a giocarsela. A Parigi vestirà la maglia bianca di miglior giovane e solo poche settimane dopo rischierà di vincere la Vuelta, superato dal connazionale Ángel Casero. Sarà la sua migliore annata, negli anni successivi stenterà a riconfermarsi a quel livello. Ma la batosta non è questa, la batosta deve ancora arrivare ed inizia a serpeggiare a fine giugno del 2006 fra le pagine dei giornali e il villaggio di partenza del Tour de France a Dunkerque. È l’Operación Puerto.
Sevilla non è coinvolto personalmente, ma come compagno di squadra di Jan Ullrich alla T-Mobile. «Ho sofferto molto- racconta a Cyclingnews- non potevo fare nulla. Non potevo neanche difendermi perché non ero accusato personalmente. La federazione ci ha lasciato in un limbo: non potevamo tornare e non avevamo nemmeno una giusta pena da scontare». Il ricordo più doloroso per Sevilla è legato alla sofferenza che respirava in casa, la paura di aver deluso. Se vuole andare avanti, deve cambiare qualcosa. Una delle possibilità, è cambiare terra. «Non fosse stato per l’Operaciòn Puerto correrei ancora in Europa. Avrei guadagnato più soldi e sarei anche stato più famoso. Ma non sarei mai stato felice come lo sono ora». Sevilla parte, va in Colombia.
Lì trova la vita vera: «La verità è che sono contento di aver superato quelle difficoltà e di essere qui. Nonostante tutto sto ancora facendo ciò che ho sempre voluto fare. Ho trovato un’altra vita, me la sono costruita. Perché? Perché ho trovato un’altra nazione, dove la vita è considerata per ciò che è e per quanto vale. Spesso in Europa non apprezziamo quello che abbiamo e abbiamo tantissimo. In Colombia hanno molto ma molto meno però danno un valore enorme ad ogni cosa. Si godono la vita e si godono ogni giorno. Non sono arrivato qui in un periodo facile, ma sono riusciti a farmi sentire a casa, a farmi sentire felice».
Così, a chi si chiede perché Óscar Sevilla corra ancora, a chi si meraviglia e non capisce come faccia ad essere così competitivo e a sfidare ragazzi che potrebbero essere suoi figli, lui risponde spontaneamente, quasi non percependo la profondità di ciò che va a dire. Sempre quel suo sorriso, a metà tra lo spavaldo ed il timido e quella cadenza impastata di spagnolo. «Alcune volte la vita ti toglie delle cose. Alcune volte molte cose, ma sappi che te ne restituirà altre. Cose che nemmeno ti immagini. Se ho avuto l’opportunità di ricominciare da capo, dovevo sfruttarla fino in fondo. Con tutto il bene e con tutto il male».
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