Una giostra si affaccia sugli ultimi cento metri della Parigi-Nizza. Otto tappe, quasi millecento chilometri, alcuni dei migliori corridori del mondo, un paio di arrivi in salita e altrettante tappe molto mosse: il tutto per arrivare a un’attrazione per bambini. Non è l’unica giostra sulla Promenade des Anglais, ma sicuramente la più bella: ombreggiata da alcune palme e pini marittimi, piena di lucine e colori, sulla quale si può salire – sogno di un bambino dai lunghi capelli castani – col gelato in mano.

Due gemelle bionde, entrambe vestite con una minuscola giacchetta di jeans e le scarpine rosa, sono in sella a un cavallo bianco dalla sella celeste. La giostra si sviluppa su due piani: il primo a livello del terreno e un secondo, molto più piccolo e limitato, verso il tetto della giostra stessa, verniciato da scene frugali o nature morte. Si arriva al piano rialzato grazie a due scale di legno, che nella loro semplicità risaltano tra orpelli disposti ovunque. Non sono molti i bambini che si avventurano al piano rialzato: esso contiene molti meno animali e diverse sirene con la coda biforcuta, che spaventose si susseguono lungo tutto il perimetro della giostra. Solo un bambino siede da diversi minuti lassù e sembra divertirsi come un matto, da solo.

La Parigi-Nizza non è andata in modo diverso. Un solo corridore può abitare il piano rialzato di quella giostra che è il ciclismo: Tadej Pogačar ha di nuovo sbaragliato la concorrenza in una corsa a tappe di breve durata. L’ultimo insuccesso (per così dire, arrivò comunque sul podio finale) in questo tipo di corse risale al Giro dei Paesi Baschi nel 2021. Quest’anno ha preso parte a 15 giorni di corsa: sette vittorie, più due classifiche generali. Prima di Pogačar , l’ultimo corridore ad aver registrato nove vittorie prima di metà marzo fu Tom Boonen nel 2006.

Qualcuno lo chiama “il bimbo” per i lineamenti rotondi e il sorriso fanciullesco, ma il modo in cui ha distrutto la Parigi-Nizza non ha nulla di infantile o improvvisato. Disdetta la partecipazione alle Strade Bianche per cause logistiche, fa il diavolo a quattro già nelle prime due tappe, perlopiù piatte, dove riesce a prendere preziosi secondi di abbuono. Lavora ai margini perché sa che la Jumbo-Visma di Vingegaard è favorita nella crono-squadre: i calabroni vincono, ma senza dominare. Nel primo arrivo in salita della Corsa del Sole (è un soprannome meteorologico come La Primavera per la Milano-Sanremo: con essa torna la bella stagione) Pogačar scherza col resto del gruppo. È una salita da Pogačar , circa 7 chilometri al 7%, quelle che durano una ventina di minuti in cui lo sloveno sembra alieno.

È Vingegaard ad attaccare per primo. Se ne vanno in due, i soliti due. Il danese chiede il cambio, Pogačar non accetta, lo affianca per alcune decine di metri come a dire beh? Tutto qua? Poi si rimette a ruota, guarda la telecamera e sorride a bocca chiusa, quasi fosse a passeggio la domenica dopo pranzo. Vingegaard si spegne abbastanza presto e Pogačar batte Gaudu allo sprint.

Tre giorni dopo, sul Col de la Couillole, un momento significativo è ai –6. Vingegaard esce fortissimo da un tornante e rilancia l’andatura alzandosi sui pedali, ma appena si siede è Pogačar a fare la differenza. Nello stesso momento, in fondo a quel gruppetto, Aurélien Paret-Peintre cade: è una strana riproposizione, forse, dell’effetto farfalla nella teoria del caos. Il vento frontale consiglia a Pogačar di non insistere nell’azione, ma allo sprint di nuovo non ha rivali. È la messa in scena di un copione: glaciale nella programmazione, sovrabbondante e quasi eccessivo nell’esecuzione.

Riesce ad andare via davvero, invece, nell’ultima tappa, rapsodica altalena tra le colline attorno Nizza. Il Col d’Eze è divenuto, negli ultimi anni, l’ascesa finale tipica della Parigi-Nizza: a volte è stato addirittura sfruttato un altro versante per una cronoscalata. È una salita conosciutissima dai tanti professionisti che vivono in zona e ci si aspetta un attacco lì.

Chi sta mangiando ostriche nel privé all’arrivo posa la conchiglia per indicare il maxi-schermo, chi passeggia per la Promenade des Anglais anziché sedersi sulle famose panchine azzurre corre alle transenne per prepararsi al passaggio della corsa. Un uomo regge l’Equipe e il suo titolone a tutta pagina sul rugby (la Francia ha rifilato 53 punti all’Inghilterra a Twickenham) con una mano e con l’altra guarda la corsa con lo smartphone. Si sono svuotati The service course e il Café du cycliste, due ciclo-bar che vanno per la maggiore per la pausa a metà pedalata. Questa parte di Nizza, che sembra un po’ il lungomare di Rimini e un po’ il rinnovato e finto quartiere Isola a Milano, ecco anche questa Nizza trattiene il fiato per Tadej Pogačar sul Col d’Eze. Attacca.

Simon Yates lo vede partire, proprio al suo fianco, senza nemmeno che si alzi sui pedali. Non pensa nemmeno di accelerare per provare a stargli dietro. Con Gaudu, Vingegaard e Jorgenson prova a dare cambi, a inseguire con quanto ne ha, ma nemmeno quattro contro uno riescono ad avvicinarsi, a riprenderlo. Pogačar scollina per primo e la picchiata verso Nizza è perfetta: la giostra, la folla e la bandiera a scacchi attendono solo lui.

Un azzeccato paragone tra corse ciclistiche e circo fu portato avanti da Vasco Pratolini inviato al Giro d’Italia 1947. Il grande mattatore delle giostre, un Gino Bartali rinominato Buffalo Bill, non era in gran forma e le batoste che subiva da un Coppi lanciatore di coltelli avvolsero la corsa di un manto triste, decadente. È una sensazione simile a quella che traspare dalle parole di Romain Bardet dopo il dominio di Pogačar alla Parigi-Nizza: «Non continuerò a correre a lungo se ciò comporta esclusivamente dover prendere mazzate come questa». Eppure, ancora per diverso tempo su queste giostre si parlerà sloveno. È un circo, il ciclismo moderno: una esibizione attira tutto l’applauso del pubblico e gli altri attori sbirciano da fuori il tendone.

Foto: Aurelien Vialatte