Poco dopo la metà della Vuelta 1996, Bruno Reverberi ha fatto le valigie ed è tornato a casa. In ammiraglia è restato il figlio, Roberto. È il 19 settembre. Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, Roberto telefona a casa, risponde papà: «Papà, abbiamo vinto. Abbiamo vinto con Biagio Conte». Bruno Reverberi non ci crede. «Sai, più di vent’anni fa non c’era tutta l’informazione che c’è oggi e papà non sapeva nulla. Probabilmente pensava fosse uno scherzo, ci ho messo diversi minuti per convincerlo che era effettivamente andata così. Suo figlio aveva vinto la prima corsa in cui si era trovato in ammiraglia da solo». In realtà il ciclismo era di casa dai Reverberi, almeno dai tempi in cui, con Roberto ancora piccolo, Bruno aveva corso qualche periodo nei dilettanti. Successivamente il passaggio come direttore sportivo nelle categorie minori e qualche anno dopo nel professionismo. Parliamo di circa 39 anni fa. Roberto si era subito appassionato al ciclismo guardando papà. Aveva anche provato a correre, per circa sei anni, ma ben presto si era reso conto che non sarebbe mai diventato un corridore di livello. «Inizialmente seguivo papà e facevo il meccanico. Mi piaceva, e per sette, otto anni ho continuato. Poi mi sono sposato e ho deciso di aprire e gestire un negozio. Il fatto è che a me la vita del direttore sportivo è sempre piaciuta, soprattutto per il fatto organizzativo. Mi piace pianificare, organizzare, studiare tutto nei minimi dettagli. Forse, in cuor mio, ho sempre saputo che, alla fine, sarei ritornato». Bruno sa che la passione di Roberto è il ciclismo e vede in lui alcune delle doti fondamentali per fare bene questo lavoro. Passa qualche tempo e Roberto torna. Questa volta in ammiraglia accanto a papà.
«Io e papà siamo molto diversi. Il mio carattere somiglia a quello di mia mamma. Papà è uno molto forte, duro, autoritario direi. In famiglia come con i corridori. Lui ci va giù dritto. Ha ben chiare poche e semplici regole e quelle devono essere rispettate. Io cerco di mediare maggiormente, dico ciò che c’è da dire ma lo pondero bene prima. Il punto è che poi, quando mi rendo conto di non essere ascoltato, sbotto e quando sbotto non ce n’è per nessuno. Non so se sia un bene, forse sarebbe meglio essere più lineari». Con papà si parla molto di ciclismo ma Roberto avverte: «Certi argomenti è meglio evitare proprio di toccarli. Ogni tanto ho provato a impuntarmi ma con lui è una battaglia persa. Non ti dirà mai che hai ragione. Magari lo pensa ed agisce di conseguenza ma non lo ammette nemmeno per scherzo. Una cosa però devo dirla: mi ha sempre lasciato fare la mia strada liberamente, non si è mai intromesso, non mi ha mai condizionato nelle decisioni».
Roberto Reverberi è di poche parole con i suoi corridori, questione di chiarezza e schiettezza. «Io lo dico sempre: i treni passano una volta sola nella vita. Posso dirti una volta che per fare la vita da ciclista devi impegnarti, altrimenti è meglio se vai a lavorare. Non te lo dirò una seconda volta. A me fa sorridere chi continua a criticare le squadre per i corridori lasciati a piedi. Sia chiaro e cerchiamo di ricordarcelo: non siamo un ente assistenziale. Un conto è dare una possibilità, un conto è approfittarsene. Alcuni ragazzi se ne approfittano e a questo gioco non ci sto».
Negli anni Roberto Reverberi ne ha viste davvero di tutti i colori e con cortesia estrema, ma anche fermezza, ci tiene a non lasciare dubbi. «Molti ragazzi che sono venuti in Bardiani hanno corso subito il Giro d’Italia, la Milano-Sanremo o altre gare importanti. Da noi funziona così: se sei forte, se hai le caratteristiche adatte per una gara, hai tutta la squadra a disposizione anche se sei giovane. A queste condizioni devi metterci tutto l’impegno possibile. Non puoi permetterti di fare il turista, di trovare scuse ogni volta che c’è da andare in fuga, di pensare a vivacchiare. Nel ciclismo non si può vivacchiare. Alcuni non lo hanno ancora capito: ci sono atleti con un fisico e delle potenzialità incredibili che si buttano via perché non hanno la testa giusta. Non sai quanto mi fa arrabbiare questa cosa».
Bardiani è sempre stata una squadra di formazione, in cui molti giovani hanno spiccato il volo e Reverberi ne è orgoglioso. «La cosa più bella che possa succedere a un direttore sportivo è veder vincere un neo professionista. Valgono anche i piazzamenti, i tentativi. È inutile girarci intorno: o sei un campione, o ci provi da lontano, o ti metti a disposizione. Si tratta dei ruoli, chi non rispetta i ruoli fa un danno tremendo a tutta la squadra. Pensano di fare di testa loro per un piazzamento che salvi il contratto, in realtà fanno peggio. Noi vediamo tutto, vediamo chi si impegna, chi è solo sfortunato, chi ha qualità, chi si mette a disposizione e chi fa il furbo. Negli anni i furbi ho imparato a riconoscerli a chilometri di distanza».
Quando parla di ricordi ed emozioni, Reverberi pensa alla maglia gialla di Ciccone al Tour de France, quella che lo ha commosso perché «Giulio era stato fermo un anno e mezzo per un’ablazione e noi abbiamo continuato a crederci. Fosse stato in una squadra World Tour, chissà…». Alla mente poi affiora il piazzamento di Sacha Modolo alla Sanremo: «Alla Tirreno-Adriatico lo vedevo che era fresco come una rosa. Al ritorno, in auto, c’erano lui e Pozzovivo, e ho detto al Pozzo: “Hai da fare nel fine settimana? No? Porta Sacha a provare il percorso. Questo arriva nei cinque”. Alla fine è arrivato quarto. Ma ci credevamo solo io e Domenico, gli altri quasi mi prendevano in giro. Bisogna guardarli i corridori, c’è poco da fare». Quest’anno Bardiani ha in parte cambiato politica, inserendo in squadra due atleti di esperienza del calibro di Enrico Battaglin e Giovanni Visconti. Per stare vicino ai giovani e aiutarli a crescere nel migliore dei modi. «Giovanni ha proprio l’indole del capitano, è un atleta modello. Lo vedi che li consiglia in ogni cosa, dal pranzo alle frenate brusche in corsa. Lavorare con uomini così è un piacere».
Questo cambio di politica è dato anche da un cambio abbastanza radicale nel modo di orientarsi del ciclismo. «I giovani si fanno ingolosire sempre più dalle squadre World-Tour perché credono di avere più opportunità lì. Così per sperare di inserire qualche buon corridore dobbiamo cercare sempre ragazzi più giovani. Faccio notare una cosa: le corse non vengono disputate da trenta ragazzi per squadra. Non è detto che tu correrai perché sei in quel team. Lì ci sono i capitani che hanno sempre la precedenza, non puoi inventare molto, non puoi inventare fughe o azioni particolari. Ti vengono a riprendere e ti mettono a lavorare. Preferisci fare panchina in una squadra di grande livello o provare a crescere in una buona squadra? Noi abbiamo vinto trenta tappe al Giro d’Italia, non so se rendo l’idea. La domanda è semplice, basta rispondersi».
La colpa però non è solo dei ragazzi. «Quante litigate ho fatto e faccio quotidianamente con i procuratori? Molti pensano solo a inserire i ragazzi nelle squadre per la soddisfazione di dire di averli inseriti. Sai quanti ne hanno bruciati facendo così? Il loro compito dovrebbe essere quello di fare il bene dei ragazzi, così fanno tutto tranne che il loro bene». Il tempo ha cambiato anche Roberto e la constatazione per quanto amara è molto significativa. «All’inizio mi fidavo ciecamente di tutto ciò che mi dicevano i corridori, li giustificavo sempre, non mettevo mai in dubbio una parola. Così qualcuno cercava di fare il furbo, di schivare le fatiche e magari consigliava male i compagni. Non tutti gli atleti esperti si mettono a disposizione del gruppo. Rimanendo deluso ho capito che certe volte bisogna aspettare a fidarsi, bisogna essere lungimiranti. Purtroppo il mondo non è sempre come ci piacerebbe che fosse. Basta saperlo e provare a prenderne le misure».
Foto: Paolo Penni Martelli