Era una sfida, un duello cavalleresco. Era una sfida e Filippo Ganna, questa volta, l’ha vinta. Era il dieci maggio, eravamo tra Foligno e Perugia, Filippo Ganna era seduto sulla stessa sedia su cui era seduto poco più di un’ora fa, quella destinata al miglior tempo provvisorio della cronometro: il video inquadrava Tadej Pogačar, dapprima sulla salita conclusiva, poi sempre più vicino al traguardo. Ad un certo punto, la grafica, un piccolo rettangolo su cui scorrono numeri, su cui scorre il tempo, dapprima verde, è divenuta rossa: è la campana a morto per qualsiasi ambizione, significa che l’altro, lo sloveno, in quel caso, è andato più veloce: sedici secondi e settantatré centesimi. Filippo Ganna si era alzato dalla sedia, aveva salutato, se ne era andato da quella telecamera che lo inquadrava: non era più il primo. Questo è ciò che abbiamo visto, quel che ha sentito era dentro quella macchina perfetta e curata allo spasimo, denominata corpo, denominato atleta. Una settimana e un giorno ed il momento è tornato. Sì, i momenti, molto spesso, tornano, si ripresentano, come le occasioni, anche se quando le perdiamo ci sembrano irrecuperabili. Questa volta tra Castiglione delle Stiviere e Desenzano del Garda, accanto al lago, “l’occhio della terra”, come lo definì qualcuno, e quel ragazzo, quello con addosso la maglia tricolore, viene da Verbania, città di lago. Filippo Ganna è ancora seduto su quella sedia, davanti ad uno schermo e ad una telecamera. Sono le 16:43, parte l’altro, parte la maglia rosa, scende Tadej Pogačar. Il duello, a distanza, ricomincia.

Filippo Ganna era partito più di due ore prima ed aveva attraversato l’aria: veloce, più di cinquantatré chilometri orari di media, solido, un blocco compatto, fermo pur nello spostamento, guardategli la schiena, una tavola, perfetta, affascinante questo contrasto, elegante, nelle linee, del corpo in bicicletta e delle ruote sull’asfalto. Dentro qualcosa tra rabbia e amore, trovate voi un nome esatto alla sensazione, sappiamo che l’avrete provata: la rabbia di non avercela ancora fatta quest’anno, di non aver ancora vinto, l’amore di volercela fare, di tornare all’assalto, anzi, alla conquista. Direte che ha già vinto tanto Ganna, avete ragione, ma non si pesa la rabbia, non si pesa l’amore, non hanno a che fare con una somma o una sottrazione, hanno a che fare con gli esseri umani. Sensibile, nel senso di chi riesce a sentire, a percepire, a “toccare con mano”: la sua sensibilità è esibita anche in sella, nel suo rapporto con la strada, in come vi scorre sopra, nelle curve in cui non smette un attimo di pedalare. Aveva fatto la ricognizione sul tracciato di gara, più volte, “per conoscere a memoria ogni curva”: ha memorizzato tutto, non solo nella mente, anche nel corpo, che vi si orienta con delicatezza, nonostante lo morda, con finezza, nonostante lo divori. Un insieme di contrasti per cui le persone si affacciano dalle transenne al fine di osservarlo qualche secondo in più, perché il passaggio di Ganna è questione di vento, di una folata d’aria, allora serve allungare l’osservazione. Il sublime. Saranno 35’02” per percorrere 31.2 chilometri. Una bottiglia d’acqua rovesciata in gola, la mano nell’acqua di una fontana e di nuovo quella sedia, di nuovo l’attesa.

All’inizio non sorrideva, Ganna, guardava e basta, occhi fissi, dritti verso il monitor, quasi perso in un altrove. Quel rettangolo in grafica che indica i tempi riappare, è il primo intermedio: Tadej Pogačar ha quattro secondi di vantaggio. Pare un fermo immagine, è Ganna: immobile. Un’inquadratura tra il primo ed il secondo intermedio lo sorprenderà con la testa fra le mani, forse stanco di aspettare. Aspettava da una settimana o, forse, da quel giorno, ad Andora, il sette maggio, quando il gruppo riuscì a chiudere, a catturarlo, a lanciare la volata e aveva gli occhi lucidi, la voce spenta, perché avrebbe voluto vincere. Che oggi sarebbe andata diversamente l’ha capito al secondo intermedio, ne ha, però, avuto la certezza solo quando a Pogačar mancavano sei secondi per tagliare la fettuccia bianca dell’arrivo, ma il traguardo era troppo lontano. Era con Jonathan Milan, altro atleta che di velocità se ne intende: ha riso, ha riso forte.

Questa volta la voce ha fatto fatica ad uscire, nella prigione di una “e” prolungata e poi annacquata. Di un «non è mai facile» vibrato come vibrano le corde di una chitarra, ma quando agli uomini trema la voce di solito stanno per piangere o stanno già piangendo, di tristezza o di felicità. Cosa c’era dentro quella macchina perfetta che tutti abbiamo osservato, ammirato esaltato? Non possiamo saperlo. Sappiamo, però, ciò che sta venendo fuori adesso e questa volta è tutta felicità.

 

Foto: SprintCyclingAgency