Daryl Impey è la persona giusta per spiegare un concetto molto complesso: l’unicità. Il termine va sviscerato per bene per arrivare a comprenderlo nel significato più profondo. Ancor di più, se il concetto di “unicità” o di “insostituibilità” si inserisce in una logica di squadra, logica che il ciclismo impone. Impey sa bene che “unicità” ha ben poco a che vedere con “totalità”, semmai a che vedere con “specializzazione”. Quando si lavora con altre persone, l’unica possibilità per essere insostituibili non è reclamare sempre maggiori competenze o possibilità, bensì è svolgere nel modo migliore possibile le mansioni che ti sono affidate.
Non sarai insostituibile nel momento in cui saprai fare tutto al meglio, possibilità riservata a pochi, pochissimi, sarai insostituibile nel momento in cui riuscirai a svolgere il tuo compito al meglio. Piccolo o grande che sia. Ed è di quel compito che devi andare fiero, senza mai sederti, senza mai abdicare ai varchi che ti si presentano per imparare, per crescere. Devi imparare, devi crescere ma devi farlo con lo spirito di chi, facendo ciò che fa, è in pace con se stesso e non ha nulla da rivendicare al mondo esterno. Quel continuo desiderio di rivendicazione rischia di essere il peggiore dei mali. Il sudafricano, nativo di Johannesburg, lo ha dichiarato qualche anno fa: «Mi sembra chiaro: per avere la possibilità di restare in una grande squadra devi comprendere come diventare insostituibile». Impey era insostituibile nel treno dei velocisti e questo lo rendeva già oggetto del desiderio di molte squadre ma sentiva che non era ancora tutto, che c’era altro. Il passo era iniziare a «fare qualche chilometro in più», che altro non vuol dire se non darsi qualche possibilità in più.
Impey riesce a darsi queste possibilità perché è sereno. Perché non le rincorre con la rabbia di chi vuole dimostrare di «non essere solo quello», dove “quello” sta per tutte le abilità già acquisite, ma con la tranquillità di chi può dire «sono anche questo». E c’è una differenza abissale. Da una parte cerchi una verità che gratifichi gli altri, dall’altra una verità che gratifichi te stesso. Impey, nei primi anni di carriera aveva lavorato con Chris Froome al team Barloworld, era la stagione 2008-2009, e avendolo osservato all’epoca, oggi dice: «Forse non avresti mai detto che Froome sarebbe diventato quello che è oggi. Una cosa, però, è certa: si allenava instancabilmente, non trascurava alcun dettaglio, e lo faceva con tanta voglia».
Impey si sarà ricordato di questo quando al Tour de France 2013, a Montpellier, vestì la maglia gialla. La dicitura “primo sudafricano in maglia gialla” avrebbe potuto montare la testa a molti. Non a lui. Lui capì che quello era solo un gradino in più, un altro gradino per imparare qualcosa, un altro balzo verso quell’idea di unicità a cui mirava. Se sei veramente “unico”, nel senso di cui vi abbiamo parlato, lo capisci quando puoi innalzarti sopra agli altri con vanto ma non lo fai. Quando resti quello che sei, con orgoglio, anche quando potresti fare altrimenti. Non è il momento per fare altrimenti, è il momento per riflettere su quello che puoi fare.
Daryl Impey resta quello che è sempre stato ma riprende a lavorare e lo fa con l’idea che c’è altro sulla sua strada. Gli indizi, per il vero, probabilmente non partono neppure da qui, bensì da dieci anni prima, quando Impey si rimise in sella dopo una spaventosa caduta al Tour of Turkey. Le prove, invece, arrivano negli anni quando l’atleta, oggi trentaseienne, riesce a mettere insieme un bottino piuttosto sostanzioso di successi, non facendo mai mancare, per un solo istante, la fedeltà ai propri capitani.
Il tutto grazie a un’indole che conosce perfettamente il meccanismo dei tentativi, che sa quanto, anche i tentativi con gli esiti peggiori, restituiscano qualcosa. Fosse anche solo la coscienza del fatto che era meglio non tentare. Quando vince a Brioude, la nona tappa del Tour de France 2019, Impey fatica a parlare ma qualcosa lo dice: «Si tratta di un sogno, del mio sogno, che si realizza». E d’altra parte come lo spieghi? Anche avessi “un materasso di parole” dovresti limitarti a rendere una vaga idea di quell’emozione. Meglio lasciare la pagina bianca perché lì la fantasia sguazza libera. I suoi compagni di squadra invece hanno tante parole, di quelle vere, di quelle che modificano il mondo attorno con il loro venire pronunciate, e sono tutte per lui. Perché poi, quando vince uno così, sono tutti contenti. Perché quando vince uno così, in fondo, vincono tutti quelli che potranno vincere raramente o forse mai. Quando vince Daryl Impey, vince un esempio.
Quel cerchio apertosi nel 2008 si richiuderà nel 2021 quando Impey tornerà a essere compagno di Chris Froome alla Israel Start Up Nation. «Chris mi ha telefonato e mi ha detto che crede in me, che ha fiducia in me e che vuole avermi nella sua squadra. Le nostre carriere hanno percorso diversi tratti assieme e conosco bene Froome. Sono certo che lui possa vincere un altro Tour de France. Quel giorno sarebbe bellissimo non limitarsi ad esserci, ma dare un contributo importante a quella vittoria». L’osservazione è profonda e pesca nella curiosità di tutti coloro che conoscono la storia di Impey. Chissà quale forma Daryl Impey inventerà per quel contributo, quanti chilometri in più percorrerà e quanto si reinventerà per aggiungere ancora un pizzico di unicità al suo essere ciclista.
Foto: ASO/Pauline Ballet