Mentre parlava con un amico, qualche giorno fa, Omar Di Felice si è chiesto se fosse davvero successo, se davvero avesse conquistato la Trans America. Anche mentre ce lo racconta, in realtà, sembra chiederselo, tanto che, ad un certo punto, chiosa: «In fondo, già solo il fatto che ne stiamo parlando vuol dire che qualcosa di vero c’è. Probabilmente ho bisogno di restare a casa qualche giorno e pensarci da solo: lì capirò quel che è accaduto». Quel che è accaduto lo riepiloghiamo anche noi: Di Felice ha percorso 7000 chilometri e circa 55000 metri di dislivello, da Astoria, in Oregon, a Yorktown, in Virginia, in 18 giorni, 10 ore e 13 minuti. La Trans America era questo “viaggio” e Di Felice è stato il più veloce a compierlo. Ha vinto, il primo italiano a farlo. Nel restare a casa qualche giorno, c’è parte della sua festa per il traguardo conquistato, una festa che, però, ha caratteri particolari: «Ho quarantuno anni e quando ho iniziato non pensavo minimamente di poter fare quel che poi ho fatto: ho partecipato a 46 gare, 17 le ho vinte, in altre 17 o 18 volte ho raggiunto il podio. All’inizio credevo di dovermi tuffare sempre nel passo successivo, senza mai celebrare, senza mai festeggiare. Vivo di concretezza e continuo a pensare che non ci si possa cullare sugli allori, che sia necessario guardare avanti, fare altro, non vivere di racconti passati. Non mi piace chi lo fa. Ma una pizza con amici è una festa piccola, in fondo, che serve solo a ricordarsi quel che è stato. A ricordarsi che, nella vita, bisogna anche saper celebrare le piccole e le grandi cose. Io ho imparato». In quell’età, che Omar ripete più volte nella nostra intervista, c’è anche tutta la consapevolezza che si ha dopo più di quaranta gare, ma anche quella che si ha a quarant’anni e magari non a venti: una tranquillità nei problemi che, riflettendoci ora e guardandola dall’esterno, al di fuori dalle situazioni che l’hanno sfidata, meraviglia anche Di Felice stesso.
Si parla di quando una bomba d’acqua, con grandine a non finire, l’ha sorpreso in Colorado e fermandosi a dormire, per circa quattro ore, in attesa che le condizioni meteorologiche migliorassero, ha perso tutto il vantaggio accumulato fino a quel momento. In quegli istanti, con la stanchezza, può sopraggiungere il panico, invece no: «Ero in assoluto controllo, una sorta di pace dei sensi che mi portava a fare quel che era necessario, inevitabile in casi come questi, senza prendermela». Qualcosa di simile è accaduto anche in Virginia, dove un maltempo eccezionale, ha rovesciato al suolo acqua a non finire: Di Felice non ha più nulla di invernale, ha già spedito tutto a casa, fa freddo ed inizia a manifestarsi un principio di ipotermia. Nessuno apre alla porta del Bed and Breakfast che ha prenotato, sono le tre di notte, deve chiamare la proprietaria: entra grazie ad un codice fornitogli al telefono, si cambia, asciuga tutto e riparte. «Nel frattempo le ottanta miglia che avevo di vantaggio erano diventate venticinque. Pazienza, serve solo questo. Certo, quando riparti, riparti a tutta perché vuoi vincere, battagli per prendere il traghetto in tempo, perché vuoi vincere, ma devi accettare gli inconvenienti. Il ragazzo canadese che è arrivato terzo ha raccontato di aver vissuto molto male le forature, di essersi innervosito: umanamente lo capisco benissimo, ma bisogna pensare al fatto che in un viaggio di settemila chilometri è inevitabile forare ed in un viaggio attraverso quattro stagioni, perché questa è la Trans America, è impossibile non incappare nelle piogge forti o nel caldo asfissiante». Così, sorridendo, ci confessa di aver capito quel detto che afferma che “dopo i quaranta, arriva il bello”, perché i suoi risultati migliori sono arrivati proprio dopo i quaranta e, soprattutto, perché, dopo i quaranta, è arrivata la capacità di focalizzarsi solo sulla propria persona.
«Quante volte mi sono preoccupato dei miei avversari in carriera? Ora non più. La prima notte ho dormito, anche se tutti i miei rivali non lo hanno fatto: non ho battuto ciglio, perché sentivo di averne bisogno. Ascolto il mio corpo e capisco ciò che mi chiede. Forse i risultati migliori sono anche dovuti al fatto che mi adatto maggiormente, i trentenni della mia epoca non erano così bravi a farlo. I trentenni di oggi sono diversi: vincono di più, hanno esperienza e capacità, arrivano prima, però si stancano anche prima. Le carriere credo si accorceranno anche nell’ultracycling, non solo nel professionismo. Ma, per quanto mi riguarda, i miei quarant’anni sono meglio dei miei trenta». Anni che, a tratti, forse, sono come quei drittoni che Omar Di Felice si è trovato di fronte in Kansas, lunghi, infiniti, strade che paiono finire direttamente nel cielo, mentre il vento soffia forte contro: strade che, per quanto difficili lo esaltano e, praticamente, non gli fanno sentire la fatica. Capita che la via che si percorre sia quasi un premio, questo sono stati gli ultimi quindici, forse venti, chilometri, sotto un sole meraviglioso, verso il traguardo. Se certe strade sono un premio, di certo una gara così è un viaggio, in cui si interagisce con le persone, per mangiare, per dormire, in cui si attraversano piccoli e grandi paesi, in cui si attraversa l’America: «Sono partito pensando al sogno americano, pedalando ho toccato con mano tutte le contraddizioni di una terra, di grandi e piccole città. Da un lato, nelle città, cartelli contro l’aborto, dall’altro fucili e armi vendute al supermercato, in autentici banconi, vicino al cibo. Un paese in cui gli uffici postali sono sempre aperti e chiunque può entrarvi, per dormire o cambiarsi: mi è capitato e mi sono sentito accolto. Un paese in cui le strade restituiscono l’idea della sicurezza. Non solo le auto sorpassano i ciclisti ad una adeguata distanza, ma mantengono anche una giusta distanza nel procedere in modo da riuscire a reagire in tempo in caso di cadute. C’è questo e c’è il junk food, il cibo spazzatura, di cui, comunque, ho dovuto nutrirmi in quei giorni: uova, bacon, polletti fritti, haribo, hamburger». Di Felice racconta di non essere assolutamente schizzinoso sul fattore alimentazione e spiega che, anche in questo caso, la parola chiave è adattamento: «Se hai bisogno di sali e non li hai devi mangiare cibi salati, lo stesso vale per gli aminoacidi e le fonti proteiche. Talvolta un Mars in una stazione di servizio può essere una buona soluzione. Adattarsi significa abituarsi e abituarsi significa tenersi allenato a digerire in ogni situazione e condizione, anche in allenamenti lunghi o situazioni sfavorevoli. Io provo tutto questo già in preparazione. Quello a cui bisogna fare attenzione sono sempre le condizioni igieniche dei posti in cui si va. Questo è essenziale».
Due giornate difficili, probabilmente le più difficili, arrivano proprio in Kansas: circa ottanta chilometri senza potersi rifornire di acqua, mal di testa, giramenti di testa, in una giornata che non finiva più. Omar Di Felice la gestisce e la supera, soprattutto, non raccontando nulla sui social, non lascia modo ai suoi avversari di capire questa difficoltà e di attaccarlo: «La strategia è tutto. Io mi ci focalizzo molto e penso che anche i miei avversari lo facciano. L’ultimo giorno, quando ho avuto un principio di ipotermia, non ho detto il motivo: di qualcosa si saranno accorti, perché il vantaggio calava, ma non potevano averne la certezza. Forse anche per questo non mi hanno attaccato, forse semplicemente perché non avevano le gambe». Quando arriva a Yorktown, Omar Di Felice è molto provato fisicamente, oggi ammette che, se ci fossero stati cento chilometri in più, avrebbe fatto fatica a farli, e che, gli ultimi chilometri, li ha percorsi solo con la testa. Per giorni, dopo il ritorno, ha avvertito dolore a fare le scale, a causa di una spossatezza che non lo lasciava; ha ripreso a pedalare, lo fa “dignitosamente” ma senza alcuna possibilità di fare performance, per quello servirà ancora un mese e mezzo, forse due. Una valutazione che è, comunque, sempre soggettiva e dipende da quanto si è raschiato il fondo del barile.
C’è stato un attimo, durante la Trans America, mentre era in testa da solo, in cui Omar Di Felice si è detto: «Se vincessi, perché non chiudere così? Perché non terminare qui la tua carriera? Potresti chiudere alla grande». La domanda vera era un’altra: qual è il momento giusto per smettere? «Di certo smetterò quando sentirò di essere ad un buon livello, non vorrei trascinarmi lungo gli ultimi anni di carriera, ma non è ancora il momento. Fare quello che faccio non mi pesa, non mi pesano i sacrifici. Riesco a bilanciare i momenti gara e di sforzo e quelli di stacco, godendomeli entrambi. Sono convinto che sia giusto riempire la vita anche di altro, non solo del ciclismo, e provo a farlo. Così mi sono risposto che non è ancora il momento di smettere. Che, poi, smettere è sempre tra virgolette perché alla bicicletta mi dedicherò sempre lo stesso». Sì, Omar Di Felice continuerà a gareggiare e molto probabilmente a vincere. Da qui nasce l’ultima domanda. Ma se Di Felice non avesse vinto tutto quello che ha vinto, se fosse stato un onesto pedalatore, senza acuti, avrebbe continuato lo stesso in questo percorso in sella?
«Sì, credo proprio di sì. Ho sempre voluto far parte di questo mondo, ho fatto tante rinunce, tanti sacrifici e alle prime gare, quando le cose non andavano così bene e arrivavo al traguardo con fatica, ricordo che provavo la stessa soddisfazione di oggi che vinco. Per essere soddisfatti non serve per forza vincere, sebbene la vittoria sia quello per cui tutti gareggiamo, si trova soddisfazione in tanti piccoli miglioramenti, si trova soddisfazione nell’insistere, nel tenere duro e nel dimostrare, a te stesso prima che agli altri, che quel traguardo per cui tanto hai lavorato puoi raggiungerlo. Ancor di più se non nasci con un particolare talento. Non sembri falsa umiltà, non lo è. Io non sono nato per questo, ne sono abbastanza convinto. Da giovane, quando l’ho capito, ci sono rimasto male, perché avrei voluto avere quel talento cristallino di quelli a cui riesce tutto semplice. A me non è mai riuscito semplice nulla. Poi ho capito che il talento da solo non basta, che se non si lavora sodo, ci si perde anche con il talento. Così sono orgoglioso della mia fatica e di tutto quello che ha comportato. Tempo fa, leggevo che Javier Zanetti, il capitano dell’Inter, per molti anni, si allenava persino in aeroporto, prima dei voli per le partite. Mi sono rivisto in quelle parole, perché mi è capitato e mi capiterà ancora, anche se, guardandomi vincere, magari non ci si pensa». Succede agli atleti e Omar Di Felice si sente solo questo: un uomo e un atleta.
Foto: di Elisa Raney e Rand Milam
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