L’aria di novembre, ai quasi 2000 metri dell’Alto de la Covatilla, sagoma ogni volto mettendone in evidenza tagli spigolosi. Gli zigomi sono lunghi coltelli a fendere il freddo come schizzati da righe e squadre in un progetto geometrico appena abbozzato. Gli angoli dell’umanità sono acuti, aspri, rigidi come la natura delle montagne quando l’autunno dirada verso l’inverno. C’è questa realtà acuminata sullo sfondo e la dolorosa nenia delle ascese- Puerto del Portillo de las Batuecas-Alto de San Miguel de Valero-Alto de Cristòbal-Alto de Penacaballera-Alto de la Garganta- come aghi nelle gambe, quando Richard Carapaz scatta ai tre chilometri e mezzo dal traguardo e la corsa sembra precipitare in un vuoto temporale che isola, attrae e respinge. Il dolore in queste circostanze assume i contorni di una pietà trasfigurata. Il dolore trasfigura e viene trasfigurato quasi sfregiato, confondendo sensi e sensazioni in un turbine che toglie il fiato passando dalla vista o dalle gambe. Che annebbia la vista col bruciore di un sudore freddo che dopo pochi metri tramuta in brividi e si asciuga in salviette appese al collo come rimasugli di battaglie dimenticate. Che taglia in pezzi grossolani le gambe, stese su pedali che non scorrono più disobbedendo alla fisica, quasi con la forza dei conati di nausea che sente risalire nelle interiora chi non deve affrontare solo l’acredine della terra ma anche il risucchio dei fantasmi che si nutrono ingordi dell’odore d’autunno e pullulano fra le foglie cadute e i tronchi ricoperti dal muschio.
I fantasmi che Carapaz getta alle spalle e trapassa come loro stessi trapassano i muri, con la scia d’aria mossa dal suo alzarsi sui pedali, a puntare con occhi iniettati di volontà sanguinea il prossimo metro di strada. Primož Roglič, in quell’istante, sa di incubi di notti scure e di albe attese rivolgendo auspici verso quella falce di luna lontana che tanto profuma di Spagna e di tutta l’intensità della nazione iberica. Trasfigurare significa cambiare forma e stato, significa segnare e farsi segnare. La trasfigurazione in questo momento è simile all’attrito del tempo e dello spazio che corrodono tutto quello che mostra loro il sembiante, scagliando in chissà quale viscera volontà e desideri. Qui non bastano più. Qui è la paura a prenderti a morsi perché non c’è più un domani imminente, perché il futuro è lattescenza confusa. Carapaz e Roglič sono sul filo di questo scorrere di realtà e ci restano per pochi minuti ma sembra l’eternità.
I denti dell’illusione sembrano conficcarsi nella pelle di Roglič e invece lasciano una vecchia cicatrice ma feriscono Carapaz che ha solo addolcito qualche chilometro danzando su muscoli vivi e sperando Madrid. Gli incubi di quella luna bugiarda che Roglič aveva visto da Parigi sono gli spettri che per qualche notte Carapaz vedrà in ogni angolo del sonno. Roglic ha sentito ancora male, come se gli avessero disinfettato una ferita con alcool puro e senza sedazione, ha teso ogni centimetro di muscolo e per qualche istante ha come avuto la sensazione che quel vuoto fantasmagorico lo stesse invadendo, che quel muro di fantasmi lo avesse imprigionato ancora a pochi sospiri dal traguardo. Come la ricerca negli incubi, con la stessa frustrazione di quella delusione, di quella mancanza. Non questa volta, Roglič. Non questa volta in cui l’andatura è quel ramo sul filo di un burrone o la rete aperta sotto. Questa volta il tutto è qualcosa che lenisce e carezza. Questa volta il tutto è un respiro appoggiato sul diaframma e uno sguardo che vola alto. Questo tutto assomiglia a Madrid che domani sarà decadenza dimenticata e bellezza in divenire.
Foto: Bettini