Come Chris Froome, anche Primož Roglič ha iniziato a suscitare le simpatie dei tifosi quando si è mostrato nel suo lato più vulnerabile, quello più umano che sportivo, quello che, per molto tempo, era quasi rimasto nascosto dietro l’apparenza del campione che, pur arrivando tardi al ciclismo, stravolge ogni pronostico e vince. Non che l’avesse chiesto Roglič, se l’era ritrovato addosso quel pregiudizio, il suo carattere poi, a tratti freddo, imperscrutabile, aveva fatto il resto.

Le persone, però, si scoprono quando le cose vanno male e nel caso degli sportivi questo vale ancora di più. Perché, quando resti lì a osservare qualcuno che non vince, che anzi si stacca, patisce e arriva al traguardo a minuti dai primi, stai cercando qualcosa che va oltre il gesto atletico. Roglič, nel dolore fisico e psicologico delle cadute (lo ricordiamo tutti all’ultimo Tour de France), ha notato come lo guardavano i tifosi, ammirati e stupiti, quasi non si aspettassero questa umiltà della sofferenza. «Non sono un Terminator del ciclismo, non sono così» ha recentemente dichiarato in un’intervista a Cyclingnews.

E noi vogliamo ribadirlo proprio oggi: lo sloveno è un uomo e un ciclista forte, ma non tanto o non solo perché vince. Forte perché in ogni problema che gli si pone davanti cerca l’opportunità o la soluzione, senza lamentele. Se possibile in silenzio perché è da sempre convinto che gli esseri umani abbiano la possibilità di cambiare ciò che li circonda con i fatti; le parole e la visibilità sono invece un di più. Dice che in molti, arrivati al ciclismo da altri sport, hanno dovuto imparare i fondamentali di un nuovo sport, lui ha dovuto imparare a soffrire.

«Tornerò al Tour de France – spiega – per provare a vincerlo, ma non finirà il mondo neppure se lo perderò. Sarò sereno con i risultati che avrò ottenuto». Forse ha sempre pensato così, forse ha imparato a pensare così dopo la pandemia, quella che, a suo avviso, ha ricordato a tutti come si debba provare a vivere e a lui che prima di tutto desidera essere felice.
Dopo la caduta al Tour non poteva fare molto, era evidente a chiunque lo vedesse e a lui in primis. Per questo non trova particolari meriti nell’aver saputo fermarsi e aspettare, perché per un ciclista e forse per un uomo era l’unica cosa da fare, a meno di lasciarsi andare all’auto-commiserazione. Ha ripreso ad allenarsi non molto tempo prima delle Olimpiadi di Tokyo e in ogni viaggio sul pullman della squadra in Giappone ha avuto crampi e dolore al muscolo piriforme, nella zona del plesso sacrale. Dall’hotel alla partenza delle prove, alcune volte, ci sono tre ore di trasferimento, una tortura per Roglič che non riesce nemmeno a pensare a cosa possa essere una prova contro il tempo in quelle condizioni.

Il dolore, quello fisico, però questa volta lo sorprende perché, proprio prima della gara olimpica a cronometro, sta bene, sembra non avere più nulla. Si va a prendere l’oro, poche settimane prima di conquistare la Vuelta a Espana, una gara a lui più che mai congeniale in cui è al terzo successo consecutivo.
In questo percorso di ripresa dall’infortunio un grazie Roglič lo dice anche all’altro grande talento sloveno, Tadej Pogačar, nonostante un certo dualismo, forse più mediatico che reale di cui si parla spesso, perché con i suoi risultati lo spinge ad essere la miglior versione di se stesso e lo convince, ancora di più, a non fermarsi perché in definitiva l’importante nella vita, come nello sport, è continuare a tentare di migliorarsi.