L’attesa è una chiave essenziale della nostra esistenza. Può essere analizzata nella filosofia (Wittgenstein, Heidegger, Schopenhauer), interpretata a teatro (Godot), impressa in appunti e riflessioni (Canetti), messa in scena in una corsa ciclistica.
L’attesa, lunga diversi mesi, oggi sfocia in un tracciato di centottantaquattro chilometri che si attorciglia nella canicola di agosto. In mezzo a fasci bianchi di polvere lattiginosa – crete senesi -, tra lunghe salitelle, bagarre e colpi di mano da sfoderare in Piazza del Campo, o semplicemente “il Campo” come dicono da quelle parti e dove, per l’arrivo della Strade Bianche 2020, c’è attesa.
L’attesa può essere dolce e febbrile, logorante o noiosa, può farti persino scalpitare sui tuoi sandali, cantava qualcuno. C’è attesa per chi seguirà la corsa, per chi la correrà, per chi la prepara dietro le quinte, per chi la racconta in diretta o lo farà solo alla fine. C’è attesa per quei passaggi suggestivi in mezzo a ulivi e polvere; attesa per scoprire chi andrà in fuga – forza: scommettiamo chi! – oppure per il passaggio verso Monte Sante Marie dove un muro si erge fino a un paracarro che porta il nome di Fabian Cancellara, vincitore tre volte della corsa. Lì dove di consueto esplode la Strade Bianche.
C’è attesa per capire chi vincerà tra Alaphilippe, van der Poel, van Aert, Gilbert, Benoot, Van Avermaet, Nibali, Sagan, Fuglsang, Kwiatkowski, Pogačar o chi per loro.
C’è attesa per una foratura, una rimonta, uno sguardo che sa di fatica, una pedalata che ostenta brillantezza. Un recupero dopo un buco, lo scatto di chi sa che non ne ha più e bluffa oppure qualcuno che si nasconde e poi ti infilza. L’attesa è spesso sorpresa, è arte surrealista dipinta da mano estrosa. Attesa sotto lo striscione del traguardo e che non è mai noia, né fine a se stessa, figuriamoci, poi, se è l’attesa di una corsa come questa. Bentornato ciclismo, ci sei mancato.
Foto: Strade Bianche/Facebook