Words: Luca Mich
Voice: Luca Mich
Soundtrack: Luca Cianchetta
Sound design: Brand&Soda

È una domenica mattina a Southcentral LA, uno dei quartieri più duri dell’intera metropoli californiana al pari degli altrettanto poco ospitali Watts, famoso per essere stato teatro di una delle rivolte più violente all’interno delle proteste pro diritti civili degli afroamericani nel 1965 e Compton, quartiere nero per antonomasia. Si tratta di tre zone a maggioranza etnica afro-americana e latina, nella quale si trasferirono ad inizio ‘900 moltissime persone di colore in fuga dal Deep South degli Stati Uniti, dove le leggi razziali conosciute come leggi Jim Crow, impedivano di fatto alle minoranze di considerarsi davvero libere all’interno del proprio paese, con discriminazioni che li vedevano costretti a frequentate scuole, teatri e uffici diversi da quelli dei loro conterranei bianchi. Perché la legge al tempo, e in parte anche adesso purtroppo, era sì uguale per tutti, a patto di avere la pelle color latte. A questa prima migrazione ne seguirono altre verso Los Angeles che in pieno periodo bellico offriva posti di lavoro sicuri nell’industria alimentata da conflitto mondiale in atto. Dai primi anni ’40 al ’65, l’epoca delle rivolte, la popolazione afro-americana crebbe quindi dalle 36.000 alle oltre 400.000 unità. E nonostante l’approvazione del Civil Rights Act del 1964 voluto da Martin Luther King, che di fatto aboliva ogni tipo di segregazione negli Stati Uniti, alle minoranze migrate in città, fu più o meno ufficialmente proibito di affittare o comprare casa nei quartieri benestanti. Le banche avevano il diritto di rifiutarsi di concedere prestiti a persone di colore, per le quali la municipalità pensò bene di creare delle aree dedicate, con villette a schiera, staccionate e sfondi da cartolina, dove segregare a tutti gli effetti gli ospiti non desiderati, nel tentativo piuttosto riuscito di mantenere alto il valore delle proprietà immobiliari nelle aree più prestigiose della città e ghettizzarne altre.

È una domenica mattina ad LA dicevamo, e alcune strade sono sbarrate da inferriate e macchine della polizia che stavolta non hanno nulla di veramente minaccioso: stanno solo preparando il circuito di un tipo di gara su due ruote molto popolare da queste parti, le Criterium Race, circuiti molto brevi che i bikers, rigorosamente su bici velocissime a scatto fisso, devono percorrere a ripetizione alla velocità della luce, o quasi. Da questo parti dicono sia la versione ciclistica delle gare NASCAR, dove il pubblico si assiepa a ridosso delle curve, zeppe di protezioni in gomma piuma e balle di fieno, per assistere live alle curve in derapata più pazzesche che vi possa capitare di vedere in una gara su asfalto. Non a caso c’è chi paragona i riders agli american gladiators: all’interno di quella piccola arena fatta di curve a gomito e rettilinei da panico, si scatena un inferno a pedali nel quale l’atletismo e l’incoscienza nei giri finali, fanno spesso la differenza.

Alla partenza della gara ci sono diversi atleti in maglia a stelle e strisce, il massimo dell’orgoglio americano e sul petto riportano una scritta dai caratteri super-erositici: sono i membri della squadra che va sotto il nome di Los Angeles Legion. Sono Justin e Cory Williams, due fratelli nati proprio qui, tra le strade della città degli angeli, in quei quartieri dove la gente a stento prende l’autobus, figurasi andare in bicicletta, il mezzo più sicuro quaggiù per schivare una pallottola, è una macchina di proprietà, finché dura.

Nel 2003 la Marvel Comics diede alle stampe un albo controverso a titolo The Truth: tra le sue pagine gli autori narravano la storia fino a quel momento sconosciuta delle vere origini del primo Capitan America, che a quanto pare non fu il celebrato Steve Roger, ma un ragazzo di colore della periferia dell’impero. Cory e Justin Williams alla partenza della LA Criterium si presentano proprio così, e sotto quella tutina aderente con il logo ben in vista sul petto, nascondono proprio questo, una storia poco conosciuta ai più, dissonante per certi versi, ma che trova le sue origini in una passione per le due ruote trasmessa di padre in figli e portata avanti nonostante tutto, tra le trafficate strade di LA, dove le quattro ruote divorano anche le piste ciclabili.

Calman Williams, il padre dei due fratelli, nasce nel Belize e passa una vita sulle due ruote fino ad arrivare a giocarsi pure i Giochi Pan-Americani, prima di decidere di trasferirsi proprio ad LA, in cerca del sogno americano. Va da se che Cory e Justin accanto a mazze da baseball, guantoni e palle a spicchi, cominciano fin da subito ad avvicinarsi anche alle road bike, trascinati da un papà molto attento che insegna loro non tanto a pedalare, ma ad abbracciare le sofferenze delle piaghe da sellino, della schiena a pezzi dopo le 70 miglia di allenamento quotidiano e degli sforzi che devi fare per risparmiare se al posto dei fumetti di Captain America, vuoi comprarti le gomme nuove. Quello che ci crede da subito più dell’altro è Justin, che a 17 anni diventa già un professionista dando ogni goccia di sudore al suo team Trek-Livestrong, in 5 anni vissuti ad alta velocità. Con la squadra girerà gli States in lungo ed in largo arrivando anche a giocarsi gare importanti al di qua dell’Oceano, in Europa. La paga fa schifo però ed il fatto di essere l’unico afroamericano in squadra inizia ben presto a pesare tra battute a sfondo razziale, pubblico acido nei suoi confronti e diffidenza generalizzata. Justin torna in patria e lascia la squadra, per un periodo lascerà anche la sua passione in realtà, ma è grazie al fratello Cory che i due si fanno forza l’un l’altro e decidono di iscriversi in un nuovo Team di gare Criterium macinando da lì in poi una vittoria dopo l’altra. Nel 2016 Cory vince 8 gare consecutive ed è un botta e risposta continuo con il fratello per chi conquista più podi. Questi hanno il fuoco dentro, sono gli unici afroamericani della pista, sono cool, forti, mossi da qualcosa di ancora più profondo della passione: è orgoglio, è voglia di farcela, di mettersi sulla mappa. Sono superiori, in tutto. 

Naturalmente non può passare inosservato e chi non riesce a batterli in gara, ci prova sul piano becero del pregiudizio e dell’insulto razziale. La squadra stessa non gli dà lo spazio che meritano mediaticamente e i continui riferimenti al colore della loro pelle iniziano a pesare. È tempo di fare le valige, di trovare una dimensione più adatta per esprimersi. 

“People in the sport don’t want to acknowledge the fact you have to work 10 times harder if you are black” – la gente non realizza che nello sport devi lavorare 10 volte più duramente se sei nero – dice Justin con molto rammarico e aggiunge: “io e mio fratello non eravamo fatti per quel tipo di squadra, dove non c’è spazio per l’espressione individuale”.

Sono parole importanti che caricano di significato le imprese di due ragazzi che iniziano a sentirsi più di semplici atleti, hanno bisogno di una piattaforma per esprimersi, lo sport è perfetto, ma le condizioni, sottopagati e limitati dai pregiudizi che li vorrebbero praticare altri sport e che li rendono scomodi all’interno di una scena prettamente bianca, non sono quelle a cui vogliono sottostare.

Cory ci prova ad entrare in un altro team, ma ottiene stipendi da fame nonostante i risultati: 4500 dollari l’anno sono una cifra irrisoria per qualsiasi professionista a qualsiasi livello ma qui sanno addirittura di insulto, sanno di quei 40 acri (40 acres) promessi e poi negati con l’abolizione della schiavitù quando si parlava di riparazioni, sanno di mutui rifiutati, sanno di “disrispect” mancato rispetto per chi ha lavorato più degli altri per arrivare sin lì.

È Justin Williams allora ad avere la visione: forte dei suoi successi entra nel team Specialized Rocket Espresso da cui ottiene 18mila dollari che reinvestirà su di se per iscriversi da battitore libero, da indipendente racer, al circuito europeo di gare a scatto fisso. Nel giro di un anno i soldi non tardano ad arrivare e senza il filtro del team, tra sponsor privati e vittorie, fioccano assegni a sei cifre: ce n’è per togliere il fratello dalla strada, o meglio, per metterlo su una bici da strada che possa fruttare qualcosina di più. Nel 2019 Justin e Cory fondano la Legion of Los Angeles, la prima squadra su due ruote fondata da afroamericani. L’obiettivo, come lo si legge nel loro statement è favorire l’inclusione e aumentare la diversità nello sport professionistico a due ruote.
In breve tempo gli Williams, che, forse non a caso, ricordano nel cognome altre due sorelle che hanno cambiato per sempre lo stile e la storia di un altro sport in precedenza precluso agli afroamericani, il tennis ovviamente con Serena e Venus Williams, cambiano le regole del gioco.
L’inclusività diventa la prerogativa e la squadra si allarga ad altri componenti delle minoranze etniche di LA, partono i crowfunding per raccogliere le risorse per viaggi, hotel e scuderia, nascono camp e corsi per ragazzi poco abbienti. Ma la visione di Justin non finisce qui:
“se vuoi che uno sport sia praticato da tante persone, dice, devi renderlo visibile, dargli un’identità, farlo essere cool agli occhi della gente”. E la coolness, che nel caso degli afroamericani è intrisa di simboli, fisicità e orgoglio razziale, passa anche dal merchandising: le tutine sono in breve le più cool del pianeta, ti trasformano immediatamente in un super-eroe delle due ruote, quel Capitan America poco conosciuto che ora è diventato realtà.

“Voglio cercare di rendere lo sport più accessibile, voglio che le persone possano identificarsi in qualcosa, dice Justin, che possano dare un senso al salire su due ruote anche in una città dove le piste ciclabili sono molto più rare di un playground, voglio che le persone abbiano la possibilità di esprimere se stesse anche salendo su una sella, voglio essere più di un atleta per loro”.

Più di un atleta, dove l’abbiamo già sentita questa frase?
È un grido, una visione, una necessità, lo era Alì sul ring mentre gridava “I’m the coolest I am the greatest”, quando parlava non tanto di se ma di un’intero popolo. Lo era John Carlos che alzava il pugno guantato a Messico ’68, lo è Serena Williams che urla all’arbitro “Io non baro, piuttosto perdo”, lo è Kolin Kaepernick che punta il ginocchio a terra durante l’inno americano in segno di dissenso, lo è Lebron James che con “More Than an Athlete” ha ispirato persone come Justin e Cory ad andare oltre allo sport, a essere ambasciatori dell’orgoglio afro-americano. 

E il bello è che non sono gli unici: qualche ora di aereo più a sud infatti, nella Bay Area, pedala con scopi ben più alti della semplice vittoria di una gara su strada, una ragazza che ha conosciuto il mondo delle due ruote in età abbastanza avanzata attorno ai 26 anni, ma che ne ha capito ben presto le potenzialità non solo sportive ma anche sociali e comunicative. Eppure all’inizio ha iniziato a pedalare semplicemente per risparmiare qualche soldo, evitare di prendere continuamente i mezzi di trasporto nel tragitto casa-lavoro, quando faceva l’insegnante. Oggi vince le 60 miglia.    

Si chiama Ayesha McGowan e da qualche anno è diventata la prima road cyclist professionista afro-americana. Ayesha nasce in Georgia, Atlanta, stato cantato da Ray Charles nell’omonima canzone e che è oggi una delle città americane più black delle federazione. In giovane età si è però trasferita a Brooklyn, quartiere di oltre 4 milioni di abitanti, reso celebre al cinema da Spike Lee che, guarda caso, è spesso effigiato su magliette e poster nei panni del suo personaggio più iconico, quel Mars Blackmoon che tra gli altri accessori da newyorkers indossa un leggendario cappellino proprio da ciclista, con visiera perennemente alzata e scrittone Brooklyn in bella vista.  Questo è il quartiere che ha permesso ad Ayesha di esprimersi al massimo: “qui ognuno vive la sua vita all’interno di un caos organizzato che mi ricorda molto quello che ho in testa – dice Ayesha – New York è una città dove puoi essere te stessa, a nessuno interessa realmente come ti vesti o che sport pratichi, puoi salire in sella alla tua bici e confonderti tra la folla anche se sei diversa da tutti quelli che incontri. Ed è a mani basse la città dove mi piace pedalare di più, ha quell’urban feeling che dà groove ad ogni pedalata. La California è il paradiso del ciclismo ma le strade di New York, beh, sono semplicemente le strade di New York.”

C’è questa cosa negli atleti afroamericani che li rende speciali e la storia di Ayesha ne è l’ennesima testimonianza: questi non palleggiano, non lanciano, non cantano, non suonano, non sudano, non pedalano mai solo per se stessi. In ogni gesto c’è rivalsa ed orgoglio, c’è una comunità, c’è il concetto del rappresentare che alcune forme d’arte come le 4 discipline dell’hiphop per esempio, ed alcuni sport più di altri, hanno saputo elevare a messaggio prima comunitario, poi universale. È questo senso di portare in alto una cultura, una comunità e la consapevolezza di volerlo fare, che rende speciale le storie dei discendenti degli schiavi afroamericani e che viene difficilmente compreso da uno sguardo superficiale. Un jab di Alì, non è un pugno normale. Una schiacciata di Bill Russell, rappresenta molto più del gesto atletico in se. Nella pedalata di Ayesha c’è molto più di una spinta poderosa sul pedale: c’è la strada fatta per arrivare sino a lì, per emergere e poter contare, per poter fare ciò che gli altri fanno normalmente da secoli, per scacciare le differenze e l’indifferenza. 

“Ho un obiettivo molto più grande della vittoria in gara – dice Ayesha – so di non essere la più forte e probabilmente mai lo sarò, ma quel che posso fare come prima donna ciclista professionista afroamericana, è tracciare la strada per chi invece potrà davvero essere la migliore di tutte.”
È una bella responsabilità da portare, ma è un peso che in sella diviene lieve quando si lascia sfrecciare sulle strade della California o della Georgia dove è tornata di recente a vivere e dalla quale cura oggi un blog personale, attraverso cui dà voce alle altre cyclist che iniziano grazie al suo esempio, ad emergere sulla scena.
Il blog si chiama “A quick brown fox” ed è uno spazio in cui Ayesha si esprime con frequenza anche su temi sociali e di integrazione. Il nome significa letteralmente “la veloce volpe marrone” ma è anche un chiaro riferimento a Foxy Brown, uno dei personaggi femminili più iconici della cinematografia della Blackxploitation anni ’70 interpretata dalla splendida Pam Grier e citata dal campione di citazionismo Quentin Tarantino nel suo Jackie Brown nel 97.
C’è però un’altra curiosità degna di nota: si perché c’è un’espressione molto popolare tra gli artisti i designer e grafici illustratori di oggi che recita così: “a quick brown fox jump over the lazy dog” il suo significato è facilmente intuibile ma non è poi così importante. Il fatto è che quella frase contiene tutte le consonanti, alcune anche doppie, dell’alfabeto inglese ed è quindi usata comunemente per realizzare le proposte di font grafici. Evidentemente la McGowan lascia poco al caso.

Ed è proprio grazie alla popolarità di questa ragazza ed al sua attività di informazione che è riaffiorata anche un’altra importante storia di ciclismo afroamericano. Un’importante storia di ciclismo e basta verrebbe da dire.
7 dicembre 1896, Madison Square Garden, New York City, 31 anni esatti dopo l’abolizione ufficiale della schiavitù in seguito alla guerra di secessione. Sull’ovale predisposto all’interno del palazzetto dello sport più famoso d’America, va in scena una gara che ridefinisce il concetto di endurance: 28 ciclisti si sfidano a chi compie più giri in un arco temporale di 6 giorni consecutivi. 6 giorni…

È un gioco al massacro, le ore di sonno sono ridotte al minimo: mentre ti concedi di dormire, gli altri, pedalano. Dopo un paio di giorni arrivano le prime cadute, i ritiri, gli infortuni. Arriveranno in 14 al traguardo, la metà esatta. Tra loro, tutti ragazzi bianchi di buona famiglia, compare un certo Marshall Taylor: è lui il primo ciclista di colore di cui la storia abbia memoria. Il pubblico lo fissa con sospetto, tra gli spalti non c’è nessuno come lui, nemmeno la famiglia, ammesso che ce l’abbia. Di lui si saprà pochissimo ma passerà alla storia come un vero pioniere del ciclismo su pista.
Al termine dei 6 giorni di endurance completerà più di 7000 giri su quell’ovale al Madison, pari a 1732 miglia: all’incirca la distanza che separa New York City dalla città di Houston e nonostante un grave infortunio che gli consente di qualificarsi solo ottavo in classifica generale, correrà per molti anni ancora infrangendo ben 7 record mondiali di ciclismo su strada che resisteranno per diversi decenni. Una storia incredibile, che ha i contorni della leggenda e che oggi rivive attraverso un video con immagini dell’epoca prodotto proprio dalla nostra Brown Fox.
Ma non finisce qui: il nome di Marshall Taylor detto “Major” è oggi anche quello di un importante team di road bike, che proprio come la squadra dei fratelli Williams a Los Angeles, ha l’obiettivo di integrare sempre più la black community nel mondo del ciclismo. 

“È grazie a Taylor se oggi posso fare questo sport, pur tra tante discriminazioni che credo nascano non tanto da un atteggiamento consapevole, ma dal fatto che il ciclismo è sempre stato mono-colore: nessuno si è mai chiesto il perché, è sempre stato così e basta” racconta Ayesa. “Taylor era il pioniere che ha tracciato la via per quelli come me, ed io voglio essere come lui in quanto prima donna: voglio che molte altre donne reputino semplicemente normale correre in bicicletta ed essere chi vogliono essere, senza pregiudizio, senza che nessuno si permetta di dire che un ciclista non dovrebbe avere quell’aspetto”.

Ora con qualche pedalata decisa torniamo a LA, a casa dei fratelli Williams.

È ancora una domenica mattina a SouthCentral, i piccoli Cory e Justin con l’aiuto di papà, tolgono i ruotini ed iniziano a cadere. 

Qualche anno prima a Lousville, un certo Cassius Clay riceve per Natale una bicicletta Schwinn rossa e bianca ed inizia a pedalare.

Qualcuno però gliela ruba molto presto, e quello che sarà poi conosciuto da tutti come Muhammad Alì, inizia a tirare di di boxe, perché quel ladro lì, se lo ribecca vuole stenderlo a suon di pugni.
Ma questa è un’altra storia, c’entrano sempre un sellino, un manubrio e due ruote consumate sull’asfalto. Eppure no, per Cory, Justin, Taylor, Ayesha e sì, persino per Clay, non sarà mai e poi mai solo una questione di bicicletta.