Salendo con l’ovovia di Daolasa, il sottofondo non è cicale o freni a disco. È più fastidioso e stride col resto del paesaggio. Sono i fischietti degli steward: quando passa un atleta, nelle prove generali del downhill, un sibilo ne annuncia l’arrivo. La Black Snake si sviluppa nel bosco sotto l’impianto e tra salti, rocce, paraboliche e radici si arriva in fondo distrutti.
Se si arriva. Ogni duecento metri circa, volontari della croce rossa assistono eventuali cadute. Mentre chiacchiero con la mental coach della nazionale italiana di downhill, Elisabetta Borgia, uno juniores austriaco vola per terra. Non si vede, si sente però: da terra si lamenta dal dolore. Uno steward perde qualche secondo di troppo a fissarlo e avvisa in ritardo il rider successivo dell’ingombro, tanto che quest’ultimo – un atleta svizzero – deve inchiodare e cade a sua volta.
Continuando a scendere – la prova di cross-country femminile juniores è appena cominciata – si vede, sdraiato in disparte, lo svedese Oliver Zwar. Una persona lo sta toccando in tutte le giunture, caviglie e spalle, per verificare che sia intero. Un tecnico degli Azzurri, Simone Tartana, rivela che un discesista italiano ha cartellato (si dice così in gergo, quando si cade male) e gli è stata asportata la milza.
Sta arrivando la prima medaglia italiana in questi Mondiali. Lo si capisce dall’ottima posizione in cui Sara Cortinovis inizia l’ultimo giro – sembra addirittura possa attentare ai primi due posti, occupati da due francesi – ma soprattutto dall’entusiasmo delle sue amiche. Sono arrivate in zona traguardo con una bandiera e diverse trombette, sono di Bergamo ma in bici non ci vanno manco per sogno, pensano che Sara sia solare e testarda.
Cortinovis tenta lo sprint per l’argento, ma sceglie probabilmente la parte sbagliata, quella vicina alle transenne. Ha meno spazio ed è bronzo. Quando le chiedo della volata finale, è in pace con se stessa: «Sì forse ho sbagliato, ma ero al limite».