Spesso ciò che distingue un buon ciclista da uno altamente competitivo non è solo il puro talento, ma la capacità di unire alla sofferenza, tratto distintivo di chi sale in bici, la disciplina. Diego Andres Camargo Pineda arriva da El Alisal, vicino Tuta, dipartimento di Boyacá, un posto che faresti fatica a trovare nelle cartine, ma dove il ragazzo conosce proprio la fatica e la disciplina.

Diego Camargo è davvero uno di quelli che si potrebbe definire, senza tema di smentita: “casa e chiesa”. Quarto di cinque fratelli, vive con Isidro Camargo e Blanca Pineda, i suoi genitori, in una piccola casa di mattoni. I suoi non volevano assolutamente diventasse un ciclista. Poveri in canna, volevano mandarlo a raccogliere caffè oppure tenerlo lì in casa per badare agli animali della loro piccola fattoria, e difatti, come raccontato da diversi quotidiani colombiani, “quando iniziò a correre in mountain bike i suoi genitori erano fermamente contrari”. Immaginatevi poi cosa successe quando Diego cadde in discesa durante un allenamento e si ruppe la testa del femore. Il dolore e la preoccupazione dei genitori che si faceva largo tra i rimbrotti “te l’avevamo detto che sarebbe finita male!”. Lo avranno certamente redarguito così.

Ma mettetevi nei panni di chi andava forte in bici. Di chi vedeva i suoi compaesani, i suoi conterranei, corregionali e connazionali sbarcare in Europa, realizzarsi in bicicletta, lasciarsi alle spalle la fame da cui provenivano e permettere ai propri genitori di riscattarsi, regalando loro magari una casa, magari un futuro, comprando un negozio e donandogli una prospettiva ancora più dignitosa. Thomas Blanco, sulle colonne de L’Espectador, ne traccia un interessante profilo dal titolo “La casa dignitosa di Diego Camargo, il nuovo padrone del ciclismo colombiano”. Il giornalista racconta le umili origini del ragazzo classe ’98, salito tardi su una bicicletta, e soprattutto, come in ogni storia, narra il giorno in cui il suo viaggio comincia.

Era una notte buia e tempestosa. Non è vero, non inizia così il suo racconto, anche se la pioggia da quelle parti cade sempre copiosa. Era un pomeriggio diverso dagli altri per Diego perché era stato invitato con tutto il suo club a prendere parte a una gara di ciclismo. Diego è sconosciuto a tutti, ha poco allenamento e corre con una bici che potremmo definire di un’altra epoca: un vero e proprio rottame di alluminio. «Fin dal primo giro Diego è stato da solo in testa, ha battagliato in modo impressionante con ragazzi più esperti, allenati e che correvano anche su strada. Ha vinto con più di un minuto di vantaggio. E mi ha colpito anche il fatto che non avendo un posto dove mettere la borraccia sulla sua bici, si è fermato due volte al traguardo per chiedere l’acqua. Si è fermato, l’ha bevuta con calma, e poi è ripartito» racconta Ricardo Mesa – il suo scopritore – ai media colombiani.

Non aveva i soldi per comprarsi una bici, e gliela regalò il sindaco di Tuta. Non sapeva andare in discesa, si paralizzava per la paura, e ora corre nelle prime posizioni del gruppo, attento, concentrato, prendendo appunti e cercando di migliorare ascoltando attentamente ogni minimo consiglio. «Va forte a cronometro e in salita come tutti i grandi campioni, ma a differenza di tanti grandi campioni è molto disciplinato. Ascolta i consigli e questo lo ha portato a ottenere risultati. Ha una capacità di soffrire che definirei barbara. Anche questo fa parte del suo talento», racconta sempre Ricardo Mesa, che dal giorno in cui lo scoprì non lo ha mai abbandonato.

Diego, fedele a Dio come fa intendere da ogni suo post su Facebook che inizia con “Gracias a Dios”, è cresciuto di anno in anno, ha iniziato a correre intorno ai 17 anni, ha vinto prima il circuitino vicino casa, poi il giro della sua provincia, poi quello della sua regione, infine, in questo 2020, la Vuelta de la Juventud e la Vuelta a Colombia – per gli amanti delle statistiche è il terzo nella storia a fare questa accoppiata, l’ultimo fu il mitico Oliverio Rincón nel 1989.
Non è basso, anzi, ha il fisico perfetto per uno scalatore, 176 centimetri e una naturale magrezza che gli dona forma longilinea. Cresciuto a quasi tremila metri di altitudine, ha caviglie affilate e pancia affamata come quella di un pugile che tira di boxe per salvare la sua famiglia prima ancora che se stesso. A inizio stagione ha corso con i grandi alla Vuelta a San Juan dando l’idea del suo talento e finendo sui taccuini degli scout sempre affamati, anche loro, nella corsa ad accaparrarsi i talenti più interessanti.

A fine Vuelta, Diego Camargo è stato travolto dalla celebrità che in Colombia assume aspetti amplificati. In televisione hanno urlato il suo nome come fosse quello di un eroe. A Tuta l’altro ieri hanno organizzato una festa in suo onore con tutto il paese: invitati anche celebrità dello sport colombiano e massime autorità, per rendere grazie alle sue fatiche in bicicletta. Se fate un giro su tutti i principali media sportivi colombiani vi accorgerete dell’eco del suo successo.
Inquadrato al termine della corsa, Diego si è mostrato insieme ai suoi genitori, ha stretto la madre in lacrime con un forte abbraccio, il padre appariva invece irrigidito per timidezza e rispetto. La pelle di entrambi bruciata dal sole e solcata dalle rughe. La tempra di una vita passata a lavorare nei campi, l’umiltà del campesino. “La disciplina del padre e l’amore della madre formano le buone persone, e il carattere forte del padre contadino nasconde sotto sempre un oceano d’amore”, si legge in un commento su Twitter.

E mentre Diego Camargo pochi giorni fa vinceva la corsa a tappe colombiana, nelle stesse ore nello Stato sudamericano si consumava l’ennesima tragedia. El Pais riporta: “Tredici persone uccise in due diversi agguati nella notte ad Antioquia e Cauca”. Regioni devastate dal conflitto ormai da diversi anni.
Diego probabilmente nel 2021 volerà in Europa, ma non scapperà mai dalla sua Colombia, anche se ad aspettarlo c’è un contratto con la Ef Pro Cycling, dove troverà Rigoberto Urán, un mito per ogni ragazzo del suo paese e che presto diventerà come un fratello maggiore. Non scapperà dalla Colombia, perché con dignità cercherà un futuro migliore per lui e per quei genitori che lo hanno accolto all’arrivo dell’ultima tappa sognando un avvenire di cui andare fieri, più per lui che per loro, increduli, inizialmente contrari o semplicemente fatti di quell’educazione che solo chi apprezza le piccole cose può capire. Sognando, perché male non fa, che anche lui possa essere d’ispirazione per chiunque cerchi una rivincita sociale, lontano dalla povertà, dalle tragedie che da anni consumano il popolo colombiano in nome di soldi, potere e droga. In sella a una bicicletta, strumento di riscatto e dove a volte tutto appare possibile. Sogni e speranze riflesse anche negli occhi pieni di nobiltà d’animo e che contraddistinguono un campesino.

Foto: Diego Camargo, Facebook