Ci fu un giorno in cui Daniele Fiorin, padre di Matteo, gli consigliò di conoscere meglio la sconfitta perché gli sarebbe servito. Essenziale per lui, essenziale per qualunque giovane, nello sport e fuori. Accadde mentre, da ragazzino, Matteo Fiorin giocava a calcio e faceva ciclismo: preferiva il ciclismo, lì vinceva spesso e stava quasi decidendo di dedicarsi solo a quello. «No, credo tu debba continuare almeno per un altro anno anche a giocare a calcio. Non perché il ciclismo non faccia per te, esattamente il contrario. Vinci molto, vinci tanto con quella bicicletta, ma, alla tua età, bisogna anche imparare a perdere altrimenti poi sono problemi». Matteo quel giorno ascoltò suo padre ed oggi, a diciassette anni, nonostante le vittorie, conosce la sconfitta.
«So che quando si perde si è sbagliato qualcosa e bisogna tornare ad analizzare ciò che si è fatto. In realtà, però, so anche che pure quando si vince bisogna riguardare la gara e imparare qualcosa in più per un semplice fatto: chi ha perso, in quel momento sta imparando, se tu che hai vinto non lo fai resti indietro e la prossima volta perderai». Essere pronti, questo è il punto. Pronto per fare il proprio dovere, per un velodromo a Tel Aviv, per una maglia azzurra al mondiale, per il quartetto juniores, per l’inseguimento a squadre, per una medaglia d’oro.
Sì, Matteo Fiorin non avrebbe dovuto essere a Tel Aviv, ai mondiali juniores su pista, ma quando il suo telefono è squillato sapeva esattamente cosa fare, perché lo aveva sempre fatto, perché è un ciclista. «Non ho avuto paura, ma dubbi sì. È normale. Forse per questo devo ancora realizzare. Tutto però apparteneva a Matteo ragazzo, non a Fiorin ciclista. In sella riesco ad essere “cattivo”, deciso, convinto, molto preciso. So quello che devo fare e lo faccio». Nella vita di tutti i giorni è contento di essere Matteo prima che Fiorin. Ha amici ciclisti e con loro parla di ciclismo ma con i compagni di scuola o con chi non è interessato alle due ruote non sente il bisogno di raccontare ciò che fa in bici perché «sto bene così, essere al centro dell’attenzione non mi interessa, non mi piace». In pista, a Tel Aviv, loro: Alessio Delle Vedove, Matteo Fiorin, Renato Favero, Luca Giaimi e Andrea Raccagni Noviero e i timori che passano dopo le qualifiche.
Così perfezionista che dopo l’oro nel quartetto era dispiaciuto per aver mancato per un niente il record del mondo: qualche istante, poi urla, abbracci, l’inno e qualche ricordo. “Da esordiente primo anno quando persi una prova in batteria al meglio delle tre. Mio padre mi si avvicina e mi dice: «Vai e divertiti. Ora devi solo divertirti. Arrivai terzo». Padre e figlio, soprattutto questo, in grado di crescere assieme e poi di fare autonomamente strada: “Quest’anno mi sento più autonomo, ma l’autonomia l’ho costruita anche grazie ai suoi consigli”.
Imparare a vincere, imparare a perdere. Come è successo nella Elimination Race: «Non ero così lucido come avrei dovuto essere. L‘ho riguardata e la riguarderò, capirò l’errore e imparerò». Anche di questo è fatta la realtà di un ciclista: delle corse viste e riviste, di studio, in fondo. Perché quando l’adrenalina della corsa scende, vedi molti dettagli che prima non avevi nemmeno considerato. E poi divertirsi vedendo Wout van Aert e Mathieu van der Poel, su fango o su strada. Quel sano piacere che vedere la bravura fa provare.
In quel velodromo, a Tel Aviv, Matteo Fiorin ha voluto fare una foto con Walter Perez, già Campione Olimpico e Campione del Mondo, ora C.T. della nazionale Argentina. A casa, aveva rivisto una foto con lui, di quattordici anni fa, a soli tre anni. «Ci tenevo ad avere un’altra foto con lui, dopo tanto tempo. Ci tenevo a rivivere quel momento. Soprattutto perché di quel giorno, ovviamente, non ricordo nulla e mi spiace. Volevo ricordarmi di quel momento, così ho chiesto un’altra foto. Un ricordo di quello che ho fatto, di quello che posso fare».