Il 14 di ottobre, con le ultime gare della stagione oramai andate o in procinto di concludersi a diverse latitudini più ad est, su X (quello che una volta si chiamava Twitter) è piuttosto facile imbattersi in messaggi di ciclisti e cicliste alle prese con il tirare le somme di tutto l’asfalto passato sotto le proprie ruote nei molti mesi precedenti. Invece, quel giorno, assieme ad altre circa 432mila persone nel corso del tempo, mi sono imbattuta in una richiesta di aiuto. A scriverla era l’attuale campione nazionale etiope, Negasi Haylu Abreha. Specificava, subito dalle prime righe, che in realtà sarebbe anche un corridore per la Q36.5 pro team ma solo fino alla fine dell’anno, almeno così gli era stato comunicato. Un agente non lo ha mai avuto e nel frattempo molte squadre avevano finito di stilare il roster per la prossima stagione. Così ha deciso di optare per un messaggio in una bottiglia virtuale, lui naufrago con il sogno di poter regalare all’Etiopia quello che Biniam Girmay è riuscito a regalare all’Eritrea, scrivendo la storia del ciclismo africano. Sottolineava anche il quarto posto agli appena disputati campionati continentali africani, consapevole che sarebbe potuta andare meglio, ma che a lui bastava. Finiva il thread con un account di posta elettronica a cui scrivere oppure il consiglio di infilarsi nei suoi DM su Instagram, come direbbero quelli più giovani di me. Nessuna implorazione, ma un’implicita speranza che nel mucchio di persone annoiate alle prese con lo scrollare ci fosse quella disposta a dargli una seconda chance.
Fino a quel momento di Negasi non sapevo nulla, come succede alle storie che finiscono in fondo al peloton e alle classifiche delle gare, e anche quando ho finito di leggere quel thread continuavo a saperne veramente poco. Qualche minuto dopo potevo raccontare ad uno sconosciuto, grazie ad una ricerca su internet, che è nato il 9 maggio del 2000 a Mek’ele, una città a 2.250 metri di altitudine che fa da capitale alla regione etiope del Tigray; che parla il Tigrinya e l’Amharic ma anche un po’ di inglese e italiano, grazie agli anni con base a Lucca; e che tra il 2020 e il 2023 ha forse vissuto uno dei momenti peggiori della sua vita, quando è scoppiata una guerra civile tra il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray (TPLF) e il governo federale etiope, appoggiato dall’Eritrea e dai militanti della regione confinante dell’Amhara. Negasi sarebbe dovuto tornare a casa alla fine del 2020, invece per cinque mesi da casa non ha ricevuto notizie. L’unica cosa che sapeva è che migliaia di persone continuavano a morire e a lui, distante ed impotente, non restava altro che aspettare un messaggio o una telefonata, facendo la cosa che conosceva meglio, forse quella che l’ha salvato più di tutte: pedalare. Fino al 2022 lo ha fatto prima per il NTT Continental Cycling Team, poi per il team Qhubeka. Ha corso in diverse gare U23 come il Tour de l’Avenir e quello che oggi conosciamo come Giro Next Gen, ma anche il Giro di Sicilia e il Tour of Britain. Ci sono voluti tre anni prima che riuscisse a riabbracciare sua madre e i suoi fratelli.
Ho provato per giorni a non pensare a quel tweet: era tra le cose più umane e più vere sul ciclismo in cui mi fossi imbattuta sui social da quando ho cominciato a seguire questo sport. Così ho aperto Instagram, ho cercato il profilo di Negasi e gli ho chiesto se aveva voglia di raccontarmi cosa stesse succedendo nella sua vita.
Avrei voluto chiedertelo come ultima cosa, ma penso che forse sia giusto aprire così quest’intervista, piuttosto che cominciare, come farei di solito, dal passato: hai qualche novità sul tuo futuro? Sei stato contattato da qualche agente o da qualche squadra per il prossimo anno?
Qualcuno mi ha contattato per chiedermi cosa potesse fare per aiutarmi, ma senza risultati. Il primo giorno, ad esempio, un agente, che solitamente si occupa di calcio, mi ha scritto dicendomi che avrebbe voluto cominciare a rappresentare anche ciclisti e che aveva già cominciato a farlo per un corridore, dunque avrebbe provato a fare lo stesso anche per me. Mi ha fatto alcune domande e chiesto dei documenti come il mio CV ma non credo che riuscirà ad aiutarmi.
Cerco di riportarti allora – spero! – verso momenti più felici: ti ricordi quale è stata la prima volta che sei salito in sella ad una bici?
Solitamente in Etiopia, nella mia regione, c’è una gara ogni domenica. Si corre vicino casa mia, perciò è stato facile innamorarmi di questo sport. Ho chiesto ai miei genitori di poter comprare una mountain bike: mio padre era d’accordo, mia madre lo era decisamente meno (ride). Era spaventata dal fatto che spesso vedeva i partecipanti alle gare vicino casa nostra cadere e farsi male. Alla fine mio padre mi ha dato i soldi per poterla acquistare e ho cominciato a pedalare. Inizialmente l’ho fatto per un team locale che mi forniva vitto, alloggio e anche una bici, ma non poteva pagarmi. Ero troppo giovane per loro, ma dopo circa tre mesi di allenamento hanno cambiato idea e hanno cominciato a farlo. La mia prima gara in Africa è stata in Algeria con il team nazionale etiope, quando avevo 19 anni. Poco dopo, nel 2019, sono stato per tre mesi in un training camp presso il centro dell’UCI in Sudafrica, a Città del Capo. Nel luglio dello stesso anno sono tornato a casa, in Etiopia, per i campionati nazionali e sono riuscito a diventare campione nazionale del mio Paese. Quella vittoria mi ha permesso di ottenere un contratto per venire finalmente in Europa. Sono arrivato a Lucca alla fine di luglio del 2020. A novembre, il giorno prima che partissi per tornare a casa, è scoppiata una guerra civile nel mio Paese. Per tre anni e mezzo non sono riuscito a rimettere piede in Etiopia.
Hai ancora in Etiopia quella prima mountain bike?
Certo! Ha cominciato a muovere i primi passi nel ciclismo anche mio fratello e si è allenato con quella bicicletta, nonostante fosse un pochino grande per lui. Ne ha acquistata una nuova, anche se nel frattempo è entrato a far parte di un team. Mia madre, in compenso, non è più spaventata come una volta, anzi mi supporta seppur non comprenda molto del mondo del ciclismo: era a dir poco scettica quando le raccontavo che volevo correre fuori dall’Etiopia e venire in Europa a farlo, credeva non fosse possibile.
Ci sono ciclisti dal passato o che appartengono al presente che ti ispirano?
Molti ciclisti che correvano con me in Etiopia, quando è scoppiata la guerra, si sono uniti ai combattimenti e, ora che è finita, hanno ricominciato a pedalare nonostante il ritorno alla normalità sia piuttosto lontano. Alcuni, invece, nella guerra hanno perso la vita.
Quanto è stato importante il ciclismo per te quando è scoppiata la guerra nel tuo Paese e non avevi modo né di farvi ritorno, né di sapere come stesse la tua famiglia?
Quando è scoppiata la guerra in Etiopia, è stato chiuso tutto e non potevo contattare la mia famiglia. Per riuscire a mandarmi un messaggio, mio fratello era costretto a recarsi in un’altra regione da cui poteva finalmente inviarmi un vocale di pochissimi secondi, che doveva comunque pagare. Cercava di dirmi che stavano bene e che non dovevo preoccuparmi per loro. Ero nervoso perché volevo aiutare loro e altri che mi avevano chiesto aiuto, ma non era facile mandare soldi: se provavo ad inviare alla mia famiglia circa 2.500 euro, dovevo mandarli per prima cosa nella capitale dell’Etiopia e da lì dovevano compiere un viaggio da regione a regione prima di arrivare alla mia; alla fine la mia famiglia, viste le commissioni che ogni regione richiedeva, riceveva non più di 350 euro. Mentre ero a Lucca e mi allenavo, mi sono cominciato a chiedere per cosa lo stessi facendo. Non sapevo nulla della mia famiglia, vedevo solo notizie di persone che avevano perso la vita, scrollando su Facebook e temevo che un giorno potesse comparire il nome di qualche mio caro.
Immagino che le differenze tra il ciclismo in Etiopia e quello in Europa siano tante, ma c’è qualcosa che ti ha impressionato più di altre quando sei arrivato a pedalare qui?
Ce ne sono veramente tante! (ride)
La prima volta che sono arrivato qui, nel 2020, facevo fatica con tutto: non conoscevo l’inglese o l’italiano, non capivo molto di quello che mi veniva detto e mi capitava spesso di fare errori all’interno del team perché non conoscevo le regole. Tutto è stato uno shock per me il primo anno. In Etiopia, ad esempio, così come in Africa, le gare e i loro percorsi non sono così duri come qui in Europa.
Qual è il tuo ricordo più felice fino ad ora?
Nel 2019, quando ho vinto il titolo di campione nazionale etiope. Mi ha cambiato la vita. Prima di andare, ero nel centro UCI in Sudafrica, avrei dovuto continuare per un altro mese e uno dei manager mi aveva sconsigliato di partecipare perché mancavano veramente pochi giorni alla gara e non riteneva che ce l’avrei mai fatta a vincere: la gara era troppo dura e per giunta in altitudine. Secondo lui, avrei solo perso i soldi di un viaggio a vuoto. Ho chiamato il mio coach in Etiopia e gli ho detto che volevo partecipare ai campionati nazionali. Anche lui era piuttosto sorpreso e credeva fosse una follia. Avevo 19 anni, mi sono detto che non mi importava nulla dei soldi, volevo e dovevo provare. Quando ho raggiunto il mio team in Etiopia, il mio coach era così arrabbiato che si rifiutava di parlare con me. L’unica cosa che è riuscito a chiedermi, urlando, è perché fossi andato. La prima gara è stata la cronometro individuale, alla quale non ero particolarmente interessato, sapevo che la mia occasione era la prova in linea. A cinque chilometri dalla partenza, in discesa, sono caduto. Erano tutti ancora più convinti che avessi sprecato dei soldi. Avevamo un giorno di pausa e quello dopo la gara che stavo aspettando: quando ho tagliato il traguardo per primo, non potevo crederci; perfino il mio coach non riusciva a dire nulla. Quest’anno, dopo cinque anni, sono riuscito nuovamente a riprendermi quel titolo, speravo che mi avrebbe aiutato a rinnovare il mio contratto con il mio team qui in Europa.
Secondo te cos’è che non vediamo e non capiamo noi spettatori di cosa significhi essere un ciclista oggi?
Senza un agente è veramente difficile trovare una squadra. Ho lavorato per il mio team in ogni gara a cui ho preso parte: non ho lottato per me stesso o per un risultato, non mi è mai stata data la possibilità di mostrare cosa le mie gambe potessero fare perché ad ogni competizione il mio compito era quello di supportare il team. Ero felice di farlo, ma quando ora le squadre mi chiedono dove siano i miei risultati, non ho prove tangibili da dargli riguardo il mio valore e le mie capacità da ciclista. Mi sarebbe bastata anche solo un’opportunità. Qualcuno ha provato a tirarmi su il morale dicendomi che se non dovessi trovare una squadra, potrei sempre cercare un nuovo lavoro in Europa. Ma non ho bisogno di nessun lavoro, voglio solo continuare a lottare per il mio sogno, essere un ciclista professionista, per salvare la mia vita e la mia famiglia. Per giunta non è così facile per me trovare un altro lavoro come può esserlo per chi è europeo, basti pensare alla fatica con cui riuscirei ad ottenere un visto.
Se potessi continuare a pedalare, a quale gara ti piacerebbe partecipare?
In queste due stagioni ho imparato moltissimo e vorrei applicarlo. Vorrei mostrare agli altri cosa riescono a fare le mie gambe in salita, vorrei che le persone cominciassero a conoscermi, a vedermi. Mi piacerebbe poterlo fare al Tour de France.
Riesci ad immaginare un futuro senza ciclismo?
Sarebbe veramente difficile vivere una vita senza ciclismo.
Sono passate alcune settimane dalle parole che state leggendo. In questo momento Negasi è a casa in Tigray, assieme alla sua famiglia. Alla fine dell’anno, non avendo al momento una squadra, il suo visto scadrà e verrà espulso dall’Italia. Lui continua a sognare, sperando che quel messaggio lasciato in una bottiglia virtuale, alla quale spero di dare una spinta nella giusta direzione, raggiunga le rive di una nuova squadra che lo possa accogliere.
Foto: Sprint Cycling Agency
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