Articolo di Carlo Giustozzi

I primi colombiani arrivarono nel grande ciclismo europeo negli anni ‘80. Il precursore, per onor di cronaca, fu in realtà il Cochise Martín Emilio Rodríguez. Ottimo passista, gregario di Felice Gimondi tra Salvarani e Bianchi, vinse due tappe al Giro nel ‘73 e ‘75 e un Trofeo Baracchi. Fu anche campione del mondo nell’inseguimento individuale tra i dilettanti e detenne, nella stessa categoria, il record dell’ora.

Un decennio dopo, al Tour iniziava a partecipare la Café de Colombia, squadra sponsorizzata dalla federazione colombiana dei coltivatori di caffè. Il primo successo di tappa arrivò nel 1984 con il capitano Luis Herrera, che tre anni dopo vincerà anche la classifica generale della Vuelta. I colombiani erano piccoli, mingherlini, ottimi scalatori. Se in salita vanno così bene, pensò Bernard Hinault, li attaccheremo in pianura, li batteremo nelle cronometro. E andò proprio così: la Colombia ha dovuto aspettare Egan Bernal per la prima maglia gialla sul podio di Parigi.
Nel frattempo, però, tanti ciclisti colombiani si sono affacciati in Europa. Il paese sudamericano ha iniziato il processo di “internazionalizzazione” del ciclismo: l’apertura a nuovi talenti provenienti da ogni parte del mondo. Tra questi, un posto speciale nel cuore degli appassionati ce l’ha uno scalatore che si ritirerà a fine stagione, e che sta nel frattempo correndo la sua ultima Vuelta. Stiamo parlando di Rigoberto Uran Uran, per gli amici italiani Ciccio.

Prima degli ottimi risultati raggiunti e dei piazzamenti nelle classifiche generali, di Uran ricorderemo la sua genuinità, l’ottimismo, quel modo simpatico di parlare e di pensare che lo ha sempre contraddistinto. E pensare che il colombiano della EF, un uomo che tutti descrivono solare, ha dietro di sé una storia difficilissima.
È nato nel dipartimento di Antioquia, a oltre 1800 metri di altitudine, in una famiglia molto povera. Il padre vende i biglietti della lotteria, la prima bicicletta gliela regala la zia. In una vecchia intervista al Corriere della Sera, Uran raccontò che alla prima gara non sapeva neanche cosa fosse una cronometro. Lo hanno messo semplicemente in sella dicendogli: “Fai più veloce che puoi”. Quella gara Rigoberto la vinse, mettendo subito in mostra il suo immenso talento. Ma i festeggiamenti per i suoi successi durarono poco: dopo pochi mesi il padre venne ucciso da una pallottola vagante, una tragica fine comune a tanti negli anni della guerra per il narcotraffico.
A soli 14 anni Uran si trova a dover mantenere la propria famiglia. Comincia lui a vendere i biglietti della lotteria per le strade, ma non lascia mai la bici. Tra gli juniores raccoglie molti successi, tra cui il campionato nazionale di categoria su strada. La disciplina in cui va meglio è però la pista, e sembra quasi un errore se si pensa che poi sarà tra i migliori scalatori del mondo.
Finite le categorie giovanili, Rigoberto ha un grande dilemma davanti. Se vuole continuare la sua carriera nel mondo del ciclismo e tentare il salto nel professionismo deve andare in Europa. Non è una decisione semplice: vorrebbe dire lasciare in Colombia madre e sorella, che dopo aver perso già il padre rimarrebbero sole. In una situazione così difficile, Uran mostra un grande coraggio. Sa che questo è un sacrificio importante, ma è anche l’unico modo per provare a migliorare le condizioni proprie e della famiglia.
Tante volte leggiamo delle storie di ciclisti del passato, per i quali la bicicletta è stata un’ancora, un’occasione di salvezza per uscire da una vita che dà poche possibilità. Qui ci troviamo in un passato molto più vicino, una condizione di grande povertà in cui si trovano tutt’ora miliardi di persone nel mondo.
A 19 anni firma con la Tenax-Salmilano e si trasferisce a Brescia. L’inizio non è facile, ma anche con l’affetto della sua famiglia “adottiva” riesce a superare le prime difficoltà. Come raccontato da lui al Corriere: “Dopo due mesi mi mandano in gara sul pavè e mi rompo subito la clavicola. Però a fine stagione il contratto arriva. Merito anche di Melania e Beppe, la mia “famiglia” italiana, di Brescia. Mi hanno sempre aiutato, anche quando ho fatto un incidente gravissimo al Giro di Germania 2007, che mi costò diverse fratture. Anche grazie a loro il rapporto che ho con l’Italia è speciale”.

Da quel lontano 2006 non si è più fermato, correndo da capitano i grandi giri nelle squadre più importanti. Prima la Caisse d’Épargne, poi il Team Sky, la Quick Step e infine la EF, dove è arrivato nel 2016, quando si chiamava ancora Cannondale, e dove è rimasto fino a oggi. Nel tempo ha raccolto un palmares molto importante: due vittorie di tappa al Giro, una al Tour e una alla Vuelta, diverse classiche di spessore e tre secondi posti nei grandi giri (alla Corsa Rosa nel 2013 e 2014, e al Tour nel 2017, a neanche un minuto da Chris Froome). Il piazzamento a cui è più legato rimane la medaglia d’argento ai Giochi Olimpici di Londra 2012, arrivata con la maglia del suo paese sulle spalle.

In un’intervista a inizio stagione, Uran ha comunicato la sua volontà di lasciare il ciclismo a fine 2024. Il colombiano ha ritenuto che la sua avventura sia giunta al termine dopo 19 anni nel mondo del professionismo, in cui ha raccolto quattordici vittorie e una miriade di piazzamenti. Ha detto che le ragioni sono diverse: “Il primo motivo è la famiglia. Il ciclismo professionistico ti richiede impegno e sacrifici, togliendo tempo alla famiglia e ai figli. Il secondo è l’età: è difficile mantenere un rendimento elevato e questa generazione di giovani è veramente troppo forte”.
Qualcuno dirà che avrebbe potuto vincere di più, che i mancati successi nella generale non gli permetteranno di essere considerato tra i migliori dell’ultimo decennio. Ma i risultati sono solo una piccola, minima, parte della storia di uno sportivo, e ancora più di un uomo con un passato difficilissimo alle spalle. In Colombia è una celebrità, è ancora oggi molto più amato di altri che hanno vinto di più come Nairo Quintana o Egan Bernal. Per tanti, tantissimi è un esempio di qualcuno che si è fatto da solo, che invece di lavorare per le bande di trafficanti si è dedicato tra mille sacrifici allo sport che amava, mantenendo nel frattempo la propria famiglia lavorando per strada. E che, diventato famoso, non si è dimenticato delle proprie origini, aprendo imprese e fondazioni benefiche a vantaggio dei suoi compaesani bisognosi.
Il gruppo non perderà il ciclista più forte, ma sicuramente non conterà più su un hombre vertical. Buena suerte, señor Rigoberto.

Fonti:
Tuttobiciweb, Dal «Corriere della Sera». Uran: corro per salvarmi dai narcos
Dal canale Youtube di EF Pro Cycling, Gracias, Rigo | Rigoberto Urán’s retirement interview | Explore series | Presented by Wahoo
Cyclingnews, ‘In the end, what you’re looking for is satisfaction’ – Rigoberto Urán and the fear of the final phase
Procyclingstats.com, Rigoberto Urán

Foto: Sprint Cycling Agency