Chissà cosa avrà voluto dire quella ragazza che, all’ora del primo caffè, in un bar, poco distante da Como, ha fermato il barista mentre cercava una canzone. “È questa” ha detto ed è partita “Mad World” dei Tears for Fears. Ci abbiamo pensato mentre andavamo alla partenza de “Il Lombardia”.
Davide Orrico è di Como, ci dice che è la sua prima volta, che non può fermarsi molto perché tutti lo chiamano. Per nome, tra l’altro. Una restituzione di identità, qualcosa che esula dal ciclista e riporta alla persona. Perché qui tutti lo conoscono così. Non ci dice che proverà ad attaccare, ma le tattiche non si rivelano mai a nessuno. “Si farà strada, vedrete” avverte qualcuno accanto a noi. Orrico si è fatto strada e di strada ne ha fatta: prima in fuga, poi di nuovo ad attaccare ai quaranta dal traguardo dopo essere stato ripreso. Vedi dal volto, vedi dalla sudorazione, dalle spalle che è alla corda ma non molla. E aveva ragione quella ragazza, la canzone è proprio quella, quella che ad un certo punto dice: “È qualcosa di strano, di divertente: i sogni di cui sto morendo sono i migliori che abbia mai avuto”. Questa frase ritorna ogni volta in cui un uomo all’attacco si sposta a bordo strada, si fa sfilare. Muoiono sogni, i migliori che ci siano per un ciclista, ogni volta che finisce una fuga.

Vincenzo Nibali potrebbe dire lo stesso, lui che, quando ha provato ad allungare, ha ricordato l’ultimo attacco al Giro di Sicilia ma anche tutte le altre volte. Anche una Sanremo di anni fa, perché poi le salite sono mare verticale e pace se lì eravamo in primavera e qui il foliage scricchiola sotto le scarpe. Si è staccato poco dopo, non era giornata. Ma gli esseri umani hanno un preciso dovere: coltivare sogni, ma badare alla realtà. Nibali lo fa, proseguendo con dignità. Come fa Pinot che, alla partenza, mentre tutti applaudono Alaphilippe, il nuovo Campione del Mondo, gli si avvicina e gli dà una pacca sulla spalla. Fa strano: chi sta realizzando tutto ciò che poteva sperare e chi ha dovuto fare i conti con vetri rotti da rimettere assieme.
Tadej Pogačar nell’armadio di casa dei genitori ha un disegno di un ciclista che attacca una salita. Potrebbe essere lui mentre attacca dopo lo scatto di Nibali. Forse il modo migliore di coltivare un sogno in una famiglia di umili condizioni: appenderlo a un armadio per ricordarsene. All’interno dell’armadio perché la tua realtà devi comunque viverla e la sua non era quella di un ragazzo che potesse permettersi troppi grilli per la testa.

Fausto Masnada sogna come quell’artigiano che per la strada che porta a Bergamo espone oggetti di legno. Modella con umiltà ciò che vuole, con decisione, mettendosi a disposizione ed essendo a disposizione. Quando arriva a Colle Aperto con Pogačar, a noi viene in mente Charlie che a vedere “Il Lombardia” si è appostato in pianura perché la sua carrozzina non gli permette di scalare vette, anche se brevi e ci dice di salire a Colle Aperto “perché lassù oggi non senti nemmeno il tuo respiro dalla folla che c’è”. Era vero, aveva ragione Charlie, che probabilmente non ci leggerà ma, se capitasse, vorremmo solo dirgli che il suo consiglio è stato prezioso e che lo ringraziamo perché da nomadi del ciclismo non sapremmo quasi nulla dei luoghi in cui capitiamo senza persone come lui.

Pogačar e Masnada hanno vissuto le stesse sensazioni, chi da una parte e chi dall’altra del sogno. Pogačar, che oggi conquista la sua seconda monumento dopo la Liegi, forse fermerà la radio su un’altra canzone. Masnada quella ragazza potrebbe capirla senza starci troppo a pensare perché ha perso proprio mentre immaginava una delle cose più belle che potesse mai desiderare.
Poi c’è chi non era pronto per i propri sogni, Roglič, e chi non ha scelto il momento giusto per farsi strada, Alaphilippe su tutti, che, in fondo, di quella pacca sulla spalla di Pinot aveva bisogno, come tutti coloro che stanno andando da qualche parte. Per viaggio, per sogno o per lavoro. Perché, tra tutti i sogni realizzati e quelli schiacciati dalla realtà, è proprio un mondo matto.