La storia di Muretti Madness è in realtà la storia di quattro ragazzi, studenti di Architettura all’Università di Firenze. Ce la racconta Matteo Pierattini, ancora in studio, a progettare, a sera. «Eravamo tutti appassionati di ciclismo, ma, come abbiamo iniziato a lavorare, il tempo per pedalare scarseggiava. Non volevamo rinunciarci, così siamo andati sui muri attorno a Firenze. Lì pedali un paio d’ore e ti sembra di aver fatto tutto il pomeriggio in bicicletta». Muretti Madness è proprio questo, un elogio alla lucida follia di chi, un sabato di ottobre, percorre 120 chilometri attraverso quelle mura, 25 muretti, più di 3500 metri di dislivello, circa otto ore in bicicletta, senza alcuna ricompensa. «Se ci pensi, la fatica del ciclismo è totalmente irrazionale. Se ti chiedessi chi te lo fa fare, rinunceresti. La fatica degli eventi come Muretti Madness è forse la più bella perché non vuole nulla in cambio». Pierattini se l’è chiesto: «Se mi avessero proposto una cosa di questo tipo, l’avrei fatta? Sì, ho noleggiato un furgone e ho viaggiato quindici ore in piena notte per andare in Belgio a vedere le Classiche del Nord. L’avrei fatta».
Perché Muretti Madness è un evento, non è una gara, non c’è competizione. Nato otto anni fa, quando appuntamenti così erano rari, con un’idea precisa: pedalare duro, “pedalare tosto”, come dice Matteo con un’inconfondibile cadenza toscana, assieme ad altri che condividono qualcosa con te. «Una visione del mondo, della fatica. Se si ascoltassero le voci degli iscritti, non si sentirebbe mai parlare di watt, potenza o velocità. Li senti commentare il percorso o i paesaggi. Li senti raccontarsi storie e problemi, perché condividere la fatica ti dà questa fiducia. Siamo partiti in dieci, quasi un gruppo di amici, quest’anno settecento persone hanno pedalato sui muretti. C’è una magia in questo». Matteo sostiene che questo segreto risieda nella bellezza, perché fai fatica volentieri se sai che qualcosa di bello ti aspetta.

«Sono i paesaggi e anche i muri. Queste stradine strette, meravigliose, che certe volte non sono conosciute nemmeno dai fiorentini. Ho girato molto per scoprirle, luoghi come Monteripaldi e la vecchia Fiesolana vengono da quei giri. Perché la Muretti l’abbiamo inventata, ma, soprattutto, abbiamo continuato a pedalarla ogni anno. A viverla da dentro».
La festa finale, come i ristori, è studiata attraverso questa bellezza. Si scelgono locali dall’aspetto famigliare, gestiti da qualcuno che conosca il ciclismo, che sappia che persone sono i ciclisti. Ai ristori c’è cibo genuino: un panino col prosciutto o con la marmellata, una torta fatta in casa. «Nutri il corpo, le gambe, ma anche la testa, che può liberarsi per qualche istante di tutte le difficoltà che ciascuno fronteggia». Dicono che Muretti Madness sia un piccolo Fiandre e in un certo senso il paragone è inevitabile, Matteo, però, aggiunge qualcosa. «Molte di quelle stradine sono quelle su cui Ginettaccio Bartali si allenava, affacciate su Firenze. Ho immenso rispetto per il Fiandre, affetto, anche. Ci sono dei punti in comune, ma restano cose diverse. Dovremmo imparare ad essere orgogliosi di ciò che facciamo, che creiamo, senza doverlo per forza paragonare ad altro. In Italia c’è una grande cultura ciclistica».

Per questo Matteo Pierattini augura a Muretti Madness di durare nel tempo e di diventare qualcosa di permanente. «Sarà un percorso che inizieremo dal prossimo anno, innanzitutto a livello legale. Vorremmo che questi tracciati restassero permanenti e fossero punti di visita per coloro che passano da Firenze. In un certo senso un dono a Firenze e a chi, come noi, ha voglia di fare fatica in bicicletta, ma non ha molto tempo». Ogni anno, i ragazzi di Muretti Madness cercano un muro nuovo, una strada mai esplorata e lo fanno per chi arriva da lontano. «Ci sono persone che partono da Milano, da Bergamo o dalla Sicilia, che viaggiano in treno la notte del venerdì, dormono tre ore e poi pedalano. Abbiamo il dovere di dare qualcosa a chi arriva qui dopo tanti chilometri e magari torna ogni anno. Noi abbiamo scelto di portarli a vedere un posto nuovo, un luogo in cui non erano mai stati». C’è il pacco gara, magliette e cappellini, l’avventura e la voglia di vedere le persone felici.

Durante la pandemia, Muretti Madness si è svolta nella sua versione diffusa, in modo da non creare assembramenti, non rinunciando ad andare in bicicletta. «Ci spiaceva rinunciare e le persone hanno capito. Sono venute in tante, hanno visto l’atmosfera serena, tranquilla di queste vie. Qualcuno lo abbiamo incrociato ed era felice. Credo basti dire questo». In otto anni, sono cambiate tante cose. Alcuni di quei ragazzi della facoltà di Architettura hanno avuto figli, Matteo stesso ha una bambina e non vede l’ora di farle conoscere Muretti Madness. «Quest’anno sarebbe potuta venire con noi, ma aveva la febbre, una brutta bronchite. La porterò presto. Anche questo è bello, vedere che questa avventura che ci è scoppiata fra le mani continua e resta salda fra tutto ciò che cambia. Ha preso una fetta importante delle nostre vite. È cresciuta e ci ha cresciuti. Perché da quei muretti abbiamo imparato tanto e continuiamo a imparare».