Un giro in Rwanda: quando la bicicletta apre un mondo

Laddove le biciclette sono il mezzo di trasporto principale, laddove, rinforzate nella parte posteriore, divengono taxi, con i freni a bacchetta tipici degli anni sessanta, oppure caricano a bordo materiali di ogni genere, dalle bottiglie, ai pali di legno, sino alle grondaie, mentre chi pedala continua ad affiancarsi, magari in salita, ai viaggiatori, anche loro sui pedali e, dopo averli fissati per qualche minuto, si congeda con un cenno del volto, simile a un sorriso, a mostrare tutto il piacere dell'incontro, del contatto, laddove accade tutto questo si apre il Rwanda. Il cuore verde dell'Africa, perché ogni casa ha un piccolo orto e l'acqua corre in ogni terreno a nutrire le piante, qualcosa di molto diverso dall'immaginario classico dell'Africa calda e secca: allora ci viene da pensare che Lorenzo, Alberto, Adriano e Mattia, forse, non siano partiti per caso per quella terra, quattro ragazzi che con il progetto Umbriabikepacking e con la tribù di Augh condividono la loro regione, i loro paesi, con solo una tenda, una bicicletta e poco più, e con tutto il senso dell'improvvisazione che ci vuole per un viaggio in bici, pur se si programma e si studiano le carte, le tracce, ma partire vuol comunque dire andare all'avventura, accettare l'imprevisto ed il cambio di programma. I dieci giorni che hanno trascorso in Rwanda nello scorso ottobre sono stati una sintesi perfetta di tutto questo.

Ad iniziare proprio dall'idea e dalla partenza. Di viaggi ne hanno fatti tanti, sono stati in Scozia, ma l'Africa pareva lontana, quasi impossibile, invece, come accade parlando tra amici, basta un suggerimento o una suggestione per mettere in piedi l'irrealizzabile e per farlo con un pizzico di follia. Avevano scoperto Race Around Rwanda attraverso le parole dei componenti di Enough Cycling e il tragitto l'avevano costruito proprio su quella traccia, insieme ad altri stralci di percorso, trovati su internet e accuratamente messi assieme: da Kigali, la capitale, a Kigali, in mezzo tutto il Rwanda. All'inizio c'è Ruhengeri, uno dei primi villaggi incontrati, pieno di entusiasmo, di vita, di persone e bambini che corrono qua e là, felici di vedere, in particolare contenti di incontrare, "musunku", l'uomo dalla pelle bianca, perché si dice porti fortuna il suo incontro: il fiume Nyabarongo è poco distante, per proseguire bisogna attraversarlo e l'unica possibilità sono delle zattere usate dagli abitanti per recarsi da una parte all'altra, spesso per motivi di lavoro. «Nel percorso iniziale- spiega Lorenzo- questo inconveniente non era previsto e probabilmente, se qualcuno mi chiedesse un parere, suggerirei un'altra via, ma anche questa è l'improvvisazione di quando si prende e si parte. A quel punto si rischiava di tornare indietro, di vanificare la prima parte del viaggio, solo quelle zattere hanno permesso la prosecuzione, pur nella difficoltà di farsi capire, di spiegare il proprio bisogno. Quelle zattere sono state parte dell'avventura». Nel Rwanda soprannominato "la terra dei mille colli", per i suoi continui su e giù, simile all'Appennino, in questo, si percorrono ottanta, novanta, talvolta cento chilometri al giorno, spesso intorno ai 2000 metri di altitudine, nei pressi di vulcani, anche intorno ai 2800 metri, spesso ripensando a questi villaggi, soprattutto quando la strada asfaltata, benissimo, tra l'altro, diventa noiosa, la stanchezza inizia a pesare e quella gioia pura è ossigeno. Il fondo stradale più impegnativo è quello del Congo Nile Trail: «Ognuno di noi aveva una bici diversa, si vede raramente in un viaggio di questo tipo, ma anche questo è il nostro modo di interpretare il ciclismo: adattarsi e vivere a pieno l'esperienza, pianificando le tappe al momento, in base a ciò che è possibile fare, alla luce del sole o al buio della notte».

Sorride Lorenzo, mentre ripensa alla Kivu Belt Road, a tutte le persone che si assiepano attorno a qualunque viaggiatore che si fermi per strada: comunicano con un gesto della mano, con uno sguardo, hanno voglia di sentirsi utili, prendono in spalla le biciclette, si offrono di aiutarti a portarle nei tratti più difficili. Poi torna serio, pensieroso: «Ricordo quei bambini che giocavano a pallone per strada, con una palla fatta di foglie di banano, ricordo il bambino che abbiamo medicato dopo una ferita: ci hanno detto che è orfano. Penso a tutti i bambini, di cinque o sei anni che ho visto trasportare del bestiame, in mezzo alle montagne o alla foresta. Mi viene in mente la loro voglia di farcela, di resistere, il loro essere felici con poco e le rincorse alle nostre biciclette in discesa». Il viaggio si svolge nella stagione delle piogge: temperature dai diciotto ai trenta gradi, e piogge molto intense, ma veloci, non più di dieci minuti, forse un quarto d'ora, qualcuno apre la propria falegnameria a Lorenzo, Alberto, Adriano e Mattia, per ripararsi. Qualche giorno dopo visiteranno il villaggio fondato per i bambini orfani del genocidio del 1994: «Ora che quei bambini sono cresciuti, quel luogo si è trasformato in una sorta di università dove si studia agraria, con una decina di camere, per ospitare i visitatori e con la possibilità di pranzare, pagando una quota. Abbiamo visto il museo dedicato al genocidio, compreso qualcosa in più della storia di quel paese».

Storia di un paese che passa anche dalla lingua, dalle poche parole della lingua locale che i ragazzi di Umbriabikepacking imparano e usano, ad esempio, per ringraziare quei componenti dell'esercito che, dopo averli averli bloccati all'ingresso di un parco nazionale, li lasciano ripartire: «Vedessi come hanno sorriso! Una gratitudine così grande per così poco, alla fine». Qualcuno, in viaggio in moto, chiede di provare le loro biciclette, allora le scambiano per qualche istante: c'è chi si diverte a pedalare e chi va incontro al vento sulla moto. Il tutto, spesso, avendo fatto colazione solo con poca frutta, poche banane, che devono bastare fino a sera e regalando qualche barretta ai giovani che si incontrano e, sapendo della ripartenza, chiedono un numero di telefono, per restare in contatto, dicono di cercare lavoro. Lorenzo non ha dubbi: «Le interazioni con le persone lo hanno reso il più bel viaggio della mia vita. Sono certo che l'Africa vada esplorata, vada scoperta, è un mondo che si è aperto: con i miei amici pensiamo già a un nuovo viaggio in Namibia, magari per il prossimo autunno».
Gli stessi amici che sono gli unici con cui è possibile fare certi viaggi, vivere certe esperienze, che sono anche questione di equilibri delicati e rari, che non si trovano con tutti: Lorenzo spiega che bastano poche persone per sentirsi al sicuro, per cavarsela in situazioni difficili, per lui sono sempre stati Alberto, Adriano e Mattia, in Rwanda anche qualche signore incontrato in viaggio che li ha aiutati nelle piccole difficoltà: «Crediamo spesso che il mondo migliore sia quello vicino a casa, per questo i miei genitori, quando partivo, mi mettevano sempre in guardia. In realtà, cose negative possono succedere anche dietro casa e cose belle anche a centinaia chilometri di distanza: il Rwanda me lo ha ricordato e me lo tengo stretto ovunque vada».


Il mondo di Piemontgravel

Ai tempi dell'università, a Torino, Tazio Chiomio prendeva la bicicletta e, nel fine settimana, si dirigeva verso la collina, dall'alto restava a guardare, mentre i minuti scorrevano e lui nemmeno se ne accorgeva: da un lato, a sinistra, la grande città, elegante, sabauda, dall'altro i piccoli paesini e la natura incontaminata. Un contrasto, tra realtà urbana e il verde, i colli che guardano verso i monti, che, a ripensarci, è la perfetta descrizione del Piemonte stesso, emblematico dell'essenza di un territorio, della sua varietà. Luigi, suo padre, può testimoniare lo stesso: da sempre appassionato di ciclismo, anche lui ha girato in lungo ed in largo la propria regione (e non solo) in sella: quando, ad esempio, arrivava alle partite di calcio del figlio con la bici sotto mano, ancora sporco dalla terra e sudato dal tragitto, e si sedeva così sugli spalti a seguire la gara, oppure quando, ogni volta in cui, in famiglia, si partiva per andare da qualche parte, era sempre l'ultimo ad arrivare, in sella ovviamente, mentre Tazio, la sorella e la madre erano in macchina, e il primo a ripartire per tornare a casa in orario. Proprio vivendo in questo modo, per più di trent'anni, si era reso conto di quanto il Piemonte avesse da raccontare, molto più di quanto generalmente non si creda. PiemontGravel nasce da questa intuizione, nel 2019, ispirandosi a realtà già affermate come il Tuscany Trail ed ereditando, all'inizio, i percorsi usuali della zona, molto tosti, sia a livello altimetrico, 1500 metri, che di chilometraggio, quattrocento, cinquecento, talvolta seicento chilometri. Successivamente prenderà la forma di quel che è oggi, anche se, come specifica Tazio, l'evoluzione è continua.

«PiemontGravel si rivolge soprattutto al mondo gravel, ma non solo, qualcuno partecipa con mtb, qualcuno con bici da strada. Si corre su sentieri variegati, simili alle strade bianche, ma differenti, originali, direi. Abbiamo strade secondarie, single track, strade poco battute, lontane dal traffico, nel silenzio». Oltre le tracce ed i chilometri, c'è la potenzialità di una manifestazione che ha un dna importante e a cui Tazio vorrebbe dare una vocazione sempre più avventuriera, meno corsaiola, meno race, un evento, insomma, in cui, intorno alla bicicletta, possa ruotare tutta una serie di altre cose: la componente umana, le tradizioni di un luogo, la conoscenza della natura e del territorio. In fondo, anche Luigi ha sempre visto tutto questo nel girare dei pedali di una bicicletta, pur con un approccio differente: lui ed il figlio lavorano assieme, in uno studio di architettura, a Cavour, e ogni tanto ne parlano, oggi che, dopo che molti suoi amici, che lo aiutavano nell'organizzazione di PiemontGravel, hanno lasciato, Luigi ha chiesto al figlio di occuparsi in prima persona della gestione della manifestazione. «Immagino una sorta di transizione. Già all'università avevo vinto un concorso per il progetto di un modulo abitativo per cicloviaggiatori e camminatori, realizzato nel vercellese; così ho iniziato a pedalare in solitudine e ad assaporare tutto ciò che avevo intorno a me, mentre andavo incontro al vento». Il punto è proprio questo: bisognerebbe riuscire a godersi queste rincorse sui pedali, invece, spesso, non avviene.
L'immagine che Chiomio ci consegna è enigmatica: la testa bassa di alcuni ciclisti, a controllare la velocità, i chilometri percorsi, i watt sviluppati. «Il lato agonistico ci sta, assolutamente, ma non siamo professionisti e abbiamo un'enorme opportunità connessa alla bicicletta, un mezzo che, nell'arco di pochi giorni, permette di arrivare ovunque, di esplorare luoghi che non si erano mai visti o, per quanto, non si erano mai visti a quel ritmo, lento, ideale. Penso a quel signore che, lo scorso anno, ha concluso PiemontGravel dopo quattordici ore e 333 chilometri percorsi, con ben 12000 calorie consumate: quanto si è goduto ogni momento dopo l'arrivo? Di notte, come mi ha visto, mi ha subito detto: "Potrei mangiare dodici pizze adesso". Non è meraviglioso tutto questo?». Intanto avrà assaggiato il prosciutto di Cuneo, piuttosto che il vino Ceretto delle Langhe, abbondanti al traguardo, in una sorta di aperitivo, a raffigurare la territorialità, i prodotti del luogo. Dalle Langhe, forse la zona più conosciuta del Piemonte, nella progettazione dei percorsi ci si sposta, si allarga la prospettiva, fino ai piccoli paesini di campagna: oggetto di scoperta per chi viene dall'estero ma anche per i piemontesi che si sorprendono ogni volta.

La manifestazione inizia il venerdì pomeriggio, quest'anno il 5 aprile, con un briefing tecnico e qualche assaggio, e propone ai partecipanti quattro percorsi, fino al 2023 erano, invece, tre: il primo, da ottantadue chilometri ideale da percorrere in giornata esplorando le Langhe, gli altri maggiormente lunghi e variegati, tra collina, pianura, laghi, Prealpi. A dare il nome ad ogni traccia il numero dei chilometri, tranne la prima, il cosiddetto "111 sbagliato", un poco accorciato per permettere anche ai meno esperti di percorrerlo in giornata. Per il futuro sono tante le implementazioni che Tazio ha in mente, ma una radice deve restare salda: l'autenticità del viaggio. «Si parla di un evento bikepacking unsupported, qualcosa che si richiama al viaggio in solitudine, all'avventura. Bene, quando si pedala da soli non si ha una guida a indicarci la strada, non si hanno input esterni particolari. Si vede ciò che si vuol vedere e si va dove suggerisce l'istinto: noi non vogliamo imbrigliare questa libertà, desideriamo anzi lasciarla sfogare al massimo, perché ci piace, ci piace molto». Una libertà che è tale anche nel mezzo: la bici espone all'aria aperta, non rinchiude chi la guida in una struttura, nel frattempo permette di familiarizzare con la fatica: «Pensiamo a un figlio che gestisce un lavoro avviato perfettamente dai genitori e ad un ragazzo che, d'altra parte, costruisce passo passo la propria attività, con sacrificio, rinunce, certo, ma anche soddisfazioni. La fatica è il mezzo per raggiungere questa contentezza, questa serenità. Può trattarsi di un risultato finale, ma anche dei piccoli passi, delle tappe di un qualunque percorso, sui pedali o nella vita di ogni giorno».
Fino a quando PiemontGravel, da evento, importante per contribuire alla quotidianità della città, diventerà un percorso permanente, che potrà essere ancor più di sostegno, per il territorio e per la cultura del ciclismo e di un certo modo di intendere la bicicletta. Sì, il desiderio di Tazio Chiomio, dopo aver inserito la collina di Torino nel percorso, è proprio questo e sta già lavorando per realizzarlo.


I sogni fanno scalo in Sudafrica

Nel mezzo di una strada rossa, di quella sabbia che, ogni tanto si alza, con nulla all'orizzonte, su una bicicletta, alle sette del mattino, con già trenta gradi nell'aria, sugli occhi di Ettore Campana la crema solare colava assieme al sudore e bruciava, accecava. Dal nulla, però, un gruppetto di bambini africani rincorreva quella bicicletta: sandali rotti, pochi vestiti, spesso rovinati, ma grida forti. Talvolta unite in un canto di felicità, in un guizzo di energia proveniente da dentro, esploso fra le corde vocali e diretto in quella calura asfissiante, che pare luglio ma è la primavera del Sud Africa. Ettore sta in silenzio, le parole sono un pensiero: «Se loro hanno questa energia, come posso non averne io?».


In quell'esatto momento, nella mente di Campana era arrivata la certezza che, in quella telefonata con il primario di oncoematologia dell'Ospedale di Brescia, circa un mese prima, aveva davvero dato la risposta giusta, sebbene sembrasse una follia. Quel giorno, aveva spiegato che sarebbe partito lo stesso per il Sud Africa, anche se i tempi erano stretti, anche se non c'era molto modo di organizzarsi, per lui l'importante era che per i bambini ricoverati in ospedale quell'idea potesse portare un sorriso, un pensiero di libertà, di altrove, una fantasia, un sogno, per l'appunto. I problemi e tutto il resto sarebbero rimasti suoi, solo suoi. Del resto, non a caso il progetto si chiama "Scalo Sogni" ed è la continuazione di un altro viaggio, sulle Alpi, che già vi abbiamo narrato tempo fa. Un viaggio per motivare i bambini malati di tumore a restare forti, a credere nel futuro, a sapere che l'avventura li aspetta, che l'avventura esiste e può entrare a far parte delle loro giornate. Così il racconto dei ghiacci alpini diventa quello delle savane africane: attraverso un gruppo whatsapp e di persona, nelle stanze di ospedale.

La partenza è fissata per la metà di ottobre, il primo incontro qualche giorno prima: «Molti bambini non li avevo mai visti, qualcuno, invece, era ancora in quel lettino dai tempi del viaggio fra le Alpi: emotivamente bello e difficile incontrarli nuovamente. Hanno fatto molti disegni, a libera scelta, da donarmi per l'avventura. I soggetti erano spesso gli animali, la natura, anche una bandiera con la scritta pace e tanti cuori. Un'altra bandiera, quella italiana, è stata firmata da tutti quei bimbi nella parte bianca ed è venuta con me per essere firmata anche dai più piccoli fra i sudafricani sulla parte verde e su quella rossa dagli abitanti del Lesotho e della Swahili Coast». Quarantadue giorni di viaggio, trentacinque in bicicletta, circa 3200 chilometri percorsi. Attorno un'autentica tavolozza di colori; la primavera, dopo l'inverno piovoso, disegna campi verdi con fiori colorati, da un lato, e distese di fiori gialli dall'altro, si corre su strade mai pianeggianti, sterrate, gravel, lontano dal traffico, con un cielo blu acceso e nuvole che paiono dipinte. Si annusa il profumo dell'oceano che si percepisce anche senza vederlo: il vento forte lo trasporta ovunque, mentre rende l'aria tersa e limpida fra le fattorie dei paesi. «Se la natura potevo immaginarla, non avevo assolutamente idea degli incontri umani. Sapevo di una situazione sociale delicata: ho vissuto qualche attimo spiacevole, mai il pericolo reale. Tuttavia tutte le persone che incontravo e a cui dicevo che stavo affrontando un viaggio da Cape Town a Maputo mi chiedevano se non avessi paura, di non accamparmi, di non lasciare incustodita la bici e di non fidarmi di nessuno. Anche molti poliziotti me lo hanno raccomandato: sia nelle volte in cui ho dormito in caserma che quando mi hanno ospitato a casa. In realtà, mi sono fidato di molti e quella fiducia non l'ha tradita nessuno. Devo tanto a coloro che ho incontrato e che mi hanno aiutato».

Dapprima gli incontri sono casuali, magari al supermercato, come casuali sono le offerte di luoghi dove dormire, poi il passaparola è una catena che non si scioglie e si fa più forte da città a città: in questo modo ovunque c'è un parente di qualcuno pronto ad accoglierlo. Campana lascia spesso un link con il tracciato in tempo reale del suo viaggio, le persone lo seguono e gli segnalano dove andare a cenare o a dormire. Ben presto, ogni tappa è scandita così: da una cameretta, in mezzo alla campagna, al verde, in posti stupendi, con platani giganteschi, animali, cani, galline. Alla sera ci si ritrova tutti assieme a mangiare, a raccontarsi storie, con la nonna, magari con il pranzo al sacco già pronto per il giorno dopo. Qualche volta sono case di contadini, di agricoltori: nel giardino, con il bel tempo, si fanno grigliate, si sta insieme, si condivide tutto, persino l'essere stanchi, senza forze, sfiniti, come era Ettore, sul ciglio della strada, a Lesotho, quando una ragazza, vedendolo, gli ha offerto aiuto.

«Il gruppo whatsapp è servito per mantenere il contatto, anche quest'inverno, bastava la foto di una vetta per scatenare nei bambini la voglia di partire, di farcela. Mentre ero in viaggio, chiedevano di tutti gli animali che incontravo: scimmie, babbuini, struzzi, gnu, bufali, zebre, antilopi, kudu, giraffe, elefanti, facoceri, rapaci, uccelli, rettili ed insetti di ogni tipo, serpenti velenosi, ho persino avvistato balene. Per i bambini c'erano leoni ovunque da cui avrei dovuto difendermi, in realtà, pur se presenti, sono in delle riserve. Certo- sorride Campana- con quelle reti di recinzione così sottili non ci vuole nulla per uscirne. Tra l'altro, in certi punti, ci sono piante alte da cui un leopardo salterebbe come fosse niente. Eppure, chissà perché, i leoni restano lì». Nemmeno il vento furioso che non lascia tregua, che, talvolta, fa pensare di mollare tutto, di non farcela, ferma Ettore Campana, sono più forti le voci dei bambini che cantano fuori dalle scuole e le loro matite che donano disegni da riportare in Italia, all'ospedale di Brescia. Così, il 27 novembre, Campana farà ritorno a casa e, qualche giorno dopo in ospedale, a Brescia. Stanco, anche mentalmente, da un viaggio più difficile di quanto avrebbe pensato, senza attimi di riposo e relax completo, ma felice di essere partito nonostante le giustificate paure delle persone a lui più vicine.

«Quella bandiera piena di firme è, ora, appesa in reparto e dovreste vedere gli occhi con cui la scrutavano i bambini. Come dovreste vedere le mani ad afferrare i disegni donati e la loro curiosità. L'avventura è più viva che mai in loro, missione compiuta». Sì, missione compiuta, i sogni hanno fatto scalo un'altra volta.


La cargo bike e l'universo della bici che si amplia

23.03.1977 Segrate (Milano)

Alessandro Grisotto è un bambino, la primavera è iniziata da poco, papà sta tornando a casa. Alessandro non lo sa, ma papà è stato in un negozio di biciclette e fra poco gli porterà la sua prima bicicletta. I genitori conoscono bene i sogni dei figli e quel padre è certo che una bicicletta sia il desiderio più grande di quel bambino, da tanto, almeno da quando aveva cinque anni e inseguiva, piangendo, lo zio, non appena lo vedeva partire: lo zio gareggiava e il piccolo Grisotto avrebbe voluto accompagnarlo ovunque. Oggi è il giorno del suo decimo compleanno e non appena la porta si aprirà e papà entrerà con quella piccola Olmo, Alessandro gli correrà incontro e salirà subito in sella. Milano è grande ed in un pezzetto di strada, per molti giorni, ci sarà lui: avanti e indietro, a destra e a sinistra, su e giù, in bicicletta e a terra, qualche caduta, qualche sbucciatura. Milano è grande, sì, e un bambino è sicuro che con la sua bici potrà girarla tutta, sentendosi anch'egli grande, più vicino al mondo degli adulti, libero.

05.02.2023 Conegliano Veneto (Treviso)

«Mi sono rivisto bambino, a Milano, con quella Olmo, dopo tanti anni. A cinquantasei anni, è stato come se avessi tolto di nuovo le rotelle alla bicicletta: la prima volta che accade sembra di volare, sfidando le leggi della fisica. Mi sento quasi esagerato a dirlo, ma è vero: ho riprovato quella stessa sensazione. Di biciclette ne ho cambiate tante nel tempo e ogni volta è stato diverso, come oggi, però, mai». Più di quarant'anni dopo e una primavera un poco più lontana, questa volta è Alessandro Grisotto a tornare a casa con una bicicletta nuova: una cargo bike muscolare. Ci pensava da tanto, si guardava attorno, pensava che fosse un'evoluzione del settore delle due ruote che avrebbe voluto provare, dopo aver lavorato diversi anni nel mondo del ciclismo, aver fatto gare, aver viaggiato, poi rimandava, aspettava. Fino a quel giorno: «il più bello, almeno in bicicletta». Ancora più libero e forse un poco meno adulto, perché la bici fa sognare di essere grandi e fa tornare bambini, quando grandi si è già diventati.

Due date, due prime volte e Alessandro Grisotto che, dall'altra parte del telefono, continua a parlare, alzando e abbassando la voce, come quando ci si emoziona: «L'altro giorno ho accompagnato la mia figlia più piccola, otto anni, dal dentista, a Vittorio Veneto: da Conegliano sono circa trenta chilometri ad andare e trenta a tornare. Si è divertita moltissimo, in mezzo alle colline, come fosse una gita ed, in effetti, un poco è stata una gita, mentre stavamo facendo qualcosa di necessario. Capisci?». Questo è un punto importante nel racconto di quello che rappresenta una cargo bike. Quando correva, Grisotto non avrebbe mai immaginato una bicicletta simile: allungata, pesante, in un certo senso "strana". «Credo sia la parte più estrema della libertà in sella. Su questa bici viaggi ad impatto zero, hai spazio per la compagnia e anche per tutto quel che può servire, che siano attrezzi oppure un sacco a pelo ed una tenda. La chiamo indipendenza e già questa è una componente decisiva in un viaggio, ma c'è di più. Sì, perché la cargo bike unisce la quotidianità più comune, portare un figlio a scuola, andare a fare la spesa, sbrigare una commissione, andare al lavoro, alla possibilità di conoscere luoghi e, perché no, di viaggiare, persino di scalare una montagna».

E Alessandro Grisotto può ben dirlo, lui che su quella cargo bike ha scalato il Cansiglio, il Monte Grappa, il San Boldo, fino ad arrivare allo Stelvio, con il suo amico Andrea, una vetta iconica, su cui ha portato altri appassionati come lui, in una sorta di sfilata di queste bici, mentre tutti guardano incuriositi. Poi lassù, a mangiare pizzoccheri, contenti. Grisotto pensa anche al Nivolet, proverà a scalarlo la prossima estate, ma pure al Mont Ventoux e, forse, anche allo Zoncolan: «In bicicletta mi sono detto che non lo avrei mai fatto, ma in cargo bike chissà. Può sembrare una follia, però mai dire mai».

«Forse sto esagerando, perché la cargo bike non è nata per fare quello che io provo a farle fare, tuttavia è un messaggio: a me è venuto naturale provare e mi sembra giusto raccontarlo. In molti mi chiedono consigli, io dico di sperimentare. Il senso è: con una bici si possono fare tantissime cose, è un peccato non scoprirlo». Sarà per le tante gare che ha corso, sarà per la quotidianità che, spesso, non lascia spazio alla solitudine, ma anche pedalare da soli regala qualcosa di raro: si pensa, si immagina, si inventa, si cambia idea, ci si promette qualcosa. Così è arrivato il progetto di correre la Seven Serpents in cargo bike e di partecipare alla Veneto Gravel, per l'occasione denominata Veneto Gravel Cargo Ride, nel 2024. Tutto all'insegna del divertimento, un sottofondo costante. «Sono convinto che non conosciamo abbastanza questo mezzo, è sufficiente far caso al volto alle persone che ti fissano per strada. Ti fanno i complimenti e almeno un paio di domande: "A cosa serve? Dove si trova?"».

Alessandro spiega, lascia tutte le informazioni necessarie e riflette sul fatto che un domani gli piacerebbe rendersi utile in prima persona per chi volesse provare una cargo bike. Il verbo non è casuale: «Bisogna provarla e prenderci la mano, perché è diversa da guidare rispetto alla bicicletta classica. Serve pratica e continuità, alla fine non si vuole più scendere».

Altro tema è quello del costo, decisamente elevato, che rischia di allontanare anche chi vorrebbe sperimentare. La soluzione c'è: in Germania, in Olanda ed in Inghilterra sono già attivi i noleggi operativi, per ogni modalità di utilizzo, mettendo sempre al centro la lentezza dello spostamento, che cambia proprio la prospettiva di ogni viaggio, breve o lungo che sia. Probabilmente presto arriveranno anche in Italia e l'universo della bicicletta si amplierà ancora un poco, ci saranno nuovi inizi, nuovi luoghi in cui portare una cargo bike e nuove cose da fare: «Il resto è difficile da raccontare, possono dirlo i miei figli che vedono tutti i giorni quel che significa per me quella bici bislunga che ho tanto desiderato. Quel che non può narrare si definisce indescrivibile, giusto? Ecco, per me la bicicletta è indescrivibile». Scusate se è poco.


Race Against Cancer: fino in vetta al monte Grappa

L'hanno chiamata RAC, è sostenuta da LILT, significa Race Against Cancer e nasce da quel che un essere umano e una bicicletta possono fare: partire. Partono gli amici, assieme, partono così, da Massa, ad inizio ottobre, Andrea Pepe, Marco Della Maggiora e Massimiliano Frascati diretti verso le pendici del Monte Grappa, verso il sacrario dei caduti, per sensibilizzare alla lotta contro i tumori e promuovere uno stile di vita sano. Si tratta della terza edizione dell'evento ed il vissuto dei due precedenti resta nel racconto: «Potrei parlarti del mio babbo, della mia esperienza personale- narra Andrea- in realtà ognuno di noi potrebbe aggiungere qualcosa perché purtroppo tutti o quasi abbiamo conosciuto almeno un pezzetto di quel dolore, di quella sofferenza. In questi giorni in bicicletta ne abbiamo avuto la conferma».

Quel giorno nei dintorni di Modena, ad esempio, quando, da una strada sbagliata, è nato un incontro con un gruppo di vecchietti: qualcuno raccontava di aver corso con Moser, altri, appena conosciuto il progetto, si sono prodigati in indicazioni stradali per arrivare più velocemente ed in sicurezza da un luogo all'altro, da una città all'altra, magari anche ammirando un paesaggio mai visto prima. Oppure quando una signora, a Bassano del Grappa, vedendoli pedalare e, poi, sentendo raccontare, si è commossa, proprio a colazione, iniziando a sua volta a parlare, a spiegare. Marco prende la parola: «L'idea è quella di portare un momento di leggerezza anche alle famiglie delle persone malate, perché la loro vita cambia ed è difficile, molto difficile. Talvolta basta una boccata d'aria, un giro dell'isolato, qualche parola nuova, per riprendere fiato ed essere pronti ad affrontare una nuova giornata. Noi cercavamo sempre di avere un sorriso per chi incontravamo e quel sorriso ci tornava sempre indietro». Ognuno con le proprie caratteristiche, di regione in regione, di paese in paese.

Il Monte Grappa non è una destinazione casuale: si pensa ai caduti della guerra mondiale, si pensa alla parola "combattere". «L'unica via contro queste malattie è la scienza, la medicina, gli ospedali ed i medici. Spesso la sanità è sacrificata, anche su questo è necessario accendere un riflettore. Noi proviamo a farlo tramite lo sport». Andrea è anche il fotografo di questo viaggio e l'istantanea fotografica del progetto ce la fornisce proprio lui, mentre ci dice che gli piacerebbe che questa avventura fosse ricordata come quei tramonti in cui, assieme agli amici, chiacchierando, si percorre un lungo viale, magari con una birretta in mano ed i colori tenui della sera: «Quei momenti in cui ti dici: “Vorrei essere anche io lì. Semplicemente stare in gruppo, in compagnia, senza frizioni, con piacere». Sì, perché serve talento anche per stare in gruppo, per tenere le ruote: «Non è una gara, non c'è il primo e non c'è l'ultimo, noi aspettiamo tutti, andiamo assieme. Certo, ognuno ha messo la propria fatica, per innescare la pedalata, per scalare una salita o disegnare una curva in discesa, ma accanto ci siamo tutti, ci sono tutte le persone che ci vogliono bene, gli amici. Nella malattia dovrebbe succedere lo stesso». Ogni giorno qualcuno gli dice: "Bravi, bisogna parlarne, continuate così, fatelo anche per noi". La soddisfazione di fare qualcosa di utile, qualcosa che può aiutare, in questo caso va di pari passo con una riflessione importante che Marco e Andrea condividono: «A volte sembra ci sia una sorta di timore nel fare il primo passo, nel parlare di queste cose. Certamente è comprensibile, ed ascoltare è già un passo fondamentale per non sentirsi soli, allo stesso tempo però è necessario farlo, perché la strada è iniziata ma è lunga».

Sì, lunga come la salita al Monte Grappa, al sacrario, con tutte le volte in cui alla mente si potrebbe affacciare l'idea di lasciare perdere, perché, in fondo, è così che talvolta si reagisce di fronte alle difficoltà: «La nostra, in fondo, era solo una salita in bicicletta ma a mollare, a tornare, prima di essere arrivati lassù, non ci abbiamo mai pensato. Vorremmo spronare chi sta soffrendo per una malattia a non farlo mai. Intorno avrà sempre il suo gruppo, a sostenerlo». E si torna un poco indietro nel tempo, attraverso la lentezza della bicicletta, nel muoversi, nell'attraversare il paese, «come facevano i nostri nonni, senza tutta la velocità in cui siamo immersi, che ingloba anche i sogni di ciascuno di noi»: fino al silenzio da cui si resta avvolti al sacrario, soli con i propri pensieri. Tra le foto di Andrea Pepe, una mostra una mucca, tranquilla, in un paesaggio montano. e Andrea, tra tutto quello che ha visto, questo non riesce proprio a toglierselo dalla testa: «Un apparente contrasto con quello che viviamo noi come esseri umani, un elemento di relax a cui provare a guardare in certi istanti». Così Marco Della Maggiora, Andrea Pepe e Massimiliano Frascati, tornati a casa, sono ancor più sicuri che questo progetto vada preservato, rinnovato, anche nei momenti in cui sarà più complesso. Allora bisognerà aspettare quella voce che grida «non mollare», anche quando non si vede la fine: «Non mollare, insisti, è l'unica possibilità che hai».

Foto: Andrea Pepe


Ci andiamo in bici?

Da ragazzino, diciamo tra i sedici ed i diciotto anni, quando ancora viveva vicino a Taranto, in un paesino, Frank Lotta voleva il motorino: il Piaggio SI, quello su cui molti giovani giravano in quel periodo. Lo chiese a papà: «Mi disse di no, almeno per quel momento. In realtà, il motorino non me lo comprò mai, però avevo la bicicletta, la mia bicicletta per andare da paese a paese con gli amici. E come si faceva? Come si diceva per organizzarsi e partire? Spesso bastava un "ci andiamo in bici?". Li risento ancora oggi quei "ci andiamo in bici?" e sono importanti per me».

Di più, per Frank Lotta quella frase è determinante e l'entusiasmo con cui ce la analizza, ce la racconta, quasi come fosse un prezioso testo letterario, è da ricordare: «Sì, è determinante. Ma ti immagini se ci dicessimo quelle poche parole ogni volta in cui andiamo al lavoro, ad incontrare un amico, magari a mangiare un panino ed a bere una birra? Se quella fosse la proposta o l'invito di ogni giornata, il proposito dietro le cose più semplici? La realtà è che non potrò mai spiegare in maniera esauriente quella frase perché è già così ricca, così piena, che l'essenza è lì e solo lì. Ogni parola che aggiungiamo, toglie». Silenzio.

"Ci andiamo in bici?" è divenuto così il titolo di un programma vodcast, in sei puntate, una ogni lunedì, a partire dal 9 ottobre, su Mediaset Infinity, in cui, in sella alla propria bicicletta, Frank Lotta si reca dai propri ospiti, mettendosi in dialogo ed in ascolto ed interrogandosi sulle possibilità di uno sviluppo sostenibile che non penalizzi le future generazioni, magari attraverso una filosofia di vita più rispettosa dell'ambiente. E Frank scherza: «Perdonami, ma qui ci sta bene la sincerità più schietta. Dovevo andare a Torino, a Bologna, a Roma, ma non sono un ciclista professionista. La mia regola in bicicletta sono le pause in cui guardo, osservo, fotografo, faccio un video del luogo in cui mi trovo. Quanto tempo ci avrei messo? Chissà. Allora ho scelto di coniugare la bicicletta con un mezzo elettrico, un'auto elettrica. Cosa ho scoperto? Che tracciare un itinerario e poi percorrere cinquanta, settanta chilometri, attorno allo stesso centro è una scoperta continua. Forse non dovrei dirlo, forse è banale, invece lo ripeto. Su quella bicicletta ho scoperto cose che nemmeno immaginavo». Una delle prime scoperte ha a che vedere con la gioia.

«Stai solo pedalando, eppure è come se ti fossi messo parrucca e naso rosso da clown e girassi per le strade in cerca della felicità. Stai solo pedalando ma chi pedala come te ha voglia di starti accanto per un tratto di viaggio, chi ti vede ti guarda, si avvicina, ti chiede se è tutto a posto. In Australia, qualche anno fa, ho capito che in sella non sei mai solo: nemmeno se ti trovi in mezzo alla strada con la bici rotta. Qualcuno arriverà, ti chiederà, ti aiuterà. Si può diventare felici in sella, è un lasciapassare per la gioia». Allora si va in bici, certo, ma da chi si può andare per capire, scoprire, imparare? La guida deve essere la curiosità e l'ispirazione la cultura: se si è curiosi si ha il desiderio di ascoltare e di imparare, chi sa, invece, può spiegare. Dopodiché il segreto è ascoltare, riflettere. Ascoltare Paolo Cognetti che racconta le montagne, Mariasole Bianco che parla della conservazione dei mari, Mia Canestrini che narra la biodiversità animale, Luca Parmitano che porta alla scoperta dell'esplorazione spaziale, Luca Mercalli che indaga il cambiamento climatico e Nicola Armaroli che si occupa di transizione energetica.

Frank Lotta era con ognuno di loro e per descrivere quel che è stato questo viaggio adotta un paragone che resta impresso: «Immagina Marco Pantani che scala il Mortirolo come sapeva farlo lui, immaginati quella sensazione. Luca Mercalli trasmette la stessa cosa, seppur in un altro ambito». Le domande scavano, provano a svelare realtà complesse, molto complesse, e Lotta deve fare i conti con una realtà ineluttabile: ciascuna di quelle frasi affermative e certe, almeno per chi le pronuncia, che sentiamo tutti i giorni, del tipo in realtà il cambiamento climatico non esiste, per essere smentita richiede minuti e minuti, argomentazioni e argomentazioni. «Anche se sono false, anche se non hanno motivo di esistere, quel tempo serve ed è giusto prenderselo. "Il cambiamento climatico non esiste, le auto elettriche non aiuteranno la transizione": parlo di queste parole che gli esperti sviscerano, vanno indietro nel tempo e, di analisi in analisi, portano prove, motivazioni».

Anche perché, e Frank Lotta lo spiega bene, in molti casi loro hanno visto con i loro occhi quel che spiegano: sono fatti, non supposizioni. «Luca Parmitano me lo ha detto: “Ma io ho visto dalle stazioni orbitali i deserti che aumentano, ci sono le foto. Come si può dire che non è vero di fronte a questo?"». Se lo chiede Parmitano e se lo chiede anche Frank Lotta mentre ne parliamo: certo è necessario un cambiamento planetario per provare a cambiare davvero qualcosa, ma le piccole abitudini, i comportamenti che ognuno di noi adotta, possono già essere importanti.

Luca Mercalli lo ha spiegato così: «Prendiamo l'esempio di un corpo ammalato, non importa tanto la malattia ai nostri fini, importa il fatto che il nostro corpo sta male, che noi stiamo male. In questi casi, si fanno degli esami clinici e, una volta individuato il problema, ci si cura per risolverlo. Il pianeta sta male, è nella stessa condizione. Il problema non è irrisolvibile, però bisogna muoversi per risolverlo. Bene, chissà perché, di fronte a questo malessere, invece di scegliere di curarci, scegliamo di ignorarlo».

Probabilmente perché, come esseri umani, facciamo fatica a percepire la pericolosità nel momento in cui non si presenta a livello personale, quindi, è verosimile, che si arrivi a comprendere il pericolo solo quando sarà irreversibile e questo è assurdo, anche perché, come aggiunge Luca Parmitano, «non è solo a rischio l'esistenza di un pianeta, è a rischio la nostra esistenza, come esseri umani. Che lo vogliamo o no, la situazione ci tocca direttamente». Tra l'altro, come precisa Paolo Cognetti, non è nemmeno detto che qualcosa si faccia nel momento dell'irreversibilità della situazione, perché l'essere umano è estremamente adattabile ed il rischio è che riesca a ritagliarsi una sfera protetta anche in un ambiente ingestibile. Una prospettiva apocalittica, da considerare, tuttavia.

Frank Lotta trova nei giovani un seme per sperare nel cambiamento, non in tutti, magari, non sempre, ma senza dubbio lì c'è una possibilità: «Io mi sono commosso quando ho incontrato per la prima volta i ragazzi dei Fridays For Future perché guardavano oltre le loro giornate, la loro quotidianità, avvertivano la preoccupazione per qualcosa di più grande e se ne occupavano. Se penso ai miei quattordici anni, non avrei avuto questa forza, questa volontà». Si parla di elettrico, che, attualmente, è una possibilità per ridurre le emissioni di CO2, un domani chissà, magari ci sarà altro, e si torna a parlare di quella bicicletta «di raggi, ruote, catene, pezzi di ferro, che non possiamo non usare, che per me è stata una vera e propria folgorazione, quando ho iniziato ad avvertire un senso di colpa profondo per l'ambiente. Allora sono arrivati i viaggi, perché è questo il bello: non solo si risparmia qualche quattrino, non solo si può andare più veloci o più lenti, ma si può essere felici, come me quando passo da Piazza Duomo, a Milano, in sella, quando sto nel silenzio con lei o quando arrivo dove non potrei arrivare con nessun altro mezzo. La bicicletta mi ha fregato, me ne sono innamorato». Allora sì, andiamoci in bici.


In bicicletta in Irlanda: l'avventura di Pietro Franzese

Il Royal Canal era sempre stato lì, a Dublino, sfiorato dai raggi del sole. E chissà da quanti giorni, sulla superficie delle sue acque, affiorava quel telaio di una vecchia bicicletta. Chissà quante persone, passando di lì, saranno rimaste colpite da quell'oggetto che brillava alla luce del sole, chissà quante saranno state tentate di capire cosa fosse, di prenderlo, di portarlo a riva. Pietro Franzese viveva proprio a Dublino in quei giorni, ma, nella sua camera, al seminterrato, la luce quasi non arrivava e il Royal Canal era poco più di un'idea. Eppure, quasi per un gioco del futuro, a trovare quel telaio, a portarlo a riva e a prendersene cura, ad assemblarlo, fu proprio lui. Poi, si sa, le coincidenze sono una cosa seria, così Franzese ha iniziato a viaggiare in bicicletta: è arrivato a Capo Nord in scatto fisso, ha attraversato gli Stati Uniti durante la USA Coast to Coast, ma in Irlanda, in sella, non è mai tornato, almeno fino allo scorso mese di settembre.

Sì, tornato, perché Pietro soprattutto voleva tornare. «Al termine delle scuole superiori ero partito per l'Irlanda per continuare a studiare ed imparare l'inglese. Ero da solo, pagavo l'affitto e lavoravo in un "food bank", un banco alimentare. Essendo un'esperienza di volontariato vivevo realtà difficili, spesso di sofferenza, ma non ho mai visto una persona triste, arrabbiata con la vita, con gli altri. Mi sono interrogato spesso su questo fatto». Ora capiamo meglio quell'espressione che Pietro ripete spesso durante l'intervista: «Sono un popolo eccezionale». Ora capiamo meglio il suo tono, quando parla dei luoghi e delle persone: «Si tratta di una terra che ha vissuto la povertà per anni e lo ha fatto con una dignità enorme. Sarà per questo che, in quelle strade, non ci si sente mai soli, pur essendolo. Hanno un forte senso della compagnia, dell'accoglienza». Infatti, anche mentre si è seduti al tavolo di un pub, dei signori si avvicinano, offrono una o due birre, un bicchiere di whisky, quattro chiacchiere, magari una partita a biliardo o una cantata al karaoke: «Il prezzo della Guinness è fisso a 4,80 euro. Era così nel 2014, è così oggi. L'Irlanda non è cambiata, è come me la ricordavo. C'è meno verde, forse, almeno a Dublino, ci sono più palazzi, più case, ma l'atmosfera è la stessa. Mi hanno addirittura accompagnato a vedere una partita di calcio gaelico e si notava che erano felici che fossi con loro».

Franzese voleva tornare ed è tornato, in bicicletta: dal 31 agosto al 28 settembre, percorrendo 2300 chilometri, lungo la Wild Atlantic Way e la Causeway Coastal Route. L'occasione è stata legata al decimo anniversario della Wild Atlantic Way che Pietro Franzese ha voluto raccontare attraverso foto e video per l'ente del turismo locale: «La via è sempre esistita. Selvaggia, certamente, ma popolata. Lontana, ma nemmeno troppo e, soprattutto, facile da percorrere, ben segnalata, con cartelli che indicano la direzione, su asfalto. Mi piace immaginarlo come primo viaggio di un ragazzo o di una ragazza che stanno scoprendo il piacere di pedalare». L'equilibrio di una bicicletta, in Irlanda, è un equilibrio nel verde: dal verde scuro, denso, a quello così chiaro da ricordare l'acqua dei Caraibi. La sabbia è bianca, l'acqua turchese, il rumore dell'acqua che si infrange sulle scogliere è tanto bello quanto ipnotico: quella spuma bianca, guardando giù, è davvero ipnotica, lascia un senso di vertigine, di paura, quasi.

«Nelle notti in tenda si sentiva l'umidità proveniente dall'oceano. I primi dieci giorni mi hanno meravigliato con un meteo incredibile: non una goccia d'acqua, un cielo azzurro intenso, incontro a cui correvo veloce, cercando di non perdermi nulla. L'applicazione del cellulare con il meteo sempre sotto controllo, perché le piogge di settembre sono arrivate». Gli occhi di Pietro Franzese vedono il tipico paesaggio irlandese: muretti a secco, campi, verde, pecore ovunque, oceano a lato, una striscia di asfalto, un'erba tenera nel mezzo, una collinetta verso l'orizzonte e le case di un bianco acceso.

«Tutti si fermano a salutare, anche dalle auto, dai trattori. Ci si sente sicuri in sella, non si ha timore. Un giorno, una macchina mi è passata accanto, in quell'istante, un sassolino ha colpito la carrozzeria dell'auto. L'autista si è subito fermato: ha verificato cosa fosse accaduto, si è preoccupato per me, temeva di avermi, in qualche modo, danneggiato. Una forma di attenzione, di cura, che fa bene». Nelle soste ad una qualunque gas station, chi incontra un ciclista chiede dove stia andando, cosa voglia vedere, magari lascia qualche consiglio. La routine di Pietro Franzese prevede un risveglio lento, prendendosi tutto il tempo che serve prima di partire. Anche in città non si avverte il consueto senso di fretta che si vive, solitamente, nei centri abitati.

La mattina ha il sapore tipico della Full Irish Breakfast: uova, salsiccia, pomodori, funghi. In quel piatto, magari gustato in spiaggia, c'è tutta l'energia della giornata. Il brown bread è il pane più consumato, mentre il pane bianco è più difficile da trovare. Della birra si "mangia" quasi la schiuma, il salmone ha un colore intenso, un sapore mai provato prima: «Ho scoperto viaggiando che, in quelle terre, il salmone, fino a non molti anni fa, era considerato un cibo per poveri, al contrario della tradizione che lo associa alle classi più benestanti».

Si può pedalare lentamente, gustandosi l'attimo, entrare in un pub e chiedere la zuppa del giorno, "soup of the day", che cambia per l’appunto ogni giorno, che ha ingredienti diversi, ma è un omaggio all'ospitalità, all'accoglienza. Una zuppa calda, da gustare da mezzogiorno a mezzanotte, dopo aver preso il vento in faccia e respirato a pieni polmoni, nella verde Irlanda, in cui ci si sente benvenuti. Quando si arriva o quando si torna, come ha fatto Pietro Franzese.


Teatro a pedali, ovvero dove si recita, dove si pedala!

Daniele Ronco parte da nonno Michele e, del resto, non potrebbe che partire da lui, «un uomo da cui ho imparato a vivere, senza orologio, senza televisione e senza telefono, viveva al ritmo delle stagioni, sapeva l'orario in base alla luce nel cortile, e conosceva i valori importanti».

Anche grazie a nonno Michele, Daniele ha tolto le rotelle dalla sua bicicletta a soli due anni e mezzo. Daniele che, in sella, è uno scalatore, Daniele che viene da Cumiana, una piccola borgata in cui tutti si conoscono, e, fin da ragazzo andava a scalare le vette lì intorno perché amava il senso della sfida, Daniele Ronco che, di lavoro, fa l'attore e, a teatro, ha portato la bicicletta, anzi, le biciclette, trasformandolo di fatto in un teatro a pedali.

Una quindicina di biciclette e gli spettatori che sono invitati a pedalare per illuminare il palco: «Qualcuno, quando sa che bisogna pedalare, si pone dubbi, altri vengono apposta, anche solo per curiosità, altri ancora capitano quasi per caso, con amici, e vogliono provare. Le reazioni sono varie e molteplici: poco tempo fa, sono andato personalmente a complimentarmi con due ragazzi che avevano pedalato, senza sosta, per tutto il tempo dello spettacolo. Mi hanno incuriosito e ho voluto salutarli di persona». Nonno Michele, forse, aveva qualcosa di quei ragazzi: alla sua bicicletta, infatti, non avrebbe mai rinunciato. Daniele gli ha dedicato un monologo: "Mi abbatto e sono felice": il primo monologo a impatto ambientale zero, scritto proprio dopo la sua scomparsa.
«I nonni sono speciali per tutti, così, mi è capitato di pensare che Michele fosse così unico soprattutto perché mio nonno. In realtà, spesso, in paese, qualcuno mi ferma e mi dice: "Com'era bravo tuo nonno". Allora ho capito che nonno non ha segnato solo la mia crescita, ma quella di molte persone che ha incontrato nelle sue giornate e lo ha fatto, semplicemente, con l'esempio e anche con la sua bicicletta. Geniale e carismatico». L'idea del teatro a pedali viene da nonno e da un documentario che Ronco ha visto non molto tempo fa: la storia di un ingegnere belga che aveva scelto di ridurre dell'80% il suo impatto ambientale sul pianeta.

Questo ingegnere era consulente energetico e aiutava le aziende a contenere le loro emissioni inquinanti: nel suo piccolo, in ufficio, alimentava la corrente necessaria a far funzionare il computer grazie a una cyclette. «Credo sia molto sciocco non avere cura del pianeta in cui viviamo, della nostra casa, in fondo. Non averne rispetto è deleterio ed è un messaggio da comunicare e da comunicare in maniera giusta. Io faccio l'attore e posso raccontarlo attraverso uno spettacolo. La mia azione concreta, perché serve un'azione concreta in queste cose». Così se il monologo c'è, è anche merito del pubblico che, mentre ascolta, pedala e fa fatica.

«Fatica è una bellissima parola. Almeno per quanto mi riguarda è un ingrediente importante della vita. La fatica della mente, forse, può essere tossica, quella del corpo è buona, è sana. Anche nel teatro si usa la fatica, si consiglia di correre, di fare fatica, prima di scene importanti, perché, così facendo, si entra maggiormente nella parte, ci si immedesima, perché la fatica toglie tutto quel che non serve, che è inutile. La fatica ha a che vedere con la realtà, con la verità». Per questo, nelle montagne che ha sempre scalato Daniele, salire è sempre stato il momento più bello «perché, in quel momento, si è esattamente, quel che si è, senza filtri, e saperlo è importante per ogni sfida della vita». La bicicletta è cambiata nel corso degli anni, cambiata moltissimo negli ultimi trent'anni, ma, in fondo, ha mantenuto i caratteri fondamentali, quelli che la rendono bella, importante, quelli che la rendono un mezzo di cambiamento o, per quanto, un mezzo che permette il cambiamento.

Daniele Ronco è certo che sia proprio la bicicletta a risvegliare una voce dentro di noi: la voce di tutto ciò che vorremmo fare ed invece non facciamo: «Sai quel sentimento negativo che alcune persone manifestano quando incontrano ciclisti? Si tratta del senso di colpa. Nella nostra interiorità, tutti sappiamo che dovremmo usare maggiormente la bicicletta, che farebbe bene a noi stessi e alla terra in cui viviamo, quando non lo facciamo, il senso di colpa si manifesta anche così, quasi respingendo la bicicletta. Il sentimento negativo di cui parlavo è qualcosa di spesso inconsapevole». A questo si aggiunge il fascino del motore, un tema che si è sviluppato soprattutto con il periodo del boom economico, con la sua cultura: una cultura di cui risentiamo ancora oggi.

La bicicletta che usa in scena Daniele l'ha trovata nel garage del nonno, insieme a tante altre cose che custodisce: è una vecchia Bianchi. Pedalare da solo non bastava, per cambiare le cose bisogna essere molti, così Ronco pedala con chiunque lo vada a vedere, ad ascoltare. Così questo racconto termina com'è iniziato, con nonno Michele, senza orologio, televisione e telefono, con la luce del sole ad indicare l'ora e una bicicletta che, a teatro, accende le luci e si va in scena. Daniele Ronco è pronto!


Scalo sogni: cosa può fare una bicicletta

Il viaggio di Ettore Campana è iniziato come quasi tutti i viaggi: dalla mente e dalla fantasia. Ettore, trent'anni, di Brescia, forse, non avrebbe nemmeno pensato che quell'idea sarebbe potuta diventare reale e, fino ad un certo punto, pareva non ci fossero neppure le condizioni per realizzarla o, quanto meno, per realizzarla proprio come l'aveva immaginata. Fino a che, un giorno, dopo aver rimandato più volte, Campana si è detto quel che spesso ci si dice, o ci si dovrebbe dire, quando si sceglie di partire: «Inizio il viaggio e, sulla strada, scoprirò il resto, lo affronterò». La frase che rompe gli indugi e porta in sella. Anche perché, il viaggio di Ettore Campana non appartiene solo a lui: l'idea è quella di un progetto dedicato ai bambini ricoverati nel reparto di Oncoematologia pediatrica dell'Ospedale di Brescia, per spronarli, attraverso un'avventura, a credere in loro stessi, nella possibilità di andare oltre i momenti difficili, facendo leva sul buon umore. Un'avventura perché ai bambini l'avventura piace, perché leggono avventure, sognano avventure ed un'avventura perché si scalano montagne, con solo una bicicletta su cui è fissata l'attrezzatura completa da alpinismo e scialpinismo.

«Quando sono andato in ospedale a trovare i bambini ricoverati, ho raccontato del mio viaggio e di quelle vette a cui sarei arrivato: ho visto come mi guardavano, anche la loro mente aveva iniziato a viaggiare. Le bandierine che ho portato con me sono servite ad alimentare quel viaggio: i bambini le hanno firmate tutte, sapendo che la loro firma, il loro nome, sarebbe venuto con me in cima, che anche loro, in un modo o nell'altro, avrebbero partecipato a questa scalata e così è stato. Sui monti, quelle bandierine sventolano ancora». Il messaggio è chiaro: come Ettore ha conquistato le vette, insistendo, sopportando la fatica e continuando a crederci, così devono ricordarsi di fare quei bambini nella quotidianità. Non è un caso il nome "Scalo sogni": scalo è il luogo in cui si approda, in cui si raggiunge la meta, finale o provvisoria: qui approda un uomo e approdano i sogni di chi, almeno con la mente, lo accompagna nel percorso. In totale, Ettore Campana percorrerà 2800 chilometri, di cui 2450 in bicicletta, con un dislivello totale di 37500 metri, con sedici colli alpini saliti in bicicletta, tra cui Stelvio, Gran San Bernardo, Forclaz, Cormet de Roselend e 33 cime scalate: il tutto in due mesi, dal 15 aprile al 13 giugno, tra Italia, Svizzera e Francia.

Il filo conduttore è stata la fatica che, ci spiega Campana, è la sensazione attraverso cui le cose restano: «Se togli la fatica, togli l'essenza. Credo sia importante il senso di fatica in quel che viviamo, nell'esplorazione del mondo, a piedi o in bicicletta, altrimenti sembra tutto scontato e le cose scontate non si fanno ricordare». Le scalate, all'inizio, sono qualcosa di lontano, a cui non si pensa, se non come possibilità, è il cervello umano a concentrarsi su pochi traguardi alla volta, a vedere solo una parte del tutto, soprattutto quando il tutto è così grande: «Pensavo solo a godermi il paesaggio ed ogni pedalata, almeno nei primi giorni. Ho imparato anche a fare così, perché le prime volte prevale la fretta di arrivare ed il resto si dimentica. Invece il percorso va valorizzato, come è da valorizzare la bicicletta, bisogna capire che mezzo straordinario sia e quante cose possa fare, quanto possa aiutare, essere d'ispirazione».

Il gruppo whatsapp creato da Campana ed i contatti continui con i genitori ed i bambini sono stati un modello a cui ispirarsi: «I bambini volevano sapere dove mi trovavo, volevano vedere foto e seguire il percorso delle bandierine firmate prima della partenza: è lo spirito di gruppo, il sentirsi parte di un progetto, il condividere un obiettivo e una meta, che incoraggia entrambe le parti nel loro tragitto. Un grosso aiuto, quando si è in difficoltà». Mentre si è ospedale, oppure mentre si sta scalando una montagna: «La conquista di una vetta è un tema delicato. Spesso si parla di "conquista dell'inutile" perché, se ci pensiamo, cosa resta dopo la discesa? Sembrerebbe effettivamente un vuoto, dopo il raggiungimento di quel che si desiderava. Non lo è: grazie all'abnegazione e alla fatica, quel percorso permette di crescere e cambiare. Se si è fortunati, anche di cambiare un poco, magari alleggerendola, la realtà di qualcuno che sa di quella scalata, di quella vetta raggiunta».

Ettore Campana se ne è reso conto quando, al ritorno, in ospedale, in una stanza, sono state proiettate le immagini ed i video della sua avventura: «Anche gli infermieri ed i dipendenti dell'ospedale mi hanno ringraziato. Hanno detto che il pensare al mio tragitto ha reso più piacevoli le loro giornate in corsia. Ho visto genitori che, grazie a quel gruppo whatsapp, hanno iniziato a conoscersi, a parlare dei figli, a sentirsi meno soli ad affrontare un periodo buio. In fondo, è incredibile che solo con una bicicletta e tanta forza di volontà accadano queste cose. Sì, incredibile, ma vero». Serviranno altri giorni, perché Campana realizzi tutto quel che è stato il suo viaggio. Di certo, lo scalo sogni, l'approdo, è raggiunto.


Cara Biga, come una lettera alla bicicletta

Se Veronica Santandrea dovesse scrivere una lettera alla bicicletta, la inizierebbe come si iniziano di solito le lettere: "Cara Biga..." e via di parole in parole. Cara come "Cara" di Lucio Dalla, come quel verso "tu corri dietro al vento e sembri una farfalla", perché a lei la bicicletta pare davvero così. Biga, invece, è il nome che, a Bologna, la sua città natale, danno alle biciclette. Di più, dire Biga vuol dire parlare dell'insieme di tutto quel che di Bologna non le piaceva più, quando è partita per Torino, per lavoro, e di tutto quello che ha riscoperto, al ritorno, una mattina presto, salendo al San Luca.

«Per noi è scontato che ci siano i colli e le strade strette bolognesi, quasi soffocanti, tanto che a Torino volevo dimenticarle, attraverso i viali ampli della città piemontese. Il giorno in cui ho scalato il San Luca in bicicletta, in vetta, senza fiato, ho chiamato mia madre piangendo e gridando: "Ho fatto il San Luca". Quasi mi appartenesse. In quei momenti ho rimesso assieme passato e presente, ho trovato un altro modo di vedere questa città in cui ora vivo». Ma ritornando alla lettera, continuerebbe con una frase semplice e decisa: «Mi hai salvato e mi salverai».
E Veronica parla della bicicletta in generale. Sì, della "Ravaldona", come la chiama lei, la vecchia Graziella con cui girava le vie di Bologna da ragazza, «un cancello pesantissimo, fidati», e di ogni altra bicicletta che ha avuto e che avrà. «Ha curato una difficoltà che ho sempre avuto: mettere radici. Farsi terra e paese, come avrebbe detto Cesare Pavese. I miei genitori hanno sempre viaggiato molto e le mura di casa, per me, sono sempre state una costrizione. La bicicletta mi ha permesso di trovare la mia casa diversa: accetto le radici perché so che posso riprendere a viaggiare». Per questo Veronica ha venduto la moto che aveva e di cui era appassionata e si sposta solo in bicicletta. Tra chi le dice che vorrebbe assomigliarle e chi crede sia una follia «perché certe cose non si possono fare solo con una bicicletta». Invece sì, spiega Veronica, e aggiunge qualcosa: «Spero, con l'esempio, di dimostrare che una bicicletta può bastare, se davvero si vuole».

"Cara Biga", in realtà, non è una lettera, ma un progetto, un'idea di biciclette e di mondo, qualcosa che permetta di unire, di far incontrare attraverso la bicicletta. «Sai che spesso non mi ricordo neppure il nome delle persone con cui ho pedalato? Mi è successo qualche giorno fa, con un ragazzo, a Cesena: abbiamo parlato di tutto, cantato assieme. Non so come si chiamasse, ma ci siamo sentiti liberi. Conta questo, no?». E "Cara Biga" serve per questo: c'è l'idea di vivere un altro tempo in bicicletta, una velocità a metà tra la camminata e un'auto, quella perfetta per guardarsi attorno e vedere quel che non avevi mai guardato, pur avendolo sempre visto. Quando c'è qualcosa in comune, incontrarsi è più semplice. La bicicletta, poi, a quell'incontro può anche accompagnare. Per Veronica la Biga somiglia al suo cane, quella cagnolina che l'ha accompagnata per molti anni, in ogni cosa. È una compagna.
La salita? È follia, ci spiega Veronica, perché razionalmente non ci sono motivi per fare così tanta fatica, ma la si fa lo stesso e fa piacere farla. La discesa, invece, è musica, come il vento ed i suoi giochi mentre si scende. La discesa, però, è anche timore o almeno lo è stato: «Stavamo facendo una pedalata come tante, con amici. Dopo una salita, cantavamo contenti. Solo qualche secondo dopo, un amico è caduto, in seguito allo scoppio del tubolare. Uno spavento, grande, importante. Dopo quel giorno, ho pensato spesso a "Cara Biga", a questo progetto. Mi dicevo: "Io ho fatto questa scelta e chiedo alle persone di fare qualcosa di simile, ma guarda che rischio si può correre. Sto facendo la cosa giusta?”. Alla fine, mi sono detta di sì». Perché in ogni attività è insito un rischio e perché; comunque, la bicicletta non l'ha mai delusa, anche quando le ha fatto male, quando senza forze, infreddolita, in una giornata no, mentre voleva andare a vedere il mare, ha chiesto un passaggio ad un furgoncino dei netturbini.

Qualcuno non può raggiungerla e pedalare con lei, ma le scrive, basta una foto di un qualunque viaggio e "Ci sembra di essere lì, grazie" dicono tutti. Sì, perché, oltre a pedalare, raccontare un viaggio con una fotografia, Veronica è fotografa, o un video, permette di lasciare spaziare la mente anche di chi è altrove ed un viaggio così lo sogna.
E viaggiare in bicicletta è davvero diverso da ogni altro viaggio: basta pensare a una sera, in Liguria, qualche tempo fa. Veronica era in viaggio da giorni e quella sera si è resa conto solo troppo tardi di essere fuori zona rispetto al luogo in cui dormiva: «Era tardi, non potevo tornare dietro, dovevo cercare qualcosa nei dintorni. Ho trovato solo una stalla, con della paglia. Ho dormito su quella paglia e sapessi quanto ho dormito bene. Così bene da tornarci la sera dopo e da far colazione con il pastore, lì nei dintorni». È questa possibilità di adattarsi a renderlo diverso, perché, alla fine, si scopre che tante cose vorremmo davvero farle e chissà perché le evitiamo, quasi le allontaniamo. Sarebbe bello parlare di questo con quelle cento persone, arrivate da ogni dove, per festeggiare il compleanno di "Cara Biga", al promontorio di San Bartolo. Una biga per dare nuova forma alle cose, per non darle per scontate, per sforzarsi di guardarle da un'altra prospettiva, magari in compagnia. C'è tutto nella lettera di Veronica alla sua bicicletta e a tutte le biciclette che, in qualche modo, permettono la stessa rivoluzione. Simile al bruco che diventa farfalla, bella uguale. E, poi, in quella lettera ognuno può scrivere ciò che preferisce. Basta iniziare: "Cara Biga...".