I sogni fanno scalo in Sudafrica

Nel mezzo di una strada rossa, di quella sabbia che, ogni tanto si alza, con nulla all'orizzonte, su una bicicletta, alle sette del mattino, con già trenta gradi nell'aria, sugli occhi di Ettore Campana la crema solare colava assieme al sudore e bruciava, accecava. Dal nulla, però, un gruppetto di bambini africani rincorreva quella bicicletta: sandali rotti, pochi vestiti, spesso rovinati, ma grida forti. Talvolta unite in un canto di felicità, in un guizzo di energia proveniente da dentro, esploso fra le corde vocali e diretto in quella calura asfissiante, che pare luglio ma è la primavera del Sud Africa. Ettore sta in silenzio, le parole sono un pensiero: «Se loro hanno questa energia, come posso non averne io?».


In quell'esatto momento, nella mente di Campana era arrivata la certezza che, in quella telefonata con il primario di oncoematologia dell'Ospedale di Brescia, circa un mese prima, aveva davvero dato la risposta giusta, sebbene sembrasse una follia. Quel giorno, aveva spiegato che sarebbe partito lo stesso per il Sud Africa, anche se i tempi erano stretti, anche se non c'era molto modo di organizzarsi, per lui l'importante era che per i bambini ricoverati in ospedale quell'idea potesse portare un sorriso, un pensiero di libertà, di altrove, una fantasia, un sogno, per l'appunto. I problemi e tutto il resto sarebbero rimasti suoi, solo suoi. Del resto, non a caso il progetto si chiama "Scalo Sogni" ed è la continuazione di un altro viaggio, sulle Alpi, che già vi abbiamo narrato tempo fa. Un viaggio per motivare i bambini malati di tumore a restare forti, a credere nel futuro, a sapere che l'avventura li aspetta, che l'avventura esiste e può entrare a far parte delle loro giornate. Così il racconto dei ghiacci alpini diventa quello delle savane africane: attraverso un gruppo whatsapp e di persona, nelle stanze di ospedale.

La partenza è fissata per la metà di ottobre, il primo incontro qualche giorno prima: «Molti bambini non li avevo mai visti, qualcuno, invece, era ancora in quel lettino dai tempi del viaggio fra le Alpi: emotivamente bello e difficile incontrarli nuovamente. Hanno fatto molti disegni, a libera scelta, da donarmi per l'avventura. I soggetti erano spesso gli animali, la natura, anche una bandiera con la scritta pace e tanti cuori. Un'altra bandiera, quella italiana, è stata firmata da tutti quei bimbi nella parte bianca ed è venuta con me per essere firmata anche dai più piccoli fra i sudafricani sulla parte verde e su quella rossa dagli abitanti del Lesotho e della Swahili Coast». Quarantadue giorni di viaggio, trentacinque in bicicletta, circa 3200 chilometri percorsi. Attorno un'autentica tavolozza di colori; la primavera, dopo l'inverno piovoso, disegna campi verdi con fiori colorati, da un lato, e distese di fiori gialli dall'altro, si corre su strade mai pianeggianti, sterrate, gravel, lontano dal traffico, con un cielo blu acceso e nuvole che paiono dipinte. Si annusa il profumo dell'oceano che si percepisce anche senza vederlo: il vento forte lo trasporta ovunque, mentre rende l'aria tersa e limpida fra le fattorie dei paesi. «Se la natura potevo immaginarla, non avevo assolutamente idea degli incontri umani. Sapevo di una situazione sociale delicata: ho vissuto qualche attimo spiacevole, mai il pericolo reale. Tuttavia tutte le persone che incontravo e a cui dicevo che stavo affrontando un viaggio da Cape Town a Maputo mi chiedevano se non avessi paura, di non accamparmi, di non lasciare incustodita la bici e di non fidarmi di nessuno. Anche molti poliziotti me lo hanno raccomandato: sia nelle volte in cui ho dormito in caserma che quando mi hanno ospitato a casa. In realtà, mi sono fidato di molti e quella fiducia non l'ha tradita nessuno. Devo tanto a coloro che ho incontrato e che mi hanno aiutato».

Dapprima gli incontri sono casuali, magari al supermercato, come casuali sono le offerte di luoghi dove dormire, poi il passaparola è una catena che non si scioglie e si fa più forte da città a città: in questo modo ovunque c'è un parente di qualcuno pronto ad accoglierlo. Campana lascia spesso un link con il tracciato in tempo reale del suo viaggio, le persone lo seguono e gli segnalano dove andare a cenare o a dormire. Ben presto, ogni tappa è scandita così: da una cameretta, in mezzo alla campagna, al verde, in posti stupendi, con platani giganteschi, animali, cani, galline. Alla sera ci si ritrova tutti assieme a mangiare, a raccontarsi storie, con la nonna, magari con il pranzo al sacco già pronto per il giorno dopo. Qualche volta sono case di contadini, di agricoltori: nel giardino, con il bel tempo, si fanno grigliate, si sta insieme, si condivide tutto, persino l'essere stanchi, senza forze, sfiniti, come era Ettore, sul ciglio della strada, a Lesotho, quando una ragazza, vedendolo, gli ha offerto aiuto.

«Il gruppo whatsapp è servito per mantenere il contatto, anche quest'inverno, bastava la foto di una vetta per scatenare nei bambini la voglia di partire, di farcela. Mentre ero in viaggio, chiedevano di tutti gli animali che incontravo: scimmie, babbuini, struzzi, gnu, bufali, zebre, antilopi, kudu, giraffe, elefanti, facoceri, rapaci, uccelli, rettili ed insetti di ogni tipo, serpenti velenosi, ho persino avvistato balene. Per i bambini c'erano leoni ovunque da cui avrei dovuto difendermi, in realtà, pur se presenti, sono in delle riserve. Certo- sorride Campana- con quelle reti di recinzione così sottili non ci vuole nulla per uscirne. Tra l'altro, in certi punti, ci sono piante alte da cui un leopardo salterebbe come fosse niente. Eppure, chissà perché, i leoni restano lì». Nemmeno il vento furioso che non lascia tregua, che, talvolta, fa pensare di mollare tutto, di non farcela, ferma Ettore Campana, sono più forti le voci dei bambini che cantano fuori dalle scuole e le loro matite che donano disegni da riportare in Italia, all'ospedale di Brescia. Così, il 27 novembre, Campana farà ritorno a casa e, qualche giorno dopo in ospedale, a Brescia. Stanco, anche mentalmente, da un viaggio più difficile di quanto avrebbe pensato, senza attimi di riposo e relax completo, ma felice di essere partito nonostante le giustificate paure delle persone a lui più vicine.

«Quella bandiera piena di firme è, ora, appesa in reparto e dovreste vedere gli occhi con cui la scrutavano i bambini. Come dovreste vedere le mani ad afferrare i disegni donati e la loro curiosità. L'avventura è più viva che mai in loro, missione compiuta». Sì, missione compiuta, i sogni hanno fatto scalo un'altra volta.


La cargo bike e l'universo della bici che si amplia

23.03.1977 Segrate (Milano)

Alessandro Grisotto è un bambino, la primavera è iniziata da poco, papà sta tornando a casa. Alessandro non lo sa, ma papà è stato in un negozio di biciclette e fra poco gli porterà la sua prima bicicletta. I genitori conoscono bene i sogni dei figli e quel padre è certo che una bicicletta sia il desiderio più grande di quel bambino, da tanto, almeno da quando aveva cinque anni e inseguiva, piangendo, lo zio, non appena lo vedeva partire: lo zio gareggiava e il piccolo Grisotto avrebbe voluto accompagnarlo ovunque. Oggi è il giorno del suo decimo compleanno e non appena la porta si aprirà e papà entrerà con quella piccola Olmo, Alessandro gli correrà incontro e salirà subito in sella. Milano è grande ed in un pezzetto di strada, per molti giorni, ci sarà lui: avanti e indietro, a destra e a sinistra, su e giù, in bicicletta e a terra, qualche caduta, qualche sbucciatura. Milano è grande, sì, e un bambino è sicuro che con la sua bici potrà girarla tutta, sentendosi anch'egli grande, più vicino al mondo degli adulti, libero.

05.02.2023 Conegliano Veneto (Treviso)

«Mi sono rivisto bambino, a Milano, con quella Olmo, dopo tanti anni. A cinquantasei anni, è stato come se avessi tolto di nuovo le rotelle alla bicicletta: la prima volta che accade sembra di volare, sfidando le leggi della fisica. Mi sento quasi esagerato a dirlo, ma è vero: ho riprovato quella stessa sensazione. Di biciclette ne ho cambiate tante nel tempo e ogni volta è stato diverso, come oggi, però, mai». Più di quarant'anni dopo e una primavera un poco più lontana, questa volta è Alessandro Grisotto a tornare a casa con una bicicletta nuova: una cargo bike muscolare. Ci pensava da tanto, si guardava attorno, pensava che fosse un'evoluzione del settore delle due ruote che avrebbe voluto provare, dopo aver lavorato diversi anni nel mondo del ciclismo, aver fatto gare, aver viaggiato, poi rimandava, aspettava. Fino a quel giorno: «il più bello, almeno in bicicletta». Ancora più libero e forse un poco meno adulto, perché la bici fa sognare di essere grandi e fa tornare bambini, quando grandi si è già diventati.

Due date, due prime volte e Alessandro Grisotto che, dall'altra parte del telefono, continua a parlare, alzando e abbassando la voce, come quando ci si emoziona: «L'altro giorno ho accompagnato la mia figlia più piccola, otto anni, dal dentista, a Vittorio Veneto: da Conegliano sono circa trenta chilometri ad andare e trenta a tornare. Si è divertita moltissimo, in mezzo alle colline, come fosse una gita ed, in effetti, un poco è stata una gita, mentre stavamo facendo qualcosa di necessario. Capisci?». Questo è un punto importante nel racconto di quello che rappresenta una cargo bike. Quando correva, Grisotto non avrebbe mai immaginato una bicicletta simile: allungata, pesante, in un certo senso "strana". «Credo sia la parte più estrema della libertà in sella. Su questa bici viaggi ad impatto zero, hai spazio per la compagnia e anche per tutto quel che può servire, che siano attrezzi oppure un sacco a pelo ed una tenda. La chiamo indipendenza e già questa è una componente decisiva in un viaggio, ma c'è di più. Sì, perché la cargo bike unisce la quotidianità più comune, portare un figlio a scuola, andare a fare la spesa, sbrigare una commissione, andare al lavoro, alla possibilità di conoscere luoghi e, perché no, di viaggiare, persino di scalare una montagna».

E Alessandro Grisotto può ben dirlo, lui che su quella cargo bike ha scalato il Cansiglio, il Monte Grappa, il San Boldo, fino ad arrivare allo Stelvio, con il suo amico Andrea, una vetta iconica, su cui ha portato altri appassionati come lui, in una sorta di sfilata di queste bici, mentre tutti guardano incuriositi. Poi lassù, a mangiare pizzoccheri, contenti. Grisotto pensa anche al Nivolet, proverà a scalarlo la prossima estate, ma pure al Mont Ventoux e, forse, anche allo Zoncolan: «In bicicletta mi sono detto che non lo avrei mai fatto, ma in cargo bike chissà. Può sembrare una follia, però mai dire mai».

«Forse sto esagerando, perché la cargo bike non è nata per fare quello che io provo a farle fare, tuttavia è un messaggio: a me è venuto naturale provare e mi sembra giusto raccontarlo. In molti mi chiedono consigli, io dico di sperimentare. Il senso è: con una bici si possono fare tantissime cose, è un peccato non scoprirlo». Sarà per le tante gare che ha corso, sarà per la quotidianità che, spesso, non lascia spazio alla solitudine, ma anche pedalare da soli regala qualcosa di raro: si pensa, si immagina, si inventa, si cambia idea, ci si promette qualcosa. Così è arrivato il progetto di correre la Seven Serpents in cargo bike e di partecipare alla Veneto Gravel, per l'occasione denominata Veneto Gravel Cargo Ride, nel 2024. Tutto all'insegna del divertimento, un sottofondo costante. «Sono convinto che non conosciamo abbastanza questo mezzo, è sufficiente far caso al volto alle persone che ti fissano per strada. Ti fanno i complimenti e almeno un paio di domande: "A cosa serve? Dove si trova?"».

Alessandro spiega, lascia tutte le informazioni necessarie e riflette sul fatto che un domani gli piacerebbe rendersi utile in prima persona per chi volesse provare una cargo bike. Il verbo non è casuale: «Bisogna provarla e prenderci la mano, perché è diversa da guidare rispetto alla bicicletta classica. Serve pratica e continuità, alla fine non si vuole più scendere».

Altro tema è quello del costo, decisamente elevato, che rischia di allontanare anche chi vorrebbe sperimentare. La soluzione c'è: in Germania, in Olanda ed in Inghilterra sono già attivi i noleggi operativi, per ogni modalità di utilizzo, mettendo sempre al centro la lentezza dello spostamento, che cambia proprio la prospettiva di ogni viaggio, breve o lungo che sia. Probabilmente presto arriveranno anche in Italia e l'universo della bicicletta si amplierà ancora un poco, ci saranno nuovi inizi, nuovi luoghi in cui portare una cargo bike e nuove cose da fare: «Il resto è difficile da raccontare, possono dirlo i miei figli che vedono tutti i giorni quel che significa per me quella bici bislunga che ho tanto desiderato. Quel che non può narrare si definisce indescrivibile, giusto? Ecco, per me la bicicletta è indescrivibile». Scusate se è poco.


Race Against Cancer: fino in vetta al monte Grappa

L'hanno chiamata RAC, è sostenuta da LILT, significa Race Against Cancer e nasce da quel che un essere umano e una bicicletta possono fare: partire. Partono gli amici, assieme, partono così, da Massa, ad inizio ottobre, Andrea Pepe, Marco Della Maggiora e Massimiliano Frascati diretti verso le pendici del Monte Grappa, verso il sacrario dei caduti, per sensibilizzare alla lotta contro i tumori e promuovere uno stile di vita sano. Si tratta della terza edizione dell'evento ed il vissuto dei due precedenti resta nel racconto: «Potrei parlarti del mio babbo, della mia esperienza personale- narra Andrea- in realtà ognuno di noi potrebbe aggiungere qualcosa perché purtroppo tutti o quasi abbiamo conosciuto almeno un pezzetto di quel dolore, di quella sofferenza. In questi giorni in bicicletta ne abbiamo avuto la conferma».

Quel giorno nei dintorni di Modena, ad esempio, quando, da una strada sbagliata, è nato un incontro con un gruppo di vecchietti: qualcuno raccontava di aver corso con Moser, altri, appena conosciuto il progetto, si sono prodigati in indicazioni stradali per arrivare più velocemente ed in sicurezza da un luogo all'altro, da una città all'altra, magari anche ammirando un paesaggio mai visto prima. Oppure quando una signora, a Bassano del Grappa, vedendoli pedalare e, poi, sentendo raccontare, si è commossa, proprio a colazione, iniziando a sua volta a parlare, a spiegare. Marco prende la parola: «L'idea è quella di portare un momento di leggerezza anche alle famiglie delle persone malate, perché la loro vita cambia ed è difficile, molto difficile. Talvolta basta una boccata d'aria, un giro dell'isolato, qualche parola nuova, per riprendere fiato ed essere pronti ad affrontare una nuova giornata. Noi cercavamo sempre di avere un sorriso per chi incontravamo e quel sorriso ci tornava sempre indietro». Ognuno con le proprie caratteristiche, di regione in regione, di paese in paese.

Il Monte Grappa non è una destinazione casuale: si pensa ai caduti della guerra mondiale, si pensa alla parola "combattere". «L'unica via contro queste malattie è la scienza, la medicina, gli ospedali ed i medici. Spesso la sanità è sacrificata, anche su questo è necessario accendere un riflettore. Noi proviamo a farlo tramite lo sport». Andrea è anche il fotografo di questo viaggio e l'istantanea fotografica del progetto ce la fornisce proprio lui, mentre ci dice che gli piacerebbe che questa avventura fosse ricordata come quei tramonti in cui, assieme agli amici, chiacchierando, si percorre un lungo viale, magari con una birretta in mano ed i colori tenui della sera: «Quei momenti in cui ti dici: “Vorrei essere anche io lì. Semplicemente stare in gruppo, in compagnia, senza frizioni, con piacere». Sì, perché serve talento anche per stare in gruppo, per tenere le ruote: «Non è una gara, non c'è il primo e non c'è l'ultimo, noi aspettiamo tutti, andiamo assieme. Certo, ognuno ha messo la propria fatica, per innescare la pedalata, per scalare una salita o disegnare una curva in discesa, ma accanto ci siamo tutti, ci sono tutte le persone che ci vogliono bene, gli amici. Nella malattia dovrebbe succedere lo stesso». Ogni giorno qualcuno gli dice: "Bravi, bisogna parlarne, continuate così, fatelo anche per noi". La soddisfazione di fare qualcosa di utile, qualcosa che può aiutare, in questo caso va di pari passo con una riflessione importante che Marco e Andrea condividono: «A volte sembra ci sia una sorta di timore nel fare il primo passo, nel parlare di queste cose. Certamente è comprensibile, ed ascoltare è già un passo fondamentale per non sentirsi soli, allo stesso tempo però è necessario farlo, perché la strada è iniziata ma è lunga».

Sì, lunga come la salita al Monte Grappa, al sacrario, con tutte le volte in cui alla mente si potrebbe affacciare l'idea di lasciare perdere, perché, in fondo, è così che talvolta si reagisce di fronte alle difficoltà: «La nostra, in fondo, era solo una salita in bicicletta ma a mollare, a tornare, prima di essere arrivati lassù, non ci abbiamo mai pensato. Vorremmo spronare chi sta soffrendo per una malattia a non farlo mai. Intorno avrà sempre il suo gruppo, a sostenerlo». E si torna un poco indietro nel tempo, attraverso la lentezza della bicicletta, nel muoversi, nell'attraversare il paese, «come facevano i nostri nonni, senza tutta la velocità in cui siamo immersi, che ingloba anche i sogni di ciascuno di noi»: fino al silenzio da cui si resta avvolti al sacrario, soli con i propri pensieri. Tra le foto di Andrea Pepe, una mostra una mucca, tranquilla, in un paesaggio montano. e Andrea, tra tutto quello che ha visto, questo non riesce proprio a toglierselo dalla testa: «Un apparente contrasto con quello che viviamo noi come esseri umani, un elemento di relax a cui provare a guardare in certi istanti». Così Marco Della Maggiora, Andrea Pepe e Massimiliano Frascati, tornati a casa, sono ancor più sicuri che questo progetto vada preservato, rinnovato, anche nei momenti in cui sarà più complesso. Allora bisognerà aspettare quella voce che grida «non mollare», anche quando non si vede la fine: «Non mollare, insisti, è l'unica possibilità che hai».

Foto: Andrea Pepe


Ci andiamo in bici?

Da ragazzino, diciamo tra i sedici ed i diciotto anni, quando ancora viveva vicino a Taranto, in un paesino, Frank Lotta voleva il motorino: il Piaggio SI, quello su cui molti giovani giravano in quel periodo. Lo chiese a papà: «Mi disse di no, almeno per quel momento. In realtà, il motorino non me lo comprò mai, però avevo la bicicletta, la mia bicicletta per andare da paese a paese con gli amici. E come si faceva? Come si diceva per organizzarsi e partire? Spesso bastava un "ci andiamo in bici?". Li risento ancora oggi quei "ci andiamo in bici?" e sono importanti per me».

Di più, per Frank Lotta quella frase è determinante e l'entusiasmo con cui ce la analizza, ce la racconta, quasi come fosse un prezioso testo letterario, è da ricordare: «Sì, è determinante. Ma ti immagini se ci dicessimo quelle poche parole ogni volta in cui andiamo al lavoro, ad incontrare un amico, magari a mangiare un panino ed a bere una birra? Se quella fosse la proposta o l'invito di ogni giornata, il proposito dietro le cose più semplici? La realtà è che non potrò mai spiegare in maniera esauriente quella frase perché è già così ricca, così piena, che l'essenza è lì e solo lì. Ogni parola che aggiungiamo, toglie». Silenzio.

"Ci andiamo in bici?" è divenuto così il titolo di un programma vodcast, in sei puntate, una ogni lunedì, a partire dal 9 ottobre, su Mediaset Infinity, in cui, in sella alla propria bicicletta, Frank Lotta si reca dai propri ospiti, mettendosi in dialogo ed in ascolto ed interrogandosi sulle possibilità di uno sviluppo sostenibile che non penalizzi le future generazioni, magari attraverso una filosofia di vita più rispettosa dell'ambiente. E Frank scherza: «Perdonami, ma qui ci sta bene la sincerità più schietta. Dovevo andare a Torino, a Bologna, a Roma, ma non sono un ciclista professionista. La mia regola in bicicletta sono le pause in cui guardo, osservo, fotografo, faccio un video del luogo in cui mi trovo. Quanto tempo ci avrei messo? Chissà. Allora ho scelto di coniugare la bicicletta con un mezzo elettrico, un'auto elettrica. Cosa ho scoperto? Che tracciare un itinerario e poi percorrere cinquanta, settanta chilometri, attorno allo stesso centro è una scoperta continua. Forse non dovrei dirlo, forse è banale, invece lo ripeto. Su quella bicicletta ho scoperto cose che nemmeno immaginavo». Una delle prime scoperte ha a che vedere con la gioia.

«Stai solo pedalando, eppure è come se ti fossi messo parrucca e naso rosso da clown e girassi per le strade in cerca della felicità. Stai solo pedalando ma chi pedala come te ha voglia di starti accanto per un tratto di viaggio, chi ti vede ti guarda, si avvicina, ti chiede se è tutto a posto. In Australia, qualche anno fa, ho capito che in sella non sei mai solo: nemmeno se ti trovi in mezzo alla strada con la bici rotta. Qualcuno arriverà, ti chiederà, ti aiuterà. Si può diventare felici in sella, è un lasciapassare per la gioia». Allora si va in bici, certo, ma da chi si può andare per capire, scoprire, imparare? La guida deve essere la curiosità e l'ispirazione la cultura: se si è curiosi si ha il desiderio di ascoltare e di imparare, chi sa, invece, può spiegare. Dopodiché il segreto è ascoltare, riflettere. Ascoltare Paolo Cognetti che racconta le montagne, Mariasole Bianco che parla della conservazione dei mari, Mia Canestrini che narra la biodiversità animale, Luca Parmitano che porta alla scoperta dell'esplorazione spaziale, Luca Mercalli che indaga il cambiamento climatico e Nicola Armaroli che si occupa di transizione energetica.

Frank Lotta era con ognuno di loro e per descrivere quel che è stato questo viaggio adotta un paragone che resta impresso: «Immagina Marco Pantani che scala il Mortirolo come sapeva farlo lui, immaginati quella sensazione. Luca Mercalli trasmette la stessa cosa, seppur in un altro ambito». Le domande scavano, provano a svelare realtà complesse, molto complesse, e Lotta deve fare i conti con una realtà ineluttabile: ciascuna di quelle frasi affermative e certe, almeno per chi le pronuncia, che sentiamo tutti i giorni, del tipo in realtà il cambiamento climatico non esiste, per essere smentita richiede minuti e minuti, argomentazioni e argomentazioni. «Anche se sono false, anche se non hanno motivo di esistere, quel tempo serve ed è giusto prenderselo. "Il cambiamento climatico non esiste, le auto elettriche non aiuteranno la transizione": parlo di queste parole che gli esperti sviscerano, vanno indietro nel tempo e, di analisi in analisi, portano prove, motivazioni».

Anche perché, e Frank Lotta lo spiega bene, in molti casi loro hanno visto con i loro occhi quel che spiegano: sono fatti, non supposizioni. «Luca Parmitano me lo ha detto: “Ma io ho visto dalle stazioni orbitali i deserti che aumentano, ci sono le foto. Come si può dire che non è vero di fronte a questo?"». Se lo chiede Parmitano e se lo chiede anche Frank Lotta mentre ne parliamo: certo è necessario un cambiamento planetario per provare a cambiare davvero qualcosa, ma le piccole abitudini, i comportamenti che ognuno di noi adotta, possono già essere importanti.

Luca Mercalli lo ha spiegato così: «Prendiamo l'esempio di un corpo ammalato, non importa tanto la malattia ai nostri fini, importa il fatto che il nostro corpo sta male, che noi stiamo male. In questi casi, si fanno degli esami clinici e, una volta individuato il problema, ci si cura per risolverlo. Il pianeta sta male, è nella stessa condizione. Il problema non è irrisolvibile, però bisogna muoversi per risolverlo. Bene, chissà perché, di fronte a questo malessere, invece di scegliere di curarci, scegliamo di ignorarlo».

Probabilmente perché, come esseri umani, facciamo fatica a percepire la pericolosità nel momento in cui non si presenta a livello personale, quindi, è verosimile, che si arrivi a comprendere il pericolo solo quando sarà irreversibile e questo è assurdo, anche perché, come aggiunge Luca Parmitano, «non è solo a rischio l'esistenza di un pianeta, è a rischio la nostra esistenza, come esseri umani. Che lo vogliamo o no, la situazione ci tocca direttamente». Tra l'altro, come precisa Paolo Cognetti, non è nemmeno detto che qualcosa si faccia nel momento dell'irreversibilità della situazione, perché l'essere umano è estremamente adattabile ed il rischio è che riesca a ritagliarsi una sfera protetta anche in un ambiente ingestibile. Una prospettiva apocalittica, da considerare, tuttavia.

Frank Lotta trova nei giovani un seme per sperare nel cambiamento, non in tutti, magari, non sempre, ma senza dubbio lì c'è una possibilità: «Io mi sono commosso quando ho incontrato per la prima volta i ragazzi dei Fridays For Future perché guardavano oltre le loro giornate, la loro quotidianità, avvertivano la preoccupazione per qualcosa di più grande e se ne occupavano. Se penso ai miei quattordici anni, non avrei avuto questa forza, questa volontà». Si parla di elettrico, che, attualmente, è una possibilità per ridurre le emissioni di CO2, un domani chissà, magari ci sarà altro, e si torna a parlare di quella bicicletta «di raggi, ruote, catene, pezzi di ferro, che non possiamo non usare, che per me è stata una vera e propria folgorazione, quando ho iniziato ad avvertire un senso di colpa profondo per l'ambiente. Allora sono arrivati i viaggi, perché è questo il bello: non solo si risparmia qualche quattrino, non solo si può andare più veloci o più lenti, ma si può essere felici, come me quando passo da Piazza Duomo, a Milano, in sella, quando sto nel silenzio con lei o quando arrivo dove non potrei arrivare con nessun altro mezzo. La bicicletta mi ha fregato, me ne sono innamorato». Allora sì, andiamoci in bici.


In bicicletta in Irlanda: l'avventura di Pietro Franzese

Il Royal Canal era sempre stato lì, a Dublino, sfiorato dai raggi del sole. E chissà da quanti giorni, sulla superficie delle sue acque, affiorava quel telaio di una vecchia bicicletta. Chissà quante persone, passando di lì, saranno rimaste colpite da quell'oggetto che brillava alla luce del sole, chissà quante saranno state tentate di capire cosa fosse, di prenderlo, di portarlo a riva. Pietro Franzese viveva proprio a Dublino in quei giorni, ma, nella sua camera, al seminterrato, la luce quasi non arrivava e il Royal Canal era poco più di un'idea. Eppure, quasi per un gioco del futuro, a trovare quel telaio, a portarlo a riva e a prendersene cura, ad assemblarlo, fu proprio lui. Poi, si sa, le coincidenze sono una cosa seria, così Franzese ha iniziato a viaggiare in bicicletta: è arrivato a Capo Nord in scatto fisso, ha attraversato gli Stati Uniti durante la USA Coast to Coast, ma in Irlanda, in sella, non è mai tornato, almeno fino allo scorso mese di settembre.

Sì, tornato, perché Pietro soprattutto voleva tornare. «Al termine delle scuole superiori ero partito per l'Irlanda per continuare a studiare ed imparare l'inglese. Ero da solo, pagavo l'affitto e lavoravo in un "food bank", un banco alimentare. Essendo un'esperienza di volontariato vivevo realtà difficili, spesso di sofferenza, ma non ho mai visto una persona triste, arrabbiata con la vita, con gli altri. Mi sono interrogato spesso su questo fatto». Ora capiamo meglio quell'espressione che Pietro ripete spesso durante l'intervista: «Sono un popolo eccezionale». Ora capiamo meglio il suo tono, quando parla dei luoghi e delle persone: «Si tratta di una terra che ha vissuto la povertà per anni e lo ha fatto con una dignità enorme. Sarà per questo che, in quelle strade, non ci si sente mai soli, pur essendolo. Hanno un forte senso della compagnia, dell'accoglienza». Infatti, anche mentre si è seduti al tavolo di un pub, dei signori si avvicinano, offrono una o due birre, un bicchiere di whisky, quattro chiacchiere, magari una partita a biliardo o una cantata al karaoke: «Il prezzo della Guinness è fisso a 4,80 euro. Era così nel 2014, è così oggi. L'Irlanda non è cambiata, è come me la ricordavo. C'è meno verde, forse, almeno a Dublino, ci sono più palazzi, più case, ma l'atmosfera è la stessa. Mi hanno addirittura accompagnato a vedere una partita di calcio gaelico e si notava che erano felici che fossi con loro».

Franzese voleva tornare ed è tornato, in bicicletta: dal 31 agosto al 28 settembre, percorrendo 2300 chilometri, lungo la Wild Atlantic Way e la Causeway Coastal Route. L'occasione è stata legata al decimo anniversario della Wild Atlantic Way che Pietro Franzese ha voluto raccontare attraverso foto e video per l'ente del turismo locale: «La via è sempre esistita. Selvaggia, certamente, ma popolata. Lontana, ma nemmeno troppo e, soprattutto, facile da percorrere, ben segnalata, con cartelli che indicano la direzione, su asfalto. Mi piace immaginarlo come primo viaggio di un ragazzo o di una ragazza che stanno scoprendo il piacere di pedalare». L'equilibrio di una bicicletta, in Irlanda, è un equilibrio nel verde: dal verde scuro, denso, a quello così chiaro da ricordare l'acqua dei Caraibi. La sabbia è bianca, l'acqua turchese, il rumore dell'acqua che si infrange sulle scogliere è tanto bello quanto ipnotico: quella spuma bianca, guardando giù, è davvero ipnotica, lascia un senso di vertigine, di paura, quasi.

«Nelle notti in tenda si sentiva l'umidità proveniente dall'oceano. I primi dieci giorni mi hanno meravigliato con un meteo incredibile: non una goccia d'acqua, un cielo azzurro intenso, incontro a cui correvo veloce, cercando di non perdermi nulla. L'applicazione del cellulare con il meteo sempre sotto controllo, perché le piogge di settembre sono arrivate». Gli occhi di Pietro Franzese vedono il tipico paesaggio irlandese: muretti a secco, campi, verde, pecore ovunque, oceano a lato, una striscia di asfalto, un'erba tenera nel mezzo, una collinetta verso l'orizzonte e le case di un bianco acceso.

«Tutti si fermano a salutare, anche dalle auto, dai trattori. Ci si sente sicuri in sella, non si ha timore. Un giorno, una macchina mi è passata accanto, in quell'istante, un sassolino ha colpito la carrozzeria dell'auto. L'autista si è subito fermato: ha verificato cosa fosse accaduto, si è preoccupato per me, temeva di avermi, in qualche modo, danneggiato. Una forma di attenzione, di cura, che fa bene». Nelle soste ad una qualunque gas station, chi incontra un ciclista chiede dove stia andando, cosa voglia vedere, magari lascia qualche consiglio. La routine di Pietro Franzese prevede un risveglio lento, prendendosi tutto il tempo che serve prima di partire. Anche in città non si avverte il consueto senso di fretta che si vive, solitamente, nei centri abitati.

La mattina ha il sapore tipico della Full Irish Breakfast: uova, salsiccia, pomodori, funghi. In quel piatto, magari gustato in spiaggia, c'è tutta l'energia della giornata. Il brown bread è il pane più consumato, mentre il pane bianco è più difficile da trovare. Della birra si "mangia" quasi la schiuma, il salmone ha un colore intenso, un sapore mai provato prima: «Ho scoperto viaggiando che, in quelle terre, il salmone, fino a non molti anni fa, era considerato un cibo per poveri, al contrario della tradizione che lo associa alle classi più benestanti».

Si può pedalare lentamente, gustandosi l'attimo, entrare in un pub e chiedere la zuppa del giorno, "soup of the day", che cambia per l’appunto ogni giorno, che ha ingredienti diversi, ma è un omaggio all'ospitalità, all'accoglienza. Una zuppa calda, da gustare da mezzogiorno a mezzanotte, dopo aver preso il vento in faccia e respirato a pieni polmoni, nella verde Irlanda, in cui ci si sente benvenuti. Quando si arriva o quando si torna, come ha fatto Pietro Franzese.


Teatro a pedali, ovvero dove si recita, dove si pedala!

Daniele Ronco parte da nonno Michele e, del resto, non potrebbe che partire da lui, «un uomo da cui ho imparato a vivere, senza orologio, senza televisione e senza telefono, viveva al ritmo delle stagioni, sapeva l'orario in base alla luce nel cortile, e conosceva i valori importanti».

Anche grazie a nonno Michele, Daniele ha tolto le rotelle dalla sua bicicletta a soli due anni e mezzo. Daniele che, in sella, è uno scalatore, Daniele che viene da Cumiana, una piccola borgata in cui tutti si conoscono, e, fin da ragazzo andava a scalare le vette lì intorno perché amava il senso della sfida, Daniele Ronco che, di lavoro, fa l'attore e, a teatro, ha portato la bicicletta, anzi, le biciclette, trasformandolo di fatto in un teatro a pedali.

Una quindicina di biciclette e gli spettatori che sono invitati a pedalare per illuminare il palco: «Qualcuno, quando sa che bisogna pedalare, si pone dubbi, altri vengono apposta, anche solo per curiosità, altri ancora capitano quasi per caso, con amici, e vogliono provare. Le reazioni sono varie e molteplici: poco tempo fa, sono andato personalmente a complimentarmi con due ragazzi che avevano pedalato, senza sosta, per tutto il tempo dello spettacolo. Mi hanno incuriosito e ho voluto salutarli di persona». Nonno Michele, forse, aveva qualcosa di quei ragazzi: alla sua bicicletta, infatti, non avrebbe mai rinunciato. Daniele gli ha dedicato un monologo: "Mi abbatto e sono felice": il primo monologo a impatto ambientale zero, scritto proprio dopo la sua scomparsa.
«I nonni sono speciali per tutti, così, mi è capitato di pensare che Michele fosse così unico soprattutto perché mio nonno. In realtà, spesso, in paese, qualcuno mi ferma e mi dice: "Com'era bravo tuo nonno". Allora ho capito che nonno non ha segnato solo la mia crescita, ma quella di molte persone che ha incontrato nelle sue giornate e lo ha fatto, semplicemente, con l'esempio e anche con la sua bicicletta. Geniale e carismatico». L'idea del teatro a pedali viene da nonno e da un documentario che Ronco ha visto non molto tempo fa: la storia di un ingegnere belga che aveva scelto di ridurre dell'80% il suo impatto ambientale sul pianeta.

Questo ingegnere era consulente energetico e aiutava le aziende a contenere le loro emissioni inquinanti: nel suo piccolo, in ufficio, alimentava la corrente necessaria a far funzionare il computer grazie a una cyclette. «Credo sia molto sciocco non avere cura del pianeta in cui viviamo, della nostra casa, in fondo. Non averne rispetto è deleterio ed è un messaggio da comunicare e da comunicare in maniera giusta. Io faccio l'attore e posso raccontarlo attraverso uno spettacolo. La mia azione concreta, perché serve un'azione concreta in queste cose». Così se il monologo c'è, è anche merito del pubblico che, mentre ascolta, pedala e fa fatica.

«Fatica è una bellissima parola. Almeno per quanto mi riguarda è un ingrediente importante della vita. La fatica della mente, forse, può essere tossica, quella del corpo è buona, è sana. Anche nel teatro si usa la fatica, si consiglia di correre, di fare fatica, prima di scene importanti, perché, così facendo, si entra maggiormente nella parte, ci si immedesima, perché la fatica toglie tutto quel che non serve, che è inutile. La fatica ha a che vedere con la realtà, con la verità». Per questo, nelle montagne che ha sempre scalato Daniele, salire è sempre stato il momento più bello «perché, in quel momento, si è esattamente, quel che si è, senza filtri, e saperlo è importante per ogni sfida della vita». La bicicletta è cambiata nel corso degli anni, cambiata moltissimo negli ultimi trent'anni, ma, in fondo, ha mantenuto i caratteri fondamentali, quelli che la rendono bella, importante, quelli che la rendono un mezzo di cambiamento o, per quanto, un mezzo che permette il cambiamento.

Daniele Ronco è certo che sia proprio la bicicletta a risvegliare una voce dentro di noi: la voce di tutto ciò che vorremmo fare ed invece non facciamo: «Sai quel sentimento negativo che alcune persone manifestano quando incontrano ciclisti? Si tratta del senso di colpa. Nella nostra interiorità, tutti sappiamo che dovremmo usare maggiormente la bicicletta, che farebbe bene a noi stessi e alla terra in cui viviamo, quando non lo facciamo, il senso di colpa si manifesta anche così, quasi respingendo la bicicletta. Il sentimento negativo di cui parlavo è qualcosa di spesso inconsapevole». A questo si aggiunge il fascino del motore, un tema che si è sviluppato soprattutto con il periodo del boom economico, con la sua cultura: una cultura di cui risentiamo ancora oggi.

La bicicletta che usa in scena Daniele l'ha trovata nel garage del nonno, insieme a tante altre cose che custodisce: è una vecchia Bianchi. Pedalare da solo non bastava, per cambiare le cose bisogna essere molti, così Ronco pedala con chiunque lo vada a vedere, ad ascoltare. Così questo racconto termina com'è iniziato, con nonno Michele, senza orologio, televisione e telefono, con la luce del sole ad indicare l'ora e una bicicletta che, a teatro, accende le luci e si va in scena. Daniele Ronco è pronto!


Scalo sogni: cosa può fare una bicicletta

Il viaggio di Ettore Campana è iniziato come quasi tutti i viaggi: dalla mente e dalla fantasia. Ettore, trent'anni, di Brescia, forse, non avrebbe nemmeno pensato che quell'idea sarebbe potuta diventare reale e, fino ad un certo punto, pareva non ci fossero neppure le condizioni per realizzarla o, quanto meno, per realizzarla proprio come l'aveva immaginata. Fino a che, un giorno, dopo aver rimandato più volte, Campana si è detto quel che spesso ci si dice, o ci si dovrebbe dire, quando si sceglie di partire: «Inizio il viaggio e, sulla strada, scoprirò il resto, lo affronterò». La frase che rompe gli indugi e porta in sella. Anche perché, il viaggio di Ettore Campana non appartiene solo a lui: l'idea è quella di un progetto dedicato ai bambini ricoverati nel reparto di Oncoematologia pediatrica dell'Ospedale di Brescia, per spronarli, attraverso un'avventura, a credere in loro stessi, nella possibilità di andare oltre i momenti difficili, facendo leva sul buon umore. Un'avventura perché ai bambini l'avventura piace, perché leggono avventure, sognano avventure ed un'avventura perché si scalano montagne, con solo una bicicletta su cui è fissata l'attrezzatura completa da alpinismo e scialpinismo.

«Quando sono andato in ospedale a trovare i bambini ricoverati, ho raccontato del mio viaggio e di quelle vette a cui sarei arrivato: ho visto come mi guardavano, anche la loro mente aveva iniziato a viaggiare. Le bandierine che ho portato con me sono servite ad alimentare quel viaggio: i bambini le hanno firmate tutte, sapendo che la loro firma, il loro nome, sarebbe venuto con me in cima, che anche loro, in un modo o nell'altro, avrebbero partecipato a questa scalata e così è stato. Sui monti, quelle bandierine sventolano ancora». Il messaggio è chiaro: come Ettore ha conquistato le vette, insistendo, sopportando la fatica e continuando a crederci, così devono ricordarsi di fare quei bambini nella quotidianità. Non è un caso il nome "Scalo sogni": scalo è il luogo in cui si approda, in cui si raggiunge la meta, finale o provvisoria: qui approda un uomo e approdano i sogni di chi, almeno con la mente, lo accompagna nel percorso. In totale, Ettore Campana percorrerà 2800 chilometri, di cui 2450 in bicicletta, con un dislivello totale di 37500 metri, con sedici colli alpini saliti in bicicletta, tra cui Stelvio, Gran San Bernardo, Forclaz, Cormet de Roselend e 33 cime scalate: il tutto in due mesi, dal 15 aprile al 13 giugno, tra Italia, Svizzera e Francia.

Il filo conduttore è stata la fatica che, ci spiega Campana, è la sensazione attraverso cui le cose restano: «Se togli la fatica, togli l'essenza. Credo sia importante il senso di fatica in quel che viviamo, nell'esplorazione del mondo, a piedi o in bicicletta, altrimenti sembra tutto scontato e le cose scontate non si fanno ricordare». Le scalate, all'inizio, sono qualcosa di lontano, a cui non si pensa, se non come possibilità, è il cervello umano a concentrarsi su pochi traguardi alla volta, a vedere solo una parte del tutto, soprattutto quando il tutto è così grande: «Pensavo solo a godermi il paesaggio ed ogni pedalata, almeno nei primi giorni. Ho imparato anche a fare così, perché le prime volte prevale la fretta di arrivare ed il resto si dimentica. Invece il percorso va valorizzato, come è da valorizzare la bicicletta, bisogna capire che mezzo straordinario sia e quante cose possa fare, quanto possa aiutare, essere d'ispirazione».

Il gruppo whatsapp creato da Campana ed i contatti continui con i genitori ed i bambini sono stati un modello a cui ispirarsi: «I bambini volevano sapere dove mi trovavo, volevano vedere foto e seguire il percorso delle bandierine firmate prima della partenza: è lo spirito di gruppo, il sentirsi parte di un progetto, il condividere un obiettivo e una meta, che incoraggia entrambe le parti nel loro tragitto. Un grosso aiuto, quando si è in difficoltà». Mentre si è ospedale, oppure mentre si sta scalando una montagna: «La conquista di una vetta è un tema delicato. Spesso si parla di "conquista dell'inutile" perché, se ci pensiamo, cosa resta dopo la discesa? Sembrerebbe effettivamente un vuoto, dopo il raggiungimento di quel che si desiderava. Non lo è: grazie all'abnegazione e alla fatica, quel percorso permette di crescere e cambiare. Se si è fortunati, anche di cambiare un poco, magari alleggerendola, la realtà di qualcuno che sa di quella scalata, di quella vetta raggiunta».

Ettore Campana se ne è reso conto quando, al ritorno, in ospedale, in una stanza, sono state proiettate le immagini ed i video della sua avventura: «Anche gli infermieri ed i dipendenti dell'ospedale mi hanno ringraziato. Hanno detto che il pensare al mio tragitto ha reso più piacevoli le loro giornate in corsia. Ho visto genitori che, grazie a quel gruppo whatsapp, hanno iniziato a conoscersi, a parlare dei figli, a sentirsi meno soli ad affrontare un periodo buio. In fondo, è incredibile che solo con una bicicletta e tanta forza di volontà accadano queste cose. Sì, incredibile, ma vero». Serviranno altri giorni, perché Campana realizzi tutto quel che è stato il suo viaggio. Di certo, lo scalo sogni, l'approdo, è raggiunto.


Cara Biga, come una lettera alla bicicletta

Se Veronica Santandrea dovesse scrivere una lettera alla bicicletta, la inizierebbe come si iniziano di solito le lettere: "Cara Biga..." e via di parole in parole. Cara come "Cara" di Lucio Dalla, come quel verso "tu corri dietro al vento e sembri una farfalla", perché a lei la bicicletta pare davvero così. Biga, invece, è il nome che, a Bologna, la sua città natale, danno alle biciclette. Di più, dire Biga vuol dire parlare dell'insieme di tutto quel che di Bologna non le piaceva più, quando è partita per Torino, per lavoro, e di tutto quello che ha riscoperto, al ritorno, una mattina presto, salendo al San Luca.

«Per noi è scontato che ci siano i colli e le strade strette bolognesi, quasi soffocanti, tanto che a Torino volevo dimenticarle, attraverso i viali ampli della città piemontese. Il giorno in cui ho scalato il San Luca in bicicletta, in vetta, senza fiato, ho chiamato mia madre piangendo e gridando: "Ho fatto il San Luca". Quasi mi appartenesse. In quei momenti ho rimesso assieme passato e presente, ho trovato un altro modo di vedere questa città in cui ora vivo». Ma ritornando alla lettera, continuerebbe con una frase semplice e decisa: «Mi hai salvato e mi salverai».
E Veronica parla della bicicletta in generale. Sì, della "Ravaldona", come la chiama lei, la vecchia Graziella con cui girava le vie di Bologna da ragazza, «un cancello pesantissimo, fidati», e di ogni altra bicicletta che ha avuto e che avrà. «Ha curato una difficoltà che ho sempre avuto: mettere radici. Farsi terra e paese, come avrebbe detto Cesare Pavese. I miei genitori hanno sempre viaggiato molto e le mura di casa, per me, sono sempre state una costrizione. La bicicletta mi ha permesso di trovare la mia casa diversa: accetto le radici perché so che posso riprendere a viaggiare». Per questo Veronica ha venduto la moto che aveva e di cui era appassionata e si sposta solo in bicicletta. Tra chi le dice che vorrebbe assomigliarle e chi crede sia una follia «perché certe cose non si possono fare solo con una bicicletta». Invece sì, spiega Veronica, e aggiunge qualcosa: «Spero, con l'esempio, di dimostrare che una bicicletta può bastare, se davvero si vuole».

"Cara Biga", in realtà, non è una lettera, ma un progetto, un'idea di biciclette e di mondo, qualcosa che permetta di unire, di far incontrare attraverso la bicicletta. «Sai che spesso non mi ricordo neppure il nome delle persone con cui ho pedalato? Mi è successo qualche giorno fa, con un ragazzo, a Cesena: abbiamo parlato di tutto, cantato assieme. Non so come si chiamasse, ma ci siamo sentiti liberi. Conta questo, no?». E "Cara Biga" serve per questo: c'è l'idea di vivere un altro tempo in bicicletta, una velocità a metà tra la camminata e un'auto, quella perfetta per guardarsi attorno e vedere quel che non avevi mai guardato, pur avendolo sempre visto. Quando c'è qualcosa in comune, incontrarsi è più semplice. La bicicletta, poi, a quell'incontro può anche accompagnare. Per Veronica la Biga somiglia al suo cane, quella cagnolina che l'ha accompagnata per molti anni, in ogni cosa. È una compagna.
La salita? È follia, ci spiega Veronica, perché razionalmente non ci sono motivi per fare così tanta fatica, ma la si fa lo stesso e fa piacere farla. La discesa, invece, è musica, come il vento ed i suoi giochi mentre si scende. La discesa, però, è anche timore o almeno lo è stato: «Stavamo facendo una pedalata come tante, con amici. Dopo una salita, cantavamo contenti. Solo qualche secondo dopo, un amico è caduto, in seguito allo scoppio del tubolare. Uno spavento, grande, importante. Dopo quel giorno, ho pensato spesso a "Cara Biga", a questo progetto. Mi dicevo: "Io ho fatto questa scelta e chiedo alle persone di fare qualcosa di simile, ma guarda che rischio si può correre. Sto facendo la cosa giusta?”. Alla fine, mi sono detta di sì». Perché in ogni attività è insito un rischio e perché; comunque, la bicicletta non l'ha mai delusa, anche quando le ha fatto male, quando senza forze, infreddolita, in una giornata no, mentre voleva andare a vedere il mare, ha chiesto un passaggio ad un furgoncino dei netturbini.

Qualcuno non può raggiungerla e pedalare con lei, ma le scrive, basta una foto di un qualunque viaggio e "Ci sembra di essere lì, grazie" dicono tutti. Sì, perché, oltre a pedalare, raccontare un viaggio con una fotografia, Veronica è fotografa, o un video, permette di lasciare spaziare la mente anche di chi è altrove ed un viaggio così lo sogna.
E viaggiare in bicicletta è davvero diverso da ogni altro viaggio: basta pensare a una sera, in Liguria, qualche tempo fa. Veronica era in viaggio da giorni e quella sera si è resa conto solo troppo tardi di essere fuori zona rispetto al luogo in cui dormiva: «Era tardi, non potevo tornare dietro, dovevo cercare qualcosa nei dintorni. Ho trovato solo una stalla, con della paglia. Ho dormito su quella paglia e sapessi quanto ho dormito bene. Così bene da tornarci la sera dopo e da far colazione con il pastore, lì nei dintorni». È questa possibilità di adattarsi a renderlo diverso, perché, alla fine, si scopre che tante cose vorremmo davvero farle e chissà perché le evitiamo, quasi le allontaniamo. Sarebbe bello parlare di questo con quelle cento persone, arrivate da ogni dove, per festeggiare il compleanno di "Cara Biga", al promontorio di San Bartolo. Una biga per dare nuova forma alle cose, per non darle per scontate, per sforzarsi di guardarle da un'altra prospettiva, magari in compagnia. C'è tutto nella lettera di Veronica alla sua bicicletta e a tutte le biciclette che, in qualche modo, permettono la stessa rivoluzione. Simile al bruco che diventa farfalla, bella uguale. E, poi, in quella lettera ognuno può scrivere ciò che preferisce. Basta iniziare: "Cara Biga...".


Il Gran Tour delle Colline Metallifere

Dai e dai il giorno è arrivato. L’idea sembra buona, il territorio e le istituzioni sono in sintonia, del resto i costi sono minimi e il vantaggio di tutti, potenzialmente, è grande, poi le Colline Metallifere sono fantastiche, un meraviglioso scenario di wilderness, storia, e miniere. Sì, perché il Parco Nazionale delle Colline Metallifere, oltre ad abbracciare una grande area coperta da boschi e macchie senza quasi soluzione di continuità, ingloba centri abitati di origine medievale, antichi castelli nei cui vicoli si respira ancora l’aria dei secoli passati. Il Parco nasce però per la sua storia mineraria e prima ancora per le sue eccezionalità geologiche e mineralogiche, ed è per questo che dal 2015 è stato eletto Geoparco dell’Unesco.

L'idea di un giro in bici, nella formula del brevetto, nasce dalla volontà del sottoscritto, appassionato ciclista nonché Guida Ambientale del Parco dalla sua nascita. Conoscenza del territorio, di ogni sentiero e strada, ma anche di tutte le emergenze del Parco creano il connubio perfetto: un percorso che sia divertente e che permetta di conoscere aspetti che altrimenti sarebbero difficili da scoprire, nascoste come sono nelle fitte macchie delle Colline Metallifere.

Ne parlo col mio gruppo ciclistico, i Free Biker Pedale Follonichese, sono tutti entusiasti, ci sono molti appassionati di gravel e tutti si prestano ad accompagnarmi nei giri di preparazione del percorso, con Mirko e Luca fissiamo le prime tappe e al tavolo del bar di Beba davanti ad un bicchiere di birra pianifichiamo il percorso, a grandi linee, poi lungo la strada si studierà eventuali modifiche.

La bici perfetta: la gravel, ma una mtb, assistita o no, va benissimo. Caricate per il bike packing, o con il bagaglio ridotto al minimo, vista la possibilità di dormire in uno degli accoglienti agriturismo di cui il territorio è ricco.

 

Infatti il giro è lungo, 250 km e 5000 m di dislivello, ed impone la sosta, ma questo non è un problema, vista l’ampia disponibilità di strutture ricettive che hanno aderito entusiaste al progetto. Soste che possono essere solo due per i più allenati ma che consiglio essere almeno tre, visto che non si tratta solo di pedalare ma di godere di tutte le magnificenze che il Parco ci mostra. Tradotto: si è sempre fermi a fotografare!

Il giro comincia da Follonica, non è il centro del Parco, ma è la località più facilmente raggiungibile, auto, treno o bus che sia. Città oggi turistica, ma dal passato straordinario di città-fabbrica, di fatto per secoli un recinto tra le paludi con dentro fonderie e camerotti, distendini e carbonili. Lasciamo Follonica su asfalto inoltrandoci verso l’interno verso la prima tappa, le miniere di Allume nel Parco di Montioni, ci arriva attraverso un single track, facile e divertente alla fine del quale si apre una parete di roccia biancastra, traforata da secoli di escavazioni. L’allume è un minerale usata in passato per la concia dei tessuti e per questo ricercatissimo tanto che interessò anche la sorella di Bonaparte, Elisa, che qui costruì addirittura uno stabilimento termale a suo uso e consumo. Posto il primo timbro sulla scheda del Brevetto presso la locale trattoria, ci si avvia su di una meravigliosa strada prima asfaltata quindi sterrata verso le alture delle Colline Metallifere.

In un paesaggio di seminativi e piccoli oliveti inframezzati a lembi di bosco si sale verso Montebamboli, famoso per aver dato l’illusione che questa zona, e non la Rift Valley africana, fosse la culla dell’umanità. Nell’800 nelle miniere di lignite di Montebamboli fu infatti scoperto un fossile di scimmia, che fece pensare ad un primo Ominide di ben 6 milioni di anni, battezzato subito Oreopithecus bambolii!

Passata la miniera inizia una salita arcigna, il fondo sterrato impone gomme con buon grip, dopo qualche centinaio di metri di fatica vera il pendio si addolcisce, ad un bivio si tiene la sinistra e si scende, ma nella migliore tradizione a discesa segue la salita, e questa si fa sentire! Tra sterro ed asfalto si comincia ad intravedere la prossima meta: Monterotondo Marittimo, annunciato dai vapori delle centrali geotermiche e delle Biancane.

Le Biancane! Una delle perle del Parco, una distesa di rocce calcinate dal calore e dagli acidi presenti nei vapori endogeni, che attraverso fratture naturali fuoriescono, creando un ambiente lunare, dantesco, infernale! Attraversare in bici queste lande fa un certo effetto, soprattutto in inverno quando il freddo crea un maggiore effetto condensa, e si pedala in una nube di vapori solforosi.
Passato Monterotondo e le Biancane ci aspetta un lungo tratto di asfalto, comunque piacevole in belle strade con poco traffico.

Dapprima tra pozzi e soffioni, poi sempre immersi nei boschi delle Colline Metallifere, tra le miniere piritifere di Niccioleta e della Stima. Si giunge così a Gerfalco, grazioso villaggio ai piedi delle Cornate, il monte più alto della zona. Sede in passato di importanti ricerche minerarie e di escavazioni del bel calcare rosso che caratterizza la cima delle Cornate. Volendo tramite una bella strada sterrata si può deviare verso podere Romano, per godere del panorama verso il mare e visitare cave e miniere seguendo le indicazioni del Parco. A Gerfalco oltre che per un ristoro temporaneo ed il timbro, volendo si può anche pernottare (Agriturismo Poggio alla Luna tel. 333/1226694.).

Abbiamo percorso circa 70 km e 800 m di dislivello, meno di un terzo del totale! Ora ci aspetta una meravigliosa strada bianca che dopo qualche strappo, duro, ci regala una lunga discesa regolare tra bei paesaggi e splendidi agriturismi per arrivare al borgo medievale di Travale. Breve ristoro e si riparte in salita, su asfalto per raggiungere in qualche km Montieri, la città dell’argento! Qui la tappa è d’obbligo: per mangiare, ottimi ristoranti, ma anche per dormire, io e Mirko, il mio compagno di avventura, ci siamo fermati al Podere di Rachele 349/0573303, ma la scelta è ampia.

Lasciamo Montieri di prima mattina, quassù anche in estate fa freschino, soprattutto al sorgere del sole, comunque una mantellina e via. Si prende la strada asfaltata in direzione di Follonica, regolare, poco traffico, pendenze minime, qualche km e si giunge in Loc. Fontalcinaldo, un borgo disabitato di un paio di case solamente, di lato, sulla sinistra, imbocchiamo una strada cementata, poche centinaia di metri ma pendenze oltre il 20%! Per fortuna dura poco, perché abbiamo ancora la colazione sullo stomaco e la salita dura non è il massimo per digerire! La strada continua, magnifica, sterrata, deserta, tra gli splendidi boschi delle Colline Metallifere, malgrado la quota non superi i 750 metri si trovano anche notevoli faggete con esemplari di tutto rispetto. La strada va seguita lungo la traccia principale per diversi chilometri di saliscendi mai troppo impegnativi, fino a che termina su di una strada asfaltata che seguita in discesa per un paio di chilometri ci porta a Niccioleta. Paese, come tanti nella zona, sorto per ospitare i minatori, dalla strada infatti è visibile il Pozzo Rostan della locale miniera di pirite, una delle più importanti della Maremma.

A Niccioleta è presente un Ostello (339/490251), proprio nei pressi della Miniera ed un piccolo bar dove fare uno spuntino, timbrare, e bersi un caffé. Lasciamo l’asfalto attraversando una zona di orti e con una stradina sterrata scendiamo in un’area dove importanti lavori di bonifica hanno rinaturalizzato una discarica di inerti di miniera, sulla cima della collina, quasi a dominare il paesaggio l’alto castello minerario del pozzo Rostan, continuando per la strada ora asfaltata si arriva in Breve a Pian dei Mucini. Sarebbe semplice raggiungere Massa Marittima con la strada asfaltata ma l’amore per il gravel ci spinge a cercare vie alternative e per giungere ai piedi della città abbiamo scelto un bel percorso tra boschi e prati. La capitale delle Colline Metallifere ci accoglie dopo una breve salita su asfalto. Consigliamo di perdersi tra gli splendidi vicoli e di immergersi nel medioevo tra splendidi palazzi e chiese monumentali indice di quanto fosse ricca Massa in epoca antica quando le miniere fornivano rame, argento, piombo e altri preziosi minerali.

Una bella strada asfaltata ci permette di scendere da Massa, siamo in una zona di antiche miniere, alcuni pozzi, recintati per la sicurezza, sono ancora visibili nella zona di Serrabottini che raggiungiamo attraverso una strada sterrata tra le macchie, la vicinanza dei pozzi si rivela dall’arrivo nella zona delle discariche: accumuli di minerali e rocce di scarto che venivano gettati nei pressi delle aree di prima cernita. Grandi accumuli ocracei dove non è difficile trovare piccoli campioni dei solfuri che hanno reso famose le Colline Metallifere. Il Lago dell’Accesa ci accoglie come una visione, dopo salite e polvere, un lago di origine carsica incastonato tra verdi colline. Le acque, debolmente termali, scaturiscono da sorgenti nei pressi della sponda occidentale, lontane da ogni fonte di inquinamento, sono sempre limpide e permettono, anche al ciclista, straordinari bagni refrigeranti. Anche gli etruschi non hanno saputo resistere al fascino del lago, al VI secolo aC risalgono infatti una serie di villaggi scavati dagli archeologi fiorentini alcuni anni fa, ancora oggi ben visibili grazie all'istituzione di un Parco archeologico dedicato.

Dopo la sosta obbligata al Lago, nei pressi si trova anche un bar ristorante “Giardino del Lago” aperto nella buona stagione e molto frequentato dai ciclisti della zona, si riparte con un tratto un po’ più tecnico, ma assolutamente imperdibile. Un suggestivo single track, con passaggio attraverso una passerella sul fiume Bruna, l’emissario del lago, ci porta ai Forni, area di antiche lavorazioni minerarie e quindi dopo aver attraversato delle vigne, di nuovo sulla strada asfaltata. Ora ci aspetta un trasferimento su strada sterrata, poco dislivello, diversi km, ma paesaggio notevole! Campagne, cipressi, antichi castelli, mulini e poderi… un aspetto tipico della Maremma toscana. Proprio un anello di cipressi fa da quinta al monumento alla strage nella miniera di Ribolla, nel 1954, 44 minatori morirono a seguito di un incendio devastante in galleria. Il monumento, molto suggestivo, si trova a poche centinaia di metri dal pozzo Camorra, epicentro dell’esplosione di grisou che coinvolse l’intera miniera. La strada sterrata ci porta fino a Ribolla, villaggio minerario fino al 1954, poi dopo la chiusura della miniera a seguito dell’incidente, tranquillo paese nelle piane ai piedi delle colline del Roccastradino.

Ora ci tocca la salita! Dopo tanta pianura si risale verso Roccastrada lungo un’antica strada doganale, si inizia con una bella strada scorrevole e senza forti pendenze, tra campagne e macchie, poi superato un bivio per un Centro di Meditazione (Sant Bani Ashram), la strada diventa più impegnativa con alcuni tratti di discreta pendenza. Un paio di Km e torniamo sull’asfalto direzione Roccatederighi, fantastico borgo arroccato su di una rupe di riolite, dalla quale si gode un paesaggio straordinario su tutta la Maremma costiera e su molte delle isole dell’Arcipelago Toscano. Dalla Rocca come è chiamata dai suoi abitanti si sale su sterrato verso Poggio della Miniera, come dice il nome, sede passata di estrazioni di minerali cupriferi, e quindi si compie un largo giro intorno al Sassoforte, antico vulcano, sulla cui cima è collocato un castello mai espugnato! La strada è immersa in boschi che sembra non abbiano mai fine, siamo ad una quota tale che oltre alla macchia si possono trovare anche piante di media montagna quali querce, castagni e aceri che in autunno regalano al ciclista un foliage di tutto rispetto. Tornati sull’asfalto eccoci di nuovo a Roccatederighi dalla quale parte la lunga discesa di Pereti, un lungo tratto di asfalto divertentissimo, prestando sempre attenzione alle, poche, auto che si possono trovare lungo strada.
Siamo così tornati a Ribolla, in zona si trovano agriturismi che possono soddisfare ogni esigenza di pernotto e di ristorazione.

Ci allontaniamo dalle colline per affrontare un tratto pianeggiante che ci conduce nel Comune di Gavorrano passando accanto a importanti vigneti e cantine di pregio. È la zona di notevoli necropoli etrusche scoperte da molti anni, ma solo recentemente valorizzate e visitabili in un pacchetto che comprende anche l'assaggio di vini in cantina. A Gavorrano, importante città mineraria, si arriva attraverso una bella salita sterrata, sono subito evidenti le tracce delle miniere: discariche di inerti, castelli di miniera, quello di Rigoloccio per esempio al centro di un’area rinaturalizzata di recente, ma soprattutto l’area mineraria di Pozzo Roma, dal quale fino al 1981 si sono estratte milioni di tonnellate di pirite. La miniera è quindi chiusa, come sono chiuse tutte le miniere delle Colline Metallifere, l’apertura del Parco Nazionale ha però permesso di tutelare le emergenze più significative e permetterne la visita, come per la Polveriera della Miniera, un percorso nel sottosuolo attrezzato per far capire come fosse aspra e piena di pericoli la vita del minatore, un percorso guidato suggestivo e di grande carico emotivo. (info 0566/843402).

Da Gavorrano breve tratto di asfalto e poi tanto sterro fin quasi al mare. Percorso ondulato con tratti a volte ripidi, ma immerso nelle splendide campagne e nei boschi delle Bandite di Scarlino. Anche in questa zona, ma è una costante di tutto il percorso, sono frequenti gli agriturismi, uno per tutti Poggio La Croce (0566/871006). La salita finisce al Sughericcio (335 m. slm), la discesa che segue è immersa in uno splendido bosco d’alto fusto che solo alla fine, ormai in pianura, si trasforma in un forteto mediterraneo fino a sfociare nei campi della pianura di Pian d’Alma, area agricola in cui si comincia a sentire l’influenza dei venti marini.

Attraversata la trafficata Provinciale per Castiglione della Pescaia ci si immerge nella macchie del Parco delle Costiere, famoso per le splendide cale, tra le quali Cala Violina è la più bella e conosciuta. Il nome deriva dal fatto che sfregando la sabbia, grossa e silicea, si produce un suono che con un po’ di fantasia ricorda il suono dei Violini! Cala Violina è anche geosito del Parco nazionale, le sue scogliere sono infatti costituite da torbiditi della formazione del Macigno che presentano evidenti stratificazioni di spessore e granulometria diversa. Sono queste le rocce che hanno dato origine alla famosa sabbia “musicale”. La strada ora è un facile saliscendi con impareggiabili viste sul Golfo di Follonica. Lo sterrato termina in località Terra Rossa, un tempo qui arrivava la teleferica che portava dalle miniere gavorranesi e massetane la pirite fino al mare, per essere quindi imbarcata sui piroscafi destinata agli stabilimenti di lavorazione. Di questo sito, visitabile (0566/843402), rimangono importanti testimonianze tre cui i silos di stoccaggio e la suggestiva galleria di eduzione.

Siamo alla fine del tour, una bella ciclabile connette il Puntone e la sua Marina, a Follonica, un ultimo sguardo sulla Maremma passando sull’argine che separa il Padule di Scarlino (Zona umida protetta) dal mare e quindi ci accoglie la città del Golfo per l’ultimo timbro ed un riposo ristoratore, magari a godersi la famiglia lasciata in città a godersi spiaggia e mare.

Contributo di Mario Matteuci
Sito (in allestimento) https://www.biketourcollinemetallifere.it/


La SpoletoNorcia in MTB

La SpoletoNorcia è un evento di mtb fighissimo e si snoda sul tracciato della Vecchia Ferrovia che collegava le due città. Un percorso per chi vuole gareggiare, un paio per chi vuole sfidare se stesso ma senza cronometro, un altro per chi preferisce godersela o non è troppo allenato, e infine ancora uno per chi vuole giusto fare due pedalate e guadagnarsi un piatto di fettuccine al tartufo nero. Boschi, ponti, gallerie, viadotti: fidatevi, ne vale davvero la pena.

Quest’anno poi compie 10 anni tondi tondi e secondo noi è un evento da non perdere.

Volete iscrivervi?

Cliccate qua e non esitate.
Ci vediamo là!

Per informazioni
laspoletonorciainmtb.it
info@laspoletonorciainmtb.it
+39 333 8052398.