Laddove le biciclette sono il mezzo di trasporto principale, laddove, rinforzate nella parte posteriore, divengono taxi, con i freni a bacchetta tipici degli anni sessanta, oppure caricano a bordo materiali di ogni genere, dalle bottiglie, ai pali di legno, sino alle grondaie, mentre chi pedala continua ad affiancarsi, magari in salita, ai viaggiatori, anche loro sui pedali e, dopo averli fissati per qualche minuto, si congeda con un cenno del volto, simile a un sorriso, a mostrare tutto il piacere dell’incontro, del contatto, laddove accade tutto questo si apre il Rwanda. Il cuore verde dell’Africa, perché ogni casa ha un piccolo orto e l’acqua corre in ogni terreno a nutrire le piante, qualcosa di molto diverso dall’immaginario classico dell’Africa calda e secca: allora ci viene da pensare che Lorenzo, Alberto, Adriano e Mattia, forse, non siano partiti per caso per quella terra, quattro ragazzi che con il progetto Umbriabikepacking e con la tribù di Augh condividono la loro regione, i loro paesi, con solo una tenda, una bicicletta e poco più, e con tutto il senso dell’improvvisazione che ci vuole per un viaggio in bici, pur se si programma e si studiano le carte, le tracce, ma partire vuol comunque dire andare all’avventura, accettare l’imprevisto ed il cambio di programma. I dieci giorni che hanno trascorso in Rwanda nello scorso ottobre sono stati una sintesi perfetta di tutto questo.

Ad iniziare proprio dall’idea e dalla partenza. Di viaggi ne hanno fatti tanti, sono stati in Scozia, ma l’Africa pareva lontana, quasi impossibile, invece, come accade parlando tra amici, basta un suggerimento o una suggestione per mettere in piedi l’irrealizzabile e per farlo con un pizzico di follia. Avevano scoperto Race Around Rwanda attraverso le parole dei componenti di Enough Cycling e il tragitto l’avevano costruito proprio su quella traccia, insieme ad altri stralci di percorso, trovati su internet e accuratamente messi assieme: da Kigali, la capitale, a Kigali, in mezzo tutto il Rwanda. All’inizio c’è Ruhengeri, uno dei primi villaggi incontrati, pieno di entusiasmo, di vita, di persone e bambini che corrono qua e là, felici di vedere, in particolare contenti di incontrare, “musunku”, l’uomo dalla pelle bianca, perché si dice porti fortuna il suo incontro: il fiume Nyabarongo è poco distante, per proseguire bisogna attraversarlo e l’unica possibilità sono delle zattere usate dagli abitanti per recarsi da una parte all’altra, spesso per motivi di lavoro. «Nel percorso iniziale- spiega Lorenzo- questo inconveniente non era previsto e probabilmente, se qualcuno mi chiedesse un parere, suggerirei un’altra via, ma anche questa è l’improvvisazione di quando si prende e si parte. A quel punto si rischiava di tornare indietro, di vanificare la prima parte del viaggio, solo quelle zattere hanno permesso la prosecuzione, pur nella difficoltà di farsi capire, di spiegare il proprio bisogno. Quelle zattere sono state parte dell’avventura». Nel Rwanda soprannominato “la terra dei mille colli”, per i suoi continui su e giù, simile all’Appennino, in questo, si percorrono ottanta, novanta, talvolta cento chilometri al giorno, spesso intorno ai 2000 metri di altitudine, nei pressi di vulcani, anche intorno ai 2800 metri, spesso ripensando a questi villaggi, soprattutto quando la strada asfaltata, benissimo, tra l’altro, diventa noiosa, la stanchezza inizia a pesare e quella gioia pura è ossigeno. Il fondo stradale più impegnativo è quello del Congo Nile Trail: «Ognuno di noi aveva una bici diversa, si vede raramente in un viaggio di questo tipo, ma anche questo è il nostro modo di interpretare il ciclismo: adattarsi e vivere a pieno l’esperienza, pianificando le tappe al momento, in base a ciò che è possibile fare, alla luce del sole o al buio della notte».

Sorride Lorenzo, mentre ripensa alla Kivu Belt Road, a tutte le persone che si assiepano attorno a qualunque viaggiatore che si fermi per strada: comunicano con un gesto della mano, con uno sguardo, hanno voglia di sentirsi utili, prendono in spalla le biciclette, si offrono di aiutarti a portarle nei tratti più difficili. Poi torna serio, pensieroso: «Ricordo quei bambini che giocavano a pallone per strada, con una palla fatta di foglie di banano, ricordo il bambino che abbiamo medicato dopo una ferita: ci hanno detto che è orfano. Penso a tutti i bambini, di cinque o sei anni che ho visto trasportare del bestiame, in mezzo alle montagne o alla foresta. Mi viene in mente la loro voglia di farcela, di resistere, il loro essere felici con poco e le rincorse alle nostre biciclette in discesa». Il viaggio si svolge nella stagione delle piogge: temperature dai diciotto ai trenta gradi, e piogge molto intense, ma veloci, non più di dieci minuti, forse un quarto d’ora, qualcuno apre la propria falegnameria a Lorenzo, Alberto, Adriano e Mattia, per ripararsi. Qualche giorno dopo visiteranno il villaggio fondato per i bambini orfani del genocidio del 1994: «Ora che quei bambini sono cresciuti, quel luogo si è trasformato in una sorta di università dove si studia agraria, con una decina di camere, per ospitare i visitatori e con la possibilità di pranzare, pagando una quota. Abbiamo visto il museo dedicato al genocidio, compreso qualcosa in più della storia di quel paese».

Storia di un paese che passa anche dalla lingua, dalle poche parole della lingua locale che i ragazzi di Umbriabikepacking imparano e usano, ad esempio, per ringraziare quei componenti dell’esercito che, dopo averli averli bloccati all’ingresso di un parco nazionale, li lasciano ripartire: «Vedessi come hanno sorriso! Una gratitudine così grande per così poco, alla fine». Qualcuno, in viaggio in moto, chiede di provare le loro biciclette, allora le scambiano per qualche istante: c’è chi si diverte a pedalare e chi va incontro al vento sulla moto. Il tutto, spesso, avendo fatto colazione solo con poca frutta, poche banane, che devono bastare fino a sera e regalando qualche barretta ai giovani che si incontrano e, sapendo della ripartenza, chiedono un numero di telefono, per restare in contatto, dicono di cercare lavoro. Lorenzo non ha dubbi: «Le interazioni con le persone lo hanno reso il più bel viaggio della mia vita. Sono certo che l’Africa vada esplorata, vada scoperta, è un mondo che si è aperto: con i miei amici pensiamo già a un nuovo viaggio in Namibia, magari per il prossimo autunno».
Gli stessi amici che sono gli unici con cui è possibile fare certi viaggi, vivere certe esperienze, che sono anche questione di equilibri delicati e rari, che non si trovano con tutti: Lorenzo spiega che bastano poche persone per sentirsi al sicuro, per cavarsela in situazioni difficili, per lui sono sempre stati Alberto, Adriano e Mattia, in Rwanda anche qualche signore incontrato in viaggio che li ha aiutati nelle piccole difficoltà: «Crediamo spesso che il mondo migliore sia quello vicino a casa, per questo i miei genitori, quando partivo, mi mettevano sempre in guardia. In realtà, cose negative possono succedere anche dietro casa e cose belle anche a centinaia chilometri di distanza: il Rwanda me lo ha ricordato e me lo tengo stretto ovunque vada».