Finalborgo è racchiusa, quasi abbracciata, dalle sue mura di sapore medievale, che la proteggono pure dal mare e dal suo sciabordare inquieto nei giorni di tempesta. I mattoni a vista delle case, disposti secondo una precisa architettura, racchiudono una storia antica, simile a quella scritta in vecchi libri, impolverati, in qualche scaffale, dietro una porta che nessuno apre da troppo tempo. Qui, peraltro, le porte sono tutte piccole, molto piccole, somigliano più ad ingressi di cantine, di scantinati, che non di case o di locali: le persone vi camminano accanto e arrivano fino ad una minuscola piazza, un angolino di pace, dove al centro una fontana continua a zampillare acqua . Lì un anziano signore, appoggiato al bastone della sua vecchiaia, saluta un giovincello, pieno della spavalderia bella della gioventù, nella sua tenuta da corridore: nel mezzo di questa scenografia, quei due stanno così bene assieme, come tutta la storia e questi giorni nuovi. Il nostro mondo, stamani, sarà dietro una di quelle porticine che permette l’accesso in uno spazio circondato da volte in mattoni e colori che segnano la strada, dapprima verso un’officina a vista in cui il bancone è un vecchio tavolo da falegname riadattato e cosparso di attrezzi sporchi, talvolta consumati dal tanto lavoro, sui muri sono appese parti di biciclette ormai a riposo, qualche sospensione, qualche tratto di un manubrio, telai storici, foto particolari e alcuni aggeggi inusuali, parti meccaniche inventate e ricavate da chissà quale attrezzo della vita di ogni giorno. Fino ad arrivare ai tavoli del bar, dove qualcuno si siede a bere una birra e a leggere il giornale, mentre in officina la sua bicicletta viene “curata”. Le mensole sono costruite con pezzi di forcella e anche la porta della toilette è suggestiva: si chiude da sola, attraverso un martelletto che fa da contrappeso. La piazza là fuori è Piazza Garibaldi, il locale è Riviera Outdoor Bikeshop e già nel nome ci sono il mare ed il vento, la bicicletta e la Liguria.


Le parole di Luca Bondi, ideatore del luogo, aggiungono dettagli del passato, scene della quotidianità, che, con un poco di attenzione, non fatichiamo a riprodurre nella mente, come si svolgessero davanti ai nostri occhi, come se una macchina da cinepresa, dopo averle catturate e memorizzate, le riproducesse su un grande schermo: «Le mie mani, anche da ragazzino, dovevano sempre essere sporche: svitavo e avvitavo i bulloni, smontavo e rimontavo, rompevo, talvolta, dalle macchinine che i nonni portavano la domenica pomeriggio, alla loro pista, sino alla bicicletta. Ho scoperto così la magia del movimento di una ruota: la catena sui pignoni e un semplice tocco al pedale per innescare uno spostamento. L’esplorazione delle mie mani mi ha, piano piano, svelato ogni segreto di una bicicletta». La creatività è qui oppure, forse, nel fatto che non ci sia un solo metodo per aggiustare una bici e che, volendo, è possibile utilizzare tutto, ma davvero tutto per rimetterla in strada, anzi, a Finale Ligure, per restituirla alla terra e alla polvere del fuoristrada di cui questa città di riviera è l’universo: anche delle tubazioni di metallo, dismesse, prese da un reparto idraulico, oppure della semplice bulloneria che non ha nulla a che vedere con la bicicletta stessa. «Sì, una scuola di inventiva, perché il fuoristrada è il regno della velocità e dell’improvvisazione, non c’è molto tempo per riparare un guasto, il “pronto soccorso meccanico” deve essere celere, così tutto ciò che abbiamo attorno diventa possibile “cerotto”, “medicazione”. All’inizio di una giornata lavorativa questa possibilità fa la differenza: non sai se riuscirai nel tuo intento, ma sai che per provarci dovrai sfidarti, non ci saranno due giorni uguali, due soluzioni uguali. La noia è lontana».

Luca Bondi è partito dall’Istituto Tecnico Industriale della sua città, a cui si recava sui pedali, ed è passato per l’università di Genova, dove studiava ingegneria meccanica e la bicicletta non la vedeva quasi più per questione di tempo e di impegni affollati nelle ore di una giornata: non si è mai laureato, tuttavia, e, quando è tornato a Finale Ligure, aveva necessità di un lavoro, per mantenersi, per diventare davvero grande. Nelle serate parlava di biciclette e dei viaggi in cui accompagnava i turisti, in una delle prime esperienze lavorative, dopo aver fatto il bagnino, mestiere classico delle estati degli studenti, sulle spiagge: «Avevo conosciuto la bici soprattutto dal punto di vista meccanico, essere accompagnatore mi ha permesso di vedere da un altro lato quel mezzo che tanto mi affascina. La bicicletta porta da un posto all’altro, da un bosco ad una strada, da un sentiero ad un ampio viale e in questo tragitto permette la “contaminazione” con luoghi e con persone. Ho un amico che vive in Australia, ci vedremo ogni sette, otto anni, ma ci scriviamo ogni settimana: l’incontro è stato in quei viaggi in compagnia, in quella condivisione, altrimenti l’Australia non l’avrei nemmeno incrociata tanti sono i chilometri a dividerci. Questa è l’altra faccia del ciclismo». Nel 2002, proprio nel momento in cui la mtb era in continua evoluzione nella zona, tutto ciò confluisce nel locale a cui si accede attraverso la minuscola porta affacciata alla piazza con la fontana: «Io sapevo fare questo, mi riusciva abbastanza bene e mi è venuto naturale pensare che avrei potuto essere utile a qualcuno».

Nel via vai di persone qualcuno porta una vecchia mountain bike, di quelle con cui scorrazzava sui sentieri e gustava il piacere di una curva disegnata particolarmente bene, di una discesa adrenalinica, della polvere che si alza in nuvole illuminate dal sole e si appoggia alle gambe e alle braccia, di un tavolino e dell’acqua ghiacciata dopo la fatica. La richiesta spesso è di restituirle nuova vita, dopo che, magari, è stata per anni chiusa in un garage o in uno scantinato, affinché quel signore, anni dopo, possa utilizzarla per andare a fare la spesa o per passare in edicola a comprare il giornale, il quotidiano: «Non diciamo mai di no, cerchiamo di fare il possibile, anche se spiace vedere alcune biciclette dimenticate, però, guardandoci attorno, nel locale, un modo per permettere ancora qualche pedalata lo troviamo sempre, pure se bizzarro, inconsueto». La differenza, precisa Luca Bondi, è netta: ci sono coloro che usufruiscono del mezzo, gli utilizzatori semplici, e coloro che, invece, provano a conoscerlo. Ai primi non interessa pressoché nulla tanto dell’aspetto meccanico, quanto di ogni altro studio che possa riguardare la bicicletta, l’aspetto “culturale” è messo da una parte: la bici serve loro per spostarsi, magari anche per emozionarsi o vivere sensazioni che ricercano, ma non hanno interesse nell’approfondire o nel conoscere. I secondi, invece, magari si fermano a osservare quel che accade dentro l’officina: restano lì con aria discreta, qualche volta fanno una domanda e così capiscono qualcosa in più della bicicletta, che la utilizzino da molto o che siano ai primi approcci non cambia nulla, in fondo. «Anche il nostro modo di rapportarci cambia: nel primo caso non servono spiegazioni, non sarebbero ascoltate, non sarebbero utili, nel secondo, invece, sono essenziali. Vedi, la bicicletta non resta ferma sui rulli, in una stanza, ma si sposta, viaggia tra luoghi ed è quello che incontra in questo viaggio ad essere la variabile, l’incognita. Quando consigliamo una bici o quando la scegliamo deve essere questa la nostra bussola per orientarci e decidere consapevolmente. Qualcuno lo capisce, qualcuno no: noi dobbiamo continuare a crederci».

L’empatia, in poche parole. Una qualità che, a differenza di altri, non si può mai davvero essere certi di avere acquisito, perché essere empatici significa comprendere quel che la persona cerca, quel che vuole, capire appieno i suoi bisogni, i suoi desideri, le necessità e le paure: «Capita di riuscirci, è vero. Ma dobbiamo essere sinceri e ammettere che alcune volte non riusciamo proprio ad arrivare dall’altra parte, che questo dialogo non si crea e la bicicletta si cerca da un’altra parte. Non è solo una questione di vendita, spiace perché per chi fa questo lavoro il rapporto umano è al centro». Il bar è parte fondante di questo discorso: una decina di anni fa non erano molti i locali a tematica ciclismo che offrivano anche ristorazione, Riviera Outdoor fu uno dei primi a portare questa innovazione e fra queste mura c’è ancora un sottile orgoglio. Ogni tanto, Luca dispone le sue bici su un cavalletto, ne osserva il telaio, ripensa ai cambiamenti che ha apportato, alle migliorie che ha ricercato per i suoi clienti e aspetta che siano altri occhi a vederle, a farsene un’idea, a giudicarle: anche quella è una prova nel suo lavoro, capire se i suoi gusti coincidono con quelli delle persone che vanno a trovarlo, se riesce a mantenere una sintonia. Se accade si sente soddisfatto e ricomincia a pensare e a programmare.

Talvolta il telefono o il computer gli ripropongono delle vecchie fotografie, scattate mentre accompagnava altri ciclisti in viaggio: è un flash e basta per ritornare esattamente in quell’istante e collegarvi una miriade di storie e ricordi che parevano dimenticati invece erano solo in attesa di essere riannodati, perché la bicicletta fa anche questo, costruisce ricordi ed immagini, forse immaginari. Riviera Outdoor continua a costruirli, giorno dopo giorno; da quando era poco più di un’officina, a quando si è ingrandita, ha aggiunto accessori, scarpe, abbigliamento al proprio interno, ha aggiunto capacità e talenti, ha cambiato luogo, un paio di volte, ma non animo, predisposizione. Mentre là fuori, fra i mattoni e le mura, l’aria di mare fa il suo giro, diversi ciclisti, vestiti di tutto punto ed equipaggiati sono già pronti per un nuovo giro. Il signore con il bastone, ora, è comodamente seduto, a leggere il giornale e a guardare il mondo che passa, la primavera che arriva, e quel ragazzino in bici chissà che strade sta percorrendo.