Giusto qualche giorno fa, Davide Arzeni, detto “Capo”, direttore sportivo della UAE Adq, ha detto un grazie particolare a Silvia Persico e l’ha motivato così: «Grazie perché è stato bello sognare, non mollare mai». Arzeni si riferiva a domenica pomeriggio, alla Ronde van Vlaanderen e alla prova di Persico. Probabilmente, il momento in cui è stato più bello sognare è stato proprio quando Lotte Kopecky, Marlen Reusser e Lorena Wiebes, sul Koppenberg, hanno messo in riga tutte le avversarie, andandosene via di convinzione e prepotenza. Tre atlete, tutte e tre del team SD-Worx, già, ma non sono sole. Con loro c’è una ragazza dalla maglia dai colori simili, ma diversi: è Silvia Persico. L’unica atleta a tenere il passo della corazzata.
A dire il vero, Silvia Persico ci racconta che il sabato pomeriggio non si sentiva proprio bene. Si sentiva strana, ma prima delle gare succede spesso. Nel tempo si è convinta che il suo corpo metta in atto una sorta di meccanismo di “risparmio energetico”, quasi automatico, prima delle prove importanti. Per questo il giorno precedente ci si sente spenti: «Il venerdì abbiamo massaggi più intensi, se c’è la corsa. Credo che dopo quelli, i miei muscoli si mettano in una sorta di standby fino alla gara». Proprio perché conosce questo meccanismo, Persico alla partenza di domenica era tranquilla, della serie: “vediamo come va”. Almeno questa è la sua prima risposta, poi, però, arriva la seconda che è, forse, la più vera.
«Sai, negli ultimi tempi, ho visto molte gare da casa, dall’altura, e non è sempre facile guardare le altre che gareggiano, anche se sai che ti stai preparando pure tu. Vedevo le gare e notavo questo dominio SD-Worx, soprattutto al Nord. Non nego che ci ho pensato: “Quando torno, voglio far vedere che ci sono anche io, che ci siamo anche noi. E, se vogliono batterci, devono sudarsela». Ecco, in quel momento, nel momento in cui Arzeni (e non solo) sogna, la promessa è mantenuta, tanto più che Reusser e Wiebes lasciano il gruppetto e davanti restano solo in due: Kopecky e Persico.
Così Silvia Persico si attacca alla radiolina: «Davide, cosa devo fare? Cosa faccio?». La risposta è chiara: collabora. «Chiedo sempre come muovermi, cosa fare, per me è importante il consiglio di chi ci segue, anche perché, in corsa, capitano momenti in cui non si è lucidi». In quel momento no, Persico sta bene, Kopecky fa un buon ritmo, ma lei lo tiene con apparente facilità. Le concede anche cambi e il loro vantaggio sul gruppetto inseguitore cresce. Si stupisce anche lei: «Non correvo sulle pietre da un anno e il giorno prima avevo provato tutti i settori in pavè a ritmo gara per ritrovare la pedalata. Devo ammettere che non ho un particolare modo di pedalare sulle pietre, mi viene naturale. Però, ecco, dopo un anno, erano sensazioni perfette».
Metro dopo metro, pietra dopo pietra, muro dopo muro e chilometro dopo chilometro, la fatica inizia a consumare e Persico se ne accorge. Non può farsi capire da Lotte Kopecky, ma il suo corpo non la inganna: le energie stanno iniziando a mancare. Non siamo ancora sul Kwaremont: «Non puoi farci molto quando succede così. Ho preso un gel, mi sono aggrappata a lui. Tavolta la lampadina si spegne in un colpo solo, un vuoto totale dal nulla, talvolta invece lancia dei segnali. Questa volta i segnali c’erano tutti». Per giunta nel momento peggiore, perché sul Kwaremont ci si aspetta l’attacco di Kopecky.
Così avviene: Lotte Kopecky forza l’andatura, aziona il turbo e Persico perde contatto. In molti hanno notato uno scivolamento della sua ruota sul bagnato, lei lo ammette, ma precisa: «Vero, c’erano tratti bagnati abbastanza infidi. La ruota è scivolata, però non mi sono staccata per quello. Mentirei se lo dicessi. Quel gel non è stato abbastanza e appena il ritmo è aumentato le mie gambe mi hanno lasciato». Spiega che non sarebbe servito molto, parla di “tre minuti di autonomia in più” sufficienti, forse, per vedere un altro finale. Proprio lì, la lucidità se ne va. Per la stanchezza, per la fatica, forse anche per la sensazione di aver buttato via una possibilità.
«Non so nemmeno esattamente cosa mi dicessero dall’ammiraglia. Ricordo che ripetevano di stare tranquilla, di provare per il podio, ma che sarebbe stata una grande giornata a prescindere, ma non ricordo molto. Ero in confusione». Persico prova ad andare del proprio passo, sperando di tornare su Kopecky, invece è il gruppetto di Reusser, Vollering, Longo Borghini, Niewiadoma e Labous, a rientrare su di lei: «Mi chiedevano cambi e io li saltavo. Non perché non volessi, ma perché non riuscivo. Avevo timore nell’affrontare i tratti in discesa, le curve. Non mi sentivo sicura. Ero svuotata».
Sebbene, per sua stessa confessione, Silvia Persico non sia solita rivedersi, non le piace nemmeno, questo Fiandre lo ha rivisto con attenzione e con l’occhio di chi sa che il passato serve al futuro. Quando lo ha rivisto, ha avuto la consapevolezza di aver impostato in maniera errata la volata che poi le ha consegnato il quarto posto, a un passo dal podio: «Curavo Reusser, poi la volata l’ha fatta Vollering e anche Longo Borghini mi ha superato. Ero di una posizione indietro, forse anche essendo più avanti di mezza bicicletta, sarebbe andata meglio». Felice sì, ma di quella felicità agrodolce, Persico aggiunge che la sua famiglia è soddisfatta ma, in fondo, sa che anche per loro un pizzico di delusione c’è, dopo una corsa così. Suo fratello le ha scritto: «Ti rendi conto che stavi correndo il Fiandre? Ti rendi conto di cosa sei riuscita a fare al Fiandre?». Anche mentre chiacchiera con noi, Silvia ci pensa, forse se ne convincerà.
La testa ora è alle Ardenne: non ha mai corso queste gare. Una volta è partita, ma, poi, si è ritirata causa infortunio ad una mano. Insomma, nel mirino Amstel, Liegi e Freccia? «Sì, più Amstel e Liegi, probabilmente. Anche se, tra le due, sono più da Amstel. Ora so cosa mi è mancato qui. All’Amstel avrò qualcosa in più, una nuova esperienza. Ci rivediamo lì». Sì, ci rivediamo proprio lì.
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