Tempo fa, durante un’intervista a un giornale inglese, Caleb Ewan raccontava quale fosse la prima visione all’interno del suo immaginario ciclistico. Affermò, sostanzialmente: il Tour de France del 2003. Ciò che ricordava meglio, sosteneva, ancora più che lo sprint finale sui Campi Elisi, erano le scintille emanate dalla bici di Jan Ullrich dopo la caduta nella cronometro. Ullrich, con la maglia verde-acqua della Bianchi, quel giorno avrebbe dovuto recuperare sessantacinque secondi ad Amrstrong per interromperne la strisce di quattro Tour vinti consecutivamente. Finì a terra malamente e ne perse undici. La maglia gialla amministrò, a vincere la tappa fu lo scozzese David Millar e tutto questo restò scolpito dentro il mondo delle idee di Caleb Ewan.
Lo stesso David Millar, un anno dopo circa, mentre era a cena con David Brailsford in un ristorante sulla costa vicino Biarritz, ultima citta francese prima di entrare nei Paesi Baschi spagnoli, fu avvicinato da tre poliziotti in borghese e portato nel suo appartamento dove vennero trovate siringhe usate. Venne arrestato, e primo di condurlo in cella gli tolsero tutto: persino i lacci delle scarpe – poche settimane dopo Lance Armstrong avrebbe vinto il sesto Tour. Quello del 2003, invece, era il quinto dei sette Tour del texano, e l’ennesima delusione per il panzer(otto) tedesco. Era un ciclismo appartenente a un’epoca fa – basta vedere gli ordini d’arrivo – prima del rimescolamento causato da quello che successe ad Armstrong e ai diversi protagonisti del ciclismo di quell’epoca; i Tour tolti, gli albi d’oro riscritti, strascichi – ancora vivi – decenni di menzogne, ferite apertissime, concetti che oggi solo ad accennarli si rischia di far danno. Questa, tuttavia, è una storia sulla quale è inutile soffermarci.
VELOCISTA TASCABILE
Era il 2003, si diceva. In Australia era pieno inverno. Caleb Ewan aveva appena compiuto nove anni, precisamente nel giorno del successo al Tour di Alessandro Petacchi, davanti a Baden Cooke, nella tappa con arrivo a Lione. E mentre quel ragazzino guardava la corsa francese, fuori dalla sua finestra pulsava la luna australe. Già, perché Caleb andava a dormire prestissimo per alzarsi tutte le notti alle tre. A volte svegliava i suoi genitori, per esempio quando si faceva prendere dal troppo entusiasmo vedendo scorrere le immagini di una corsa che, in un futuro all’epoca lontano, avrebbe visto protagonista anche lui. Aveva appena iniziato a pedalare proprio in quei mesi e non si sarebbe mai immaginato che, piccolo com’era, avrebbe schizzato energia sui rettilinei confusi e convulsi del Tour de France. Lo avrebbe fatto negli anni successivi in mezzo ad altri panzer (stavolta Ullrich non c’entra) come Kittel uno che avrebbe potuto nasconderlo nelle taschine della maglia, o a omini michelin con il turbo come Groenewegen, a facce sempre sorridenti ma che in realtà nascondono strani intenti come Ackermann, o rivali dalle più svariate caratteristiche e provenienze come Gaviria, Sagan, Bennett e Viviani. In una corsa come il Tour de France che per Ewan è sempre stata talmente grande e importante da preferirla ai Giochi Olimpici. «Partecipare a un’Olimpiade sarebbe bello, ma il Tour de France è la corsa più importante di tutte» uno dei suoi ritornelli preferiti. Saranno le nottate passate sveglio durante l’estate europea del 2003 ad avere fatto maturare questo pensiero? Quella fu un’edizione particolarmente sentita nell’altro emisfero, McGee vestì la maglia gialla il primo giorno, mentre Cooke e McEwen contesero quella verde a Zabel fino all’ultimo: alla fine vinse proprio Cooke. Tanti elementi che facevano sognare il Caleb Ewan bambino e ne illuminavano gli occhi a mandorla come quella luna che gli teneva compagnia.
Era piccolo Caleb Ewan, sia quando guardava il Tour in piena notte, sia quando si gettava in pista prima ancora che su strada. Piccolo è sempre stato e sempre lo sarà: 166 centimetri per un peso variabile a seconda del momento della stagione. Talmente piccolo e leggero da affermare che alle volte, quando era impegnato nella Madison, rischiava di venire sbalzato fuori dal velodromo dall’altro componente della coppia nella famigerata, quanto spettacolare, americana a punti. «Quelle corse le ricordo con piacere: mi divertivo da matti. Quando il mio compagno di squadra mi dava il cambio mi lanciava a una velocità supersonica, un effetto elastico che mi dava tantissima adrenalina. La prima volta che l’abbiamo provato mi sono pure schiantato contro la ruota di quello che stava davanti».
Ha sempre avuto animo competitivo e sempre lo avrà – non si diventa corridori così per caso. L’esplosività se la costruisce con il passare del tempo. «In realtà con doti da velocista ci devi nascere», racconta sempre l’australiano – «Vi immaginate Nairo Quintana lottare per gli sprint di gruppo?». Anche se inizialmente non era proprio così. Non solo non era un predestinato, ma neppure un vincente – parole sue riportate dai media. «Fino a sedici anni non ho mai vinto nulla, al massimo facevo secondo o terzo. Ho dovuto lavorare tanto per impormi».
Iniziò con la mountain bike in un circuito a Bowral, nel Nuovo Galles del Sud – vicino a dove Ewan è nato e dove tutt’ora vive la sua famiglia. Da quella zona arriva uno dei più grandi sportivi della storia del continente: Sir Donald Bradman. Non solo, Bradman è considerato ancora oggi il più grande giocatore della storia del cricket, il più forte battitore di uno sport dove vista e riflessi hanno una particolare funzione; più che particolare, suona meglio dire: Fondamentale. Vista e riflessi che sono Fondamentali anche per permettere a Ewan di liberare quella potenza che abbiamo imparato a inserirla tra i suoi punti di forza, vedendolo sprintare. Con muscoli a guidarlo che non sono solo un casuale coacervo di fibre e tessuti ma che svolgono una funzione che, col passare del tempo, diventa sempre più armonica. Strumenti che fanno suonare in modo perfetto l’orchestra diretta dal Maestro Caleb.
E inizialmente Ewan, che nel giro di qualche anno inizia a far vacillare la leadership di Sir Bradman come sportivo australiano più importante di sempre, aveva provato a giocare con la palla, ma era, appunto, troppo piccolo. Calcio, insieme al fratello Josh, persino rugby australiano. Se abbia mai provato il cricket non se ne hanno notizie, mentre è noto come, grazie alla passione trasmessa dal padre, è il ciclismo a diventare la sua vocazione. Dopo la mountain bike approda alla pista per diventare forte su strada, prendeva tutto quello che veniva inizialmente con una certa predilezione per quegli ovali, dove girare con bici senza freni gli permetteva – a lui così impulsivo in bicicletta, esplosivo, generoso – di trovare il modo per stimolare la sua attitudine. Anche se «quando dovrò scegliere prima o poi propenderò principalmente all’attività da stradista. La pista dopo un po’ risulta monotona, su strada non sai mai cosa può succedere». Aveva circa diciotto anni quando si raccontava così.
DALLA KOREA
Vi siete mai chiesti perché Caleb abbia gli occhi a mandorla? Forse lo avrete certamente letto da qualche parte. Sua madre Kassandra arriva dalla Korea e lui negli anni non è mai riuscito a imparare quella lingua: più complessa dello zigzagare tra maglie strette e telai in carbonio lanciati a oltre settanta chilometri orari. Ha un tatuaggio con il suo nome scritto nella lingua materna e nel 2015 corre il Giro della Korea venendo acclamato come una vera e propria star.
Ewan ha solo 21 anni quella volta, è alla sua prima stagione nel World Tour eppure ha già iniziato a impressionare. «Essere qui a Busan per me è qualcosa di incredibile. Amo la Korea e questa cultura anche se è solo la seconda volta che vengo qui. Adoro la cucina koreana e da piccolo sono sempre cresciuto assieme ai miei parenti di qui», dirà alla vigilia della prima tappa. Vincerà quattro frazioni e la classifica finale. Solo due mesi dopo alla Vuelta a España conquisterà la sua prima vittoria nel massimo circuito battendo allo sprint John Degenkolb e Peter Sagan – e pensate che, riprendiamo quel suo concetto, non si era mai sentito un predestinato.
E su quegli zigomi alti e gli occhi a mandorla ci puoi scommettere sopra come tratto inequivocabile del suo diventare ciclista: non c’è nulla di fraintendibile nella sua fisionomia né nel suo modo di essere o di lavorare. Sangue asiatico, ligio e determinato, passione ed estro australiana. Brucia le tappe in fretta: a diciassette anni conquista il titolo mondiale tra gli juniores nell’Omnium, entusiasmante prova multipla su pista. Erano i mondiali di Mosca e in quell’esibizione incrociò, come ci racconta Jean-François “Jeff” Quénet, uno dei suoi grandi rivali di questi anni di volate su strada: Pascal Ackermann, protagonista con la maglia della Germania e quarto nella gara dell’Omnium vinta proprio dal piccolo australiano.
LA FRANCIA DEL “PETIT CALEB”
Una delle svolte della carriera arriva grazie all’incontro con la famiglia McGee. Bradley “Brad” McGee è stato uno dei ciclisti più importanti e influenti in patria negli anni ’90, insieme all’altro “MAC”, ovvero Robbie McEwen, velocista spettacolare al quale spesso negli anni Caleb Ewan verrà accostato. Caleb inizia a lavorare nel negozio di biciclette dei McGee, gestito da Brad e Rod, due che daranno lustro al movimento su pista australiano laureandosi campioni del mondo dell’inseguimento a squadre nel quale era una presenza costante anche un certo Stuart O’Grady, primo corridore extraeuropeo capace di vincere la Parigi-Roubaix – il secondo e ultimo? Un altro australiano: Matthew Hayman. Quella volta che sconfisse Tom Boonen non è mai stata storia: è entrata subito nella leggenda di questo sport.
Brad, che in carriera conquisterà anche cinque medaglie in diverse edizioni dei Giochi Olimpici, gli fa da mentore, lo aiuta a crescere guidandolo nella New South Wales Institute of Sport (NSWIS), una sorta di accademia dello sport della sua regione. Lo dovrà abbandonare quando Caleb diventa professionista per una sorta di conflitto d’interesse. McGee dal 2017 è è anche il selezionatore della nazionale australiana, eppure non ha mai avuto occhi di riguardo per lui. «In nazionale sono stato poche volte. Per i percorsi misti mi si preferisce Matthews e direi anche a ragione visto i risultati che raccoglie», ma il suo sogno resta il mondiale del 2022 che si correrà proprio dalle sue parti, a Wollongong. «Fatemi il nome di un australiano che conosce meglio di me quelle strade» afferma convinto a Bicycling Australia.
Nel 2011 McGee decide di mandare Ewan in Francia per fare di questo ragazzo un corridore vero. Contatta “Jeff” Quénet, con il quale si conoscevano per gli anni passati in Française de Jeux, e lo spedisce da lui qualche mese per fargli ottenere confidenza con il ciclismo europeo. «Quando andai a prenderlo all’aeroporto di Nantes mi trovai di fronte questo ragazzo piccolino accanto al suo bagaglio bici» ci racconta Quénet «simpaticissimo, occhi vispi e che trasmettevano una determinazione incredibile. Ebbi l’impressione da subito che non sarebbe venuto in Francia per fare una vacanza, ma per studiare per diventare un campione».
Vivrà tre mesi in Francia in un appartamento di proprietà di Quénet ad Angers, dipartimento della Loira, giusto il tempo per capire di che cosa si parla in Francia quando si parla di ciclismo. «La prima cosa che Caleb mi disse fu: “Jeff, c’è una sola cosa che non mi piace del ciclismo: le cronometro! Sapete io cosa ho fatto? Chiamai subito Marc Madiot mi feci mandare una bici da crono e la prima corsa a cui lo iscrissi fu proprio una prova contro il tempo. Mi odiò per questo». L’anno dopo, con quell’esperienza maturata, Caleb Ewan diventa campione australiano proprio della cronometro. «Stavolta chiamò per ringraziarmi, aveva vinto il titolo nazionale davanti ad Alex Morgan, un passista e pistard d’eccellenza all’epoca».
Eppure, in quella breve esperienza francese, non è che fece numeri indimenticabili. La seconda corsa a cui partecipa è una gara internazionale. Vince Oliver Le Gac, all’epoca il campione del mondo juniores in carica. Ewan arriva a giocarsi lo sprint per il quinto posto. Finirà settimo e quella volata la vincerà Guillaume Martin. Anni dopo tra i professionisti i poli si invertiranno: Martin non sarà mai capace di vincere uno sprint di nessun genere, sviluppando ben altre doti, Ewan diventerà uno tra, e a volte il velocista più forte del mondo. «Al Tour di quest’anno ho mandato un messaggio a Martin con la classifica di quel giorno: “Te lo ricordi?” gli ho detto. “Come faccio a dimenticarmi di quella volta che ho battuto Ewan in volata? Mi ha risposto» ci racconta sempre Quénet.
L’unica vittoria di quel periodo arriva in una gara in Bretagna che serve a capire quello che ancora era Caleb Ewan: vince per distacco, in solitaria. «Era la corsa del livello più basso che puoi trovare in Francia in quella categoria, ma Caleb dimostrò di essere comunque più maturo di tutti i suoi coetanei francesi».
Quando Ewan torna in Australia al termine dei quei tre mesi all’apparenza non sembra migliorato, anzi. Torna leggermente sovrappeso perché tra il finire di quel periodo di gare e la partenza per casa sua passano due settimane nelle quali Jeff Quénet gli fa conoscere la cultura enogastronomica francese. «Tornato in Australia sua nonna koreana si lamentò di averlo trovato ingrassato! E lo stesso Caleb si è lamentato che i suoi risultati non eccelsi di quel periodo erano dovuti a una dieta di certo non adatta a un corridore. Ma io non l’ho mai messo in condizione di diventare un corridore, l’ho messo in condizione di scoprire se stesso. Aveva solo diciassette anni e avrebbe avuto tutto il tempo per diventare un campione».
E difatti quella Francia rimarrà sempre dentro Caleb, ne formerà i tasselli del suo vigore protoplasmico, come Jack London definiva i muscoli di Oscar Mathæus “Battlin Nelson” Nielsen nel suo lungo reportage sul “match del secolo” tra James Jeffreis e Jack Johnson e apparso nel 1910 sul New York Herald. Quel disputare cronometro controvoglia, partecipare a corse dove si corre davvero il ciclismo e dove il tifo poi, ricopre un ruolo fondamentale: tutto serve a far cuocere Ewan in un brodo gourmet. «Rimase impressionato dai tifosi» e sempre Jeff Quénet che ce lo racconta. «Quando i suiveur del ciclismo scoprirono che sarebbe venuto da me questo ragazzo di diciassette anni, la casella postale di casa mia si riempì di decine su decine di fotografie con il giovane Ewan, da autografare. Era famoso in Francia nonostante fosse “solo” un campione del mondo juniores su pista. E per non parlare della gara vinta in Bretagna: migliaia di persone a fare il tifo: immaginatevi lui abituato in Australia dove i tifosi sulla strada all’epoca erano solo gli stessi ciclisti o i loro genitori. Ne rimase colpito, strabiliato».
IL PIU FORTE VELOCISTA DEGLI ANNI 2020
Nel Gennaio del 2012, Caleb iniziava la sua seconda stagione tra gli juniores e forte dell’esperienza francese si iscrive, accompagnato da Jeff Quénet, al Jayco Bay Classic, una quattro giorni di kermesse cittadine tra Victoria e Melbourne, in programma i primi quattro giorni dell’anno. Una challenge particolarmente sentite dalla Orica GreenEdge la squadra australiana che negli anni sarebbe diventata riferimento nel mondo del professionismo e che in quei giorni faceva proprio la sua prima uscita della storia. Immaginatevi: il team, praticamente di casa a Melbourne, schiera un terzetto che avrebbe dovuto fare incetta di traguardi per iniziare a far conoscere il suo nome in giro: Allan Davis, Baden Cooke e Robbie McEwen; si punta su tre fra i più forti velocisti del mondo degli anni 2000. I più forti della storia del movimento aussie. Alla partenza della seconda prova, con arrivo al Geelong Eastern Park, Quenet si avvicina a Baden Cooke. «Conosci ‘sto ragazzino?», indicando il piccolo Caleb Ewan. «No», gli risponde con convinzione la maglia verde di quel già citato Tour del 2003. «Beh, a fine corsa imparerai il suo nome». La prova la vince Ewan, contro professionisti più grandi ed esperti, lo fa indossando la maglia della NSW Institute of Sport e guanti e calzetti della Saxo Bank. Caleb vincerà anche la quarta e ultima prova, precedendo Howard, campione del mondo su pista e Davis, bronzo mondiale su strada due anni prima proprio in Australia. Il direttore di corsa John Trevorror ricorda così quel giorno su cyclicst.co.uk. «Leigh Howard precedeva Allan Davis nell’ultima curva e sembrava scontata la prima vittoria del team Orica. Caleb è uscito dalla terza ruota e ha superato due velocisti di livello mondiale così facilmente da farmi girare la testa. Ricordo che Phil Liggett (storico giornalista inglese N.d.A.) disse all’epoca che Mark Cavendish e Robbie McEwen non avrebbero potuto fare di meglio». Ma non solo, per Phil Liggett Ewan era superiore a Cavendish alla stessa età e si sarebbe immaginato dall’australiano un futuro «Più da corridore alla Gilbert che alla Cannonball».
E qui arriviamo alla domanda che avremmo dovuto porci all’inizio: che velocista è Caleb Ewan? Iniziamo col riprendere le sue parole, di quando era ragazzino e rispondeva ai giornalisti del suo paese dicendo che: va bene la tanta attività in pista, va bene andare forte nell’Omnium (e quindi in tutte le discipline che lo compongono), la velocità di punta e la buona resistenza, ma teniamo presente come lui, inizialmente, era considerato uno che sapeva facilmente scollinare davanti le brevi salite. «Le mie caratteristiche? Qui in Australia mi considerano praticamente uno scalatore, mi difendo bene quando la strada sale, ma se dovessi diventare professionista mi vedrei meglio come velocista». E tra gli Under 23 Caleb Ewan era uno che ti ritrovavi sovente negli ordini d’arrivo delle corse più impegnative del calendario. La vittoria al Palio del Recioto, al suo primo anno da dilettante, è un segno utile a identificare le caratteristiche di un corridore che “diventerà uomo da classiche”. Non solo la prova internazionale che si corre a Negrar, provincia di Verona; la settimana dopo conquista La Côte Picarde, prova di Coppa delle Nazioni su un tracciato impegnativo andando via nel finale con gente come Simon Yates, Sean De Bie e Jan Polanc e regolandoli allo sprint. E i risultati ottenuti dal 2012 al 2014 nelle rassegne iridate giovanili non possono che rafforzare questo concetto. Argento mondiale juniores a Valkenburg su un percorso da classiche, quarto a Firenze e secondo l’anno dopo a Ponferrada tra gli Under 23 sempre distinguendosi più come corridore resistente e dallo spunto veloce che come sprinter puro.
Ma passato professionista qualcosa cambia, scatta una molla che lo rende veloce, velocissimo. Potente – il famoso vigore protoplasmico di Jack London. Una pallottola senza gravità con quel suo modo particolare di sprintare curvo abbassato al limite della coerenza sul manubrio della bici, il colpo d’occhio da giocatore di cricket, l’abilità nel saltare da una ruota all’altra e di emozionare in quei momenti così convulsi chiamate volate, quelle azioni che a volte vorresti fare a meno di vedere per quanto ti preoccupi per i loro protagonisti, come fossero i personaggi di un film d’azione a cui ti sei affezionato. Velocista ci nasci, lo aveva detto, lo abbiamo scritto all’inizio di questa storia, ma diventare velocista è una questione di pratica, di immersione totale, di coraggio. Di scelte dolorose ma condivise, e di sacrifici.
La prima scelta dolorosa è il divorzio dal gruppo Orica, quello che lo ha portato al professionismo, che gli ha permesso di vincere una tappa alla Vuelta al primo anno nel World Tour e di imbarcarsi dall’Australia all’Europa e di viaggiare, ma non solo semplicemente viaggiare: pagato per viaggiare. Quella cosa che, quando chiedi a un corridore cosa ti piace del tuo mestiere, lui la metterà sempre al primo posto. Con quel Shayne Bannon che lo volle fortemente nel progetto Orica-GreenEdge dopo averlo conosciuto ragazzino alla presentazione del Tour 2012. Era l’autunno del 2011 e Caleb andò insieme a Jeff Quénet al Palazzo dei Congressi di Parigi. «Caleb non poteva crederci: era estasiato. Erano presenti cinquemila persone per quell’evento».
E quindi Caleb è ormai chiaro come corra a pane e Tour. Lascia “casa” Orica (ormai diventata Mitchelton Scott) dopo essere rimasto per l’ennesima volta escluso dalla selezione per la corsa francese: le tappe vinte al Giro e alla Vuelta non gli bastano, nemmeno quelle semiclassiche dove il piccolo australiano riesce a mettere la sua ruota davanti a tutti,. Il Tour è quel sogno inseguito sin da quando si alzava la notte d’inverno da bambino.
Allora chiude con l’Australia e viaggia in Belgio. Lascia la sua squadra per correre in maglia Lotto. Sempre grazie al ricordo di Jeff Quénet, scopriamo di quando Caleb nel 2011 andò a Parigi e si fermò sugli Champs-Élysées per fotografe la zona dove ogni anno arriva la Grande Boucle. «Ricordati Jeff» gli disse «un giorno io vincerò su questo traguardo». Seppure in leggero ritardo sulla sua tabella di marcia, quella vittoria arriva nell’estate del 2019.
Ma parlavamo di scelte: la seconda è straziante, ancora più che dolorosa. Nel 2019 infatti, Caleb e sua moglie Ryann hanno la loro prima figlia. La piccola nasce prematura di sei settimane ed è costretta a restare per un mese in ospedale proprio a ridosso della partenza del Tour per il quale Caleb aveva sacrificato anni della sua vita e ne aveva condizionato anche le scelte professionali. «Non poteva respirare da sola, non poteva mangiare da sola e io ho dovuto andare via proprio un paio di giorni prima che lei uscisse dall’ospedale. Avrò sempre il ricordo di non essere stato io a portare a casa mia figlia» e la prima volta che Caleb la vede senza macchine attaccate è il secondo giorno di riposo della corsa francese. «Concentrarmi per il Tour è stato difficile, quasi impossibile: pensavo solo a lei a casa, volevo solo passare del tempo con lei, e allo stesso momento mi stavo preparando per la corsa più importante della mia vita» Quella per il quale il Caleb bambino si alzava in pieno inverno alle tre di notte.
Oggi Caleb si gode la figlia facendo «quelle cose che fanno tutti i papà». È un corridore affermato e tra 2019 e 2020 ha vinto diciassette corse, tra le quali cinque tappe al Tour, due al Giro, la Brussels Cycling Classic e lo Scheldeprijs – senza dimenticare il secondo posto alla Sanremo anticipato solo da Vincenzo Nibali. Qualcuno ancora mette in dubbio il suo status di migliore (e più spettacolare) velocista al mondo: beh quel qualcuno vada a rivedersi la volata della terza tappa al Tour de France di quest’anno. Ai 150 metri Ewan è ancora in sesta, settima posizione, dribbla tutti come un Maradona sui pedali e infila Sam Bennett sulla linea del traguardo. Pochi dubbi: il piccolo Ewan è diventato grande. Il piccolo Ewan, oggi, è il velocista più forte del mondo.
Foto in evidenza: ASO / Pauline Ballet