“Contador, por qué non te gusta il Crostis?“. Un pensiero venuto giù di getto e scritto su un cartello che fa il giro delle ultime rampe dello Zoncolan racconta la beffa e l’ironia di quella giornata, 21 maggio 2011, e a reggerlo c’è pure Enzo Cainero, personaggio che chi mastica ciclismo conosce bene.

Grazie a lui lo Zoncolan non si erge più solamente in mezzo al verde oscuro delle Alpi carniche, ma diventa passaggio decisivo al Giro d’Italia. Meta di pellegrinaggio, posto sacro, “il mostro”, luogo ambito da turisti e cicloamatori, siano essi friulani, triestini o che vengano da un po’ tutta Italia ed Europa fa lo stesso: una rampa infinita descritta anche in modi raffinati, e nonostante la sua giovane età dal punto di vista ciclistico fa paura come il mostro, per l’appunto centenario, di un racconto di fantasia. La sua idea era quella di ripetere l’operazione con il Crostis: farlo uscire dal suo guscio di piccola realtà conosciuta al turismo locale e trasformarlo, dandogli un altro contesto a livello (inter)nazionale. Quella volta bisognava fare i conti, però, con una corsa che già aveva pagato un pesante tributo al destino, solo qualche giorno prima, e allora la storia andò diversamente.

La polemica sull’annullamento della scalata del Crostis e della successiva discesa lascia tuttavia strascichi ben evidenti anche al giorno d’oggi, tanto che se ne parli con qualche tifoso della zona se lo ricorda bene, che se ci ripensa ti insulta, perché schietto e orgoglioso della sua terra e in quanto robusto di costituzione non avrebbe nemmeno paura ad affrontarti – succede davvero: provare per credere.

E a proposito di insulti: quelli verso Contador si sono esauriti quel giorno, quando la maglia rosa venne subissato di fischi e ululati lungo quelle linee nervose che salivano fino alla cima dello Zoncolan. Che poi Contador c’entrasse qualcosa con quella decisione, o che fosse stata una scelta presa solo da RCS magari su pressione di Riis, all’epoca team manager dello spagnolo – c’è chi dice per paura di attacchi degli avversari in discesa -, oppure a causa della provvidenza (mai divina, ma solo messa di traverso), poco importa. Diciamo che le condizioni per correre tutto sommato c’erano, la strada fu messa in totale sicurezza, ma si decise di non affrontare quel tratto; e forse è meglio non tornarci sopra adesso, tredici anni dopo: con tutto quello che è passato verrebbe fuori solo un patetico materiale per nostalgici. E poi anche perché quel Giro, come accennato, aveva già vissuto il suo prologo drammatico con la morte di Wouter Weylandt; l’episodio ha pesato nelle decisioni prese e vivrà il suo epilogo kafkiano con la squalifica postuma di Contador per un caso di doping relativo alla stagione precedente.

E allora si torna alla chiave agonistica: ad Alberto, Alberto da Pinto, il Pistolero, Albertino, il favorito, la maglia rosa, Contador – insomma, chiamatelo come volete. Si torna a quando lascia sul posto, in un tratto tra il duro e il durissimo – quello prima delle gallerie – Vincenzo Nibali, il quale, caricato dai fischi, diventa duro e durissimo nei confronti del rivale, e a fine tappa col volto corrugato dirà: «Mi ha mancato di rispetto, però non è finita». Nibali si lamenta (sic) di non aver ricevuto un cambio che fosse uno da Contador. Che poi, un cambio sullo Zoncolan! Sarebbe più corretto, a distanza di anni, derubricare il tutto a scaramucce dialettiche piuttosto che a diatribe tattiche e agonistiche. Nibali prova a staccare Contador, ma non ci riesce e finisce per essere staccato, e da corridore di classe e quindi orgoglioso non digerisce bene quella circostanza. E Contador lo attacca, quel giorno, e difatti lo stacca, guadagna quella manciata di secondi utile a sommarsi al vantaggio già accumulato in precedenza per vincere il Giro d’Italia; e sappiamo tutti che sarà così alla fine, anche se poi gli verrà tolto a causa di una bistecca contaminata. «Io penso alla classifica, ogni secondo di vantaggio guadagnato oggi sarà prezioso a Milano». racconterà a caldo. E alla fine avrà ragione.

Trittici

 

Parlare dello Zoncolan serve a introdurre quello che succede il giorno dopo, quando si riprende a mulinare contro salite che ti arrivano addosso una dietro l’altra, per chiudere quel trittico di tappe di montagna inaugurato dal successo di Rujano e proseguito con il canto sullo Zoncolan di Igor, di nome, Antón, di cognome, forte scalatore basco che suona meglio quando lo chiami Igorantón, come fosse un cantautore spagnolo in voga dagli anni cinquanta ai settanta. Il basco incide un 45 giri di successo intitolato, nel lato A: “Por qué me gusta lo Zoncolan“, mentre nel lato B scriverà, il giorno successivo, come fosse la parte oscura della sua luna: “Tengo male alle gambe“, e scenderà in classifica.

Una graduatoria che vedrà, proprio alla vigilia del tappone dolomitico, Contador in maglia rosa, Nibali a 3’20”, Igorantòn a 3’21” e Scarponi a 4’06”. Ma di quel 22 maggio 2011 è importante, sì, conoscere la classifica al mattino, ma anche sapere che si parte da Conegliano con il sole per salire su, su, su, fino al Rifugio Gardeccia, con la pioggia. Dalle Alpi Carniche alle Dolomiti trentine. In Val di Fassa, con la strada che si affaccia sui Dirupi di Larséc e il traguardo che guarda fisso verso le guglie del Catinaccio: quel classico paesaggio del quale a un corridore in quel momento gliene può fregare di meno. Un paesaggio che vende un sacco perché le Dolomiti sono un posto meraviglioso e preso di mira da turisti, e almeno una volta nella vita andrebbero visitate. Quindi, se esiste davvero qualcuno che sta leggendo e non c’è mai stato, vi esorto: andateci appena potete.

Ma torniamo all’aspetto agonistico, che è quello che forse si addice meglio al nostro modo di operare: si va su verso Rifugio Gardeccia, che non è poi proprio un su, su, su – si è visto di peggio -, ma saranno comunque quasi sette ore e mezza. Per i precisetti: sette ore e ventisette minuti. Piancavallo, Forcella Cibiana, Giau – qui davvero si sale fino a superare le nuvole: Cima Coppi di quel Giro -, Fedaia, Rifugio Gardeccia: circa seimila metri di dislivello. Il guaio è che oltre alle salite c’è brutto tempo: anzi, quella situazione di sole misto a pioggia che ti scalda e poi ti raffredda, sudi e poi ti si attacca tutto addosso e se non stai attento e non porti la maglia di lana o le pagine di un giornale ad asciugarti, oppure vestiario tecnico all’avanguardia, il giorno dopo ti svegli con una bella bronchite.

E poi, oltre al meteo, si arriva da giorni duri: lo Zoncolan ti resta nelle gambe per settimane, ti sfianca l’anima, rischia di rendere queste fatiche insopportabili. Immaginate chi non ha recuperato bene dal giorno prima a cosa può andare in contro: è un guaio per i corridori, è spettacolo per gli occhi di chi segue e tifa. Ne disegnassero più spesso di tre giorni così, piuttosto che esperimenti da far arricciare il naso come le tappe di montagna da sessanta chilometri che non sono buone neppure per gli Under 23 o quelle pedalate in mezzo alla pianura padana di duecentotrenta chilometri, che sembrano processioni di Ferragosto in un paesino del sud e sono buone solo per far scappare il pubblico dal ciclismo.

Cercatori di fortuna

Ad ogni modo si parte col sole tutti assieme, si arriverà uno dopo l’altro con la pioggia e con il terreno che sembra sfaldarsi sotto le ruote. Si parte con le gambe già dure, la maggior parte dei corridori arriveranno trascinandosi come se addosso avessero attaccati i piedi di qualcun altro. Chi ha negato, mentiva.

Non serve dilungarsi troppo per descrivere cosa succede nella prima parte di corsa, volendo si può leggere tutto di un fiato. Lungo Piancavallo, ancora Friuli, il solito canovaccio scritto da sceneggiatori con poca fantasia se non nello scegliere i nomi dei protagonisti: Sella, Hoogerland, Popovych, tre che poi diventano sei. La carovana di ricercatori d’oro e di fortuna raccoglie altri carri per strada lungo i tratti tra la valle e la Forcella Cibiana: diventano all’improvviso diciassette e poi diciotto, e in mezzo c’è pure Stefano Garzelli, che la sua numero uno l’ha già guadagnata, così come la sua fortuna l’ha già messa via; ma non si sa mai, di questi tempi, e allora dato che il tempo è relativo, almeno così hanno spiegato, lui alla bellezza di trentotto anni, un’età che se corri in bici forse sei vecchio ma se scendi dalla bici forse sei troppo giovane, si lancia come se ne avesse almeno una decina di meno, magari ripensando ai tempi in cui un Giro lo aveva portato a casa.

Decide che è il momento propizio per regalarsi un’impresa, per dirla proprio come se stessimo leggendo un vecchio dispaccio, e quindi dopo essere rimasto con Hoogerland lo stacca e resta da solo quando di chilometri ne mancano una sessantina. All’improvviso, dopo la pennichella pomeridiana, siamo sul Giau. “Se proprio devo provare a vincere, lo faccio bene”, pensa il varesino, “se proprio mi vengono a riprendere, almeno un bel ricordo di questa fatica ce l’avrò”: e allora l’ambito traguardo dedicato a Fausto Coppi è suo, così come i punti necessari per la maglia verde di miglior scalatore del Giro. Dietro, intanto, Nieve sale senza strafare; è quel volpone che si dimostrerà spesso nelle tappe di montagna: uno che se va in fuga difficilmente sbaglia. E poi volete mettere, il giorno prima ha vinto Igorantón, suo compagno nella piccola e amata da tutti Euskaltel-Euskadi, e oggi ci prova lui, Mikel Nieve Iturralde, ieri un cantautore, oggi un elfo guerriero del ciclo di racconti di Terry Brooks. Il Giro è una pozza di storie meravigliose da cui attingere, non c’è da inventarsi proprio nulla.

Intanto il gruppo della maglia rosa si assottiglia e perde terreno – fino a quasi dieci minuti -, distacco che scende mano a mano che i corridori si avvicineranno al traguardo. Davanti fanno un pensierino alla vittoria di tappa. Sfatiamo il mito del fuggitivo esibizionista e un po’ sadico o buono per un feuilleton: mica si nasce solo per scappare via lontano da tutto e mai più tornare indietro, o mettere in mostra lo sponsor o le cosce muscolose, e nel caso degli scalatori le caviglie come grissini. Si va in fuga e si pensa a vincere la tappa. Mikel Nieve, poi, pensa addirittura alla maglia rosa, come quando da ragazzini prima di addormentarsi si ha in testa la compagna di banco in prima fila che nemmeno per sbaglio ti sorride, forse per timidezza, forse perché gli stai antipatico. E purtroppo per lui anche quella maglia rosa sarà virtuale, anche se, c’è da riconoscere, l’arancione nel ciclismo calza con tutto e quindi alla fine va bene così.

L’atmosfera, a poco a poco, inizia a mutare assumendo i contorni di una cornice oscura che racchiude un quadro allegorico pieno di volti scavati dalla fatica, mentre le nuvole si ingrigiscono sempre di più e sembrano domandarsi chi sono quegli strani esseri colorati che le attraversano. Il romanzo d’appendice non è più rosa né arancione, ma si fa minaccioso. Più si sale verso i 2236 metri del Passo Giau e più muri di pietra e vegetazione si tramutano in barriere di neve. Processo naturale, geografia del territorio, il Giro che impartisce lezioni meglio che a scuola. Garzelli passa per primo dopo essersi sbarazzato di Jonny Ho’, che ancora non si era visto investire da un auto al Tour de France – succederà poche settimane dopo, e un giorno, promesso, ci ritorneremo. Il tutto mentre Nieve, col suo passo delicato, scollina a meno di un minuto da Garzelli.

La Marmolada

 

Superato il Giau, all’orizzonte c’è il Fedaia, perché se gli sceneggiatori nello scegliere i fuggitivi hanno ben poca fantasia, nel disegnare la tappa sono sadici e infilano in mezzo a tutta quella sequela di salita e discesa una delle strade più dure della zona. Come se dopo una pugnalata ti dessero un sacco di botte in testa. Nibali prova a impartire lezioni di guida e allunga nella discesa del Giau, si sblocca e quel suo pelo sullo stomaco gli tornerà utile un’oretta più tardi, il tutto mentre Contador veste i panni dell’animale politico e si contorna di alleanze: il destino del siciliano sembra spacciato.

Contador, in quel Giro molto spagnolo, si avvale dell’aiuto di altri corridori che arrivano più o meno dalle stesse zone: Igor Antón, Arroyo, Lastras si tramutano in compagni di merende ed è come se gli offrissero il caffè al bar dandogli pacche sulle spalle perché convinti che il prossimo giro, finito il Giro, lo offrirà proprio Contador. In parole ciclistiche: si riveleranno fondamentali nel tenere a galla la maglia rosa inseguendo il suo rivale più pericoloso dandogli una mano a tenere alto il ritmo. Un giorno quel favore potrebbe essere ricambiato. «Di aiuti veri ne ho avuti pochi. La Movistar tirava per il suo capitano», racconterà Contador, incalzato dai giornalisti al termine di quella fatica.

Quello di Nibali in discesa si rivelerà un attacco velleitario, ma che serve a far conoscere le sue abilità e a farci sobbalzare con le pulsazioni a mille; lui che, comunque vada, ci prova sempre. «Preferisco rischiare di saltare che andare a dormire con rimpianti», dirà a fine tappa, come fosse il manifesto della sua carriera.

Ed è così che si approccia la Marmolada, cielo di piombo come pallottole che verso la cima cominciano a fischiare. Davanti Garzelli prova a tenere fede alla sua idea del mattino e picchetta verso il tramonto che magheggia di sottecchi nascosto tra le nuvole e le cime dolomitiche. Nieve ragiona ancora bene e tiene Garzelli a tiro, scollinando a meno di un minuto. Per qualche ora lo scontro tra i due sembra un’asfissiante cronometro individuale.

Il gruppo maglia rosa un po’ più indietro, mai sazio, inghiotte chi può dei fuggitivi del mattino, uno dopo l’altro, mentre Contador si scrolla di dosso le fatiche dei giorni prima, gli insulti dello Zoncolan, l’affaire Crostis, e pure l’ingombrante presenza di Nibali che va in difficoltà, perché il Fedaia lo si affronta in salita, e in questo momento lui avrebbe preferito fosse in discesa, soprattutto quando si passa da Malga Ciapela, che se la fai in auto a scendere ti sembra lo strapiombo di una giostra, se la fai in bici, a salire, è una parete per arrampicatori.

Piove fitto, adesso; «piove… e fa freddo», annuncia Savoldelli dalla moto-cronaca con il suo marcato accento delle valli bergamasche. Nibali si salva perché ha sempre trovato nella costanza e nella capacità di gestire i momenti complicati quella sostanza con cui portare avanti la materia, e scollinerà con un minuto di distacco dal gruppetto di Contador, che vede al suo interno oltra la maglia rosa, anche Rujano, Scarponi, Gadret, Purito Rodríguez, Arroyo, Menchov, Kreuziger. Una brutta banda di gente adatta alla salita.

In cima Nibali prende una borraccia da un tifoso, «un membro del suo club», spiega Martinello in telecronaca, e poi lucido si infila la mantellina, e nella discesa della Marmolada, verso Canazei, rischia tutto per rientrare – Nibali, non Martinello. Zig zag tra le ammiraglie, curve prese come se fossero rettilinei, corridori che per seguirlo rischiano di lasciare sul proprio corpo ricordi indelebili: ti accorgi di quanto Nibali sia bello da vedere in picchiata, nel momento in cui scruti la difficoltà di Sarmiento e Petrov che a confronto sembrano saliti sulla bici per la prima volta. Il siciliano recupera lo svantaggio, ma sarà solo un’illusione; Contador, invece, è tranquillo come un vecchio giocatore di scacchi che conosce a memoria ogni giocata del suo avversario e sa già da che parte penderà il risultato finale di quella partita.

Erta finale

 

E dopo un lungo tratto in falsopiano arriva quell’ultimo capezzolo che porta fino in cima, il protagonista di questa tappa e di questa storia: il Rifugio Gardeccia. Salita vera, nonostante la lunghezza: sono sei chilometri che detto così ti verrebbe da mettere la mano a cucchiaio ed esclamare embè, e invece no, è erta terribile. E poi aggiungiamoci che spesso il meteo è figlio del dispetto e quindi, se vuole rendere più dura quella giornata, eccolo spruzzare un po’ di pioggia qua e là e quando schizza ne fa venire giù così tanta da bagnarti fino alle ossa, da rendere il terreno un tratto d’acqua da affrontare controcorrente. Mentre i corridori erano impegnati in quell’amaro su e giù tra i monti bellunesi, infatti, tempeste d’acqua si scatenavano su quei circa seimila metri finali rendendo ancora più complicato il nobile atto del pedalare.

Appena superato il cartello dell’inizio della salita, Nieve piomba su Garzelli come un fuorilegge gentiluomo: ha una bandana e un fucile e Garzelli alza le mani, ormai ha capito che per per vincere ci vorrà uno di quei miracoli che in bicicletta di solito non accadono. Nieve lo stacca di prepotenza, mentre la pioggia torrenziale inizia a dare tregua stavolta usando una forma di rispetto verso i corridori. Poco dopo le cinque di quel pomeriggio, il ragazzo basco in arancione taglia il traguardo ed esulta a fatica, tenendo il manubrio con una mano ed esultando con l’altra (altrimenti sarebbe caduto a terra), lasciando cadere persino qualche lacrima. Con un filo di voce dirà: «Tappa eterna, nel finale mi sembrava di morire, è un sogno. Quando sono passato professionista non avrei mai pensato di poter fare questo».

Garzelli chiude con un ritardo di 1’41” – dieci secondi prima di Contador – e appena tagliato il traguardo il massaggiatore lo regge per evitare che cada a terra; il suo viso è tagliato in due dalla fatica, dalla pioggia, dal sudore, mentre dalla testa pelata spunta una leggera peluria come se gli fosse cresciuta per la fatica in quelle interminabili sette ore e mezza. Almeno la giornata verrà ripagata dalla maglia verde – e dal ricordo che resterà. «Ho fatto un’impresa, pazienza se non ho vinto. Non credo che avrò le forze per ripetere una giornata del genere».

E dietro che succede? Contador attacca, troppo ghiotta l’occasione per guadagnare ancora su Nibali, fino a quel momento il suo avversario più vicino in classifica; Scarponi usa il suo passo e si salva, non commette l’errore di rispondere subito alle stilettate dello spagnolo della Saxo Bank, e la sua perspicacia gli permetterà di finire dietro di soli sei secondi scavalcando Nibali in classifica generale. Alle spalle di Contador e Scarponi finiscono nell’ordine: Gadret, Rujano, Nibali (a 3’34” dal vincitore) in compagnia di Rodríguez, poi Kreuziger e a chiudere la top ten un giovane Kruijswijk a 4’13”. Mentre l’eroe del giorno prima, Igor Antón (Igorantón), finirà diciassettesimo a 7’59”. Come si sarebbe detto in altri tempi, distacchi d’altri tempi, per una tappa che almeno una volta nella vita va rivista e raccontata e che andrebbe riproposta più spesso nel disegno della Corsa Rosa.

Quel Giro 2011 continuerà nel nome di Contador, capace di vincere dopo il giorno di riposo la cronoscalata sul Nevegal. Farà anche in tempo a concedere all’amico Tiralongo la vittoria sul traguardo di Macugnaga, il terz’ultimo giorno di corsa, oramai forte del successo finale.

Il 6 febbraio del 2012, dopo una serie di batti e ribatti degni di un orrendo match di tennis, il TAS condannerà Contador a due anni di squalifica con effetto retroattivo. Gli verranno tolti, tra le altre corse, il Tour de France del 2010, che finirà nel palmarès di Andy Schleck, e le nove vittorie ottenute la stagione successiva nel 2011, tra le quali due vittorie di tappa e la classifica finale di quel Giro d’Italia 2011 – assegnato così a Scarponi. Mentre resterà dentro di lui e di tutti quelli che l’hanno vissuto il logorìo del tappone dolomitico che il 22 maggio ha portato i corridori da Conegliano fino al Rifugio Gardeccia. E basterebbero le parole dello spagnolo a fine tappa per riassumere tutto, come fossero la pagina del libro più corto del mondo che racconta la giornata più lunga della storia recente del Giro d’Italia: « È stata una tappa terribile, la più dura della mia vita».

Questo articolo è apparso sul sito https://www.suiveur.it/ nel 2020
Foto Sprint Cycling Agency