Certe volte le parole filtrano dagli occhi; lì dentro si può vedere tutto. Ieri pomeriggio, gli occhi di Vittoria Bussi riflettevano le strade di Imola, il tempo e alcune delle parole che ci siamo detti quando era ancora inverno. Così, negli intervalli di quelle lancette a scandire i secondi, mi sembrava di risentire la sua voce quando le chiesi se non la spaventasse l’idea della solitudine: ”Sai, tutti abbiamo paura di restare soli. Per questo la cronometro spaventa: perchè sei solo. Io ho imparato a convivere con la solitudine nelle notti trascorse in ospedale ad assistere papà quando lui non poteva parlare, non poteva dire niente. Notti lunghissime, l’alba non arrivava mai. In un silenzio che silenzio non è, perchè il silenzio dell’ospedale è intriso dei rumori tipici dell’ospedale. Su una sedia, con i miei fogli, a rivedere appunti di matematica. Notti di angoscia. In quel momento ho dovuto imparare a restare sola, per quanto mi facesse paura. Per questo oggi la solitudine non mi spaventa più. Per questo oggi so affrontare la solitudine. Ho imparato, pur non volendo ho dovuto imparare. Le cronometro sono solo pezzi di vita in cui sei solo. In tanti pezzi di vita si resta soli. Non bisogna averne paura”. Ci fu un giorno in cui Vittoria Bussi morì di paura: era il 2009 e lei era in Inghilterra per motivi di studio, Vittoria ha studiato matematica all’università. Le arrivò una telefonata, una di quelle che nessuno vorrebbe mai ricevere: ”Papà è ricoverato in terapia intensiva, ha avuto un’emorragia celebrale. Fatti coraggio!”

Vittoria è tornata in Italia per papà. È stata al suo fianco fino al 2012 con tutto quello che aveva e oggi continua a vivere per lui: ”Mi reputo atea, non credo, ma sono convinta che la tragica vicenda di papà mi abbia lasciato uno degli insegnamenti più importanti che un padre può lasciare a una figlia. Mi ha fatto capire quanto è importante la vita. Lui amava follemente la vita e la malattia non gli ha dato la possibilità di vivere. Io, da quel giorno, è come se vivessi per due, anche per lui. Ho abbandonato le scelte a lungo termine, ho scelto di fare ciò che avrei voluto fare da sempre, senza rimpianti o rimorsi. Io voglio godermi la vita. Ho un’energia diversa, come se avessi due persone dentro di me. Io vivo per due”. E non importavano nulla le parole della gente, anche di coloro che le volevano bene: Vittoria aveva deciso, Vittoria voleva vivere più forte che mai, voleva essere più viva che mai. ”Mia madre mi adora, ma allora non capì subito. Tu pensa a una donna già distrutta dalla perdita del compagno di una vita che si ritrova la figlia che impazzisce e butta alle ortiche una carriera accademica. Come poteva capirmi?”Così è arrivata al ciclismo e lo ha fatto con la chiarezza e la schiettezza che la contraddistingue: «Purtroppo, almeno all’inizio, ho trovato poca comprensione per le persone ancor prima che per gli atleti. Per questo ho deciso di fare una mia squadra. Ma sono sempre stata chiara, non ho litigato con nessuno: ho detto chiaramente ciò che mi piaceva e ciò che non mi piaceva. Bisogna essere espliciti, senza sotterfugi. Credo sia un dovere di ogni essere umano».

Il suo ciclismo è quello dei volti che le hanno fatto del bene e di una condivisione viscerale. In primis con il suo compagno, Rocco. Quell’ora, quel Record dell’Ora, è una cosa loro: «Lui non mi ha mai abbandonato. Anche quando ho stravolto la mia vita brancolando nel nulla, ha affrontato tutti i sacrifici con me, rinunciando a tante cose in prima persona. Certe volte spingendomi lui stesso a fare le scelte che volevo. Il Record dell’Ora non è solo mio, è nostro. Quel giorno lui ha veramente pedalato con me: non avevo alcun contatto con l’esterno, lui era in pista. Non lo vedevo ma sentivo la sua voce. Mi tenevo a galla con quel suono. Quelle corde vocali erano il mio tutto». Vittoria mi ha raccontato che, quando la chiamò Dino Salvoldi per convocarla al mondiale dello scorso anno, era in cucina: «Avevo già gli occhi pieni di lacrime ma non si piange al telefono. Ero felice, di una felicità rara. Aspettavo solo che si concludesse quella chiamata per piangere, per piangere a dirotto. Piangere di gioia». Non sappiamo, ma ce lo faremo raccontare, cosa è accaduto quest’anno quando Salvoldi l’ha chiamata. Sappiamo però cosa è accaduto ieri: Vittoria Bussi è fra le prime dieci al mondo. E abbiamo tutti meno paura.

Foto: Bettini