La riforma del Codice della Strada approntata dal governo, approvata alla Camera dei deputati ed in arrivo al Senato della Repubblica, è al centro del commento degli esperti, delle associazioni dedicate e dell’opinione pubblica. Alvento, attraverso questo ciclo di interviste, si propone di passare in rassegna le diverse voci in merito, analizzando il testo ed individuando, criticamente, punti di forza e punti di debolezza, provando, inoltre, ove possibile, a suggerire valide alternative, argomentate basandosi sui dati ufficiali disponibili a riguardo. Il primo professionista con cui ci siamo confrontati è Roberto Peia, dell’associazione “Città delle persone”.
L’appunto iniziale di Peia riguarda proprio quei dati che abbiamo citato all’inizio come base necessaria intorno a cui sviluppare riflessioni sensate di qualunque tipo, sul Codice della Strada come su qualunque altra tematica: «Il dramma è che, purtroppo, il cittadino italiano medio sembra incapace di leggere i numeri delle relazioni ufficiali. Provo a snocciolarne alcuni: il 73% degli incidenti con cause gravi, tra cui la mortalità, avviene su strade urbane e le principali cause di decesso sono la velocità, la distrazione, il mancato rispetto della precedenza ed il non rispetto, ad esempio, delle strisce pedonali. Sempre i dati-prosegue Peia- mettono in risalto come, al calare della velocità, calano in maniera brusca le conseguenze dell’incidentalità: un impatto a cinquanta all’ora è completamente differente da uno a settanta o da uno a trenta. Su questo non vi sono e non possono esservi dubbi, sono numeri, sono certezze, è scienza». Tuttavia il Codice della Strada a cui si sta lavorando, purtroppo, segue un’altra direttiva che va in direzione diametralmente opposta.
«Ostacola i comuni nella creazione di zone ZTL, ostacola, allo stesso modo, la riduzione della velocità, limitando l’uso di autovelox e riducendo le multe dovute all’alta velocità e all’accesso abusivo a zone a traffico limitato o ad aree pedonali; mentre, in precedenza, la sanzione era corrispondente ad ogni accesso effettuato, con la riforma sarà multato solo un accesso ogni giorno. Inoltre si delega al governo la possibilità di innalzare i limiti di velocità in alcune zone, accentrando ogni aspetto al ministero». Questa sorta di reticenza nell’intervenire sull’elemento velocità, Roberto Peia la commenta facendo riferimento a decenni di campagne pubblicitarie costruite su un martellamento e condizionamento costante legato al piacere della velocità, ai motori ed ai cavalli, un bombardamento che ha plasmato intere generazioni, puntando alla “pancia” degli utenti della strada, facendo leva sulla rimozione di limiti e regole- così anche chi “trancia” autovelox ha il suo momento di gloria- più che alla loro razionalità e a una corretta cultura e conoscenza. «Non voglio essere frainteso: l’elemento velocità affascina l’essere umano, anche in bicicletta si ricerca la velocità e si prova un sottile piacere nel raggiungerla. Non lo nego. Il punto è che, essendo la strada luogo di condivisione, la velocità rischia di ledere altri utenti e, se un tuo “divertimento” mette a repentaglio la vita di altre persone, hai il dovere di fermarti, di ragionare. Le nostre città, poi, a questo sommano il problema di non essere pensate a misura di persona o di bicicletta».
Diversi sono gli esempi di grandi metropoli che hanno compreso la necessità di cambiare negli ultimi anni: dalla vera e propria rivoluzione in tema attuata a Parigi, a Londra, sino a Valencia dove si è arrivati a deviare il corso di un fiume per seguire questo ragionamento.
Differente è la realtà italiana, ancora arretrata sotto questo punto di vista: «Una ricerca basata sulla Spagna sottolineava l’opportunità, anzi, la necessità di aumentare le “zone 30” in corrispondenza di luoghi che abbiano una realtà architettonica e monumentale importante, al fine di garantire sicurezza e ridurre il traffico. Sappiamo tutti che, se aumentano i ciclisti, si riduce il traffico, che pedalare migliora la salute, riduce le spese sanitarie. Sì, lo sappiamo, ma non lo applichiamo». Il nuovo Codice della Strada agisce bloccando, spesso, la possibilità di nuove corsie ciclabili e di strade ciclabili, interviene sui doppi sensi e impone la targa e l’utilizzo del casco per i ciclisti. «Purtroppo non si trova ascolto, sia a livello di ministero che di comuni, quindi di realtà che dovrebbero essere più vicine ai cittadini. Cito l’esempio della statua che abbiamo dedicato, poco tempo fa, ai “ciclisti urbani pazienti” a Piazza Lugano, a Milano, al fine di omaggiare la resistenza dei ciclisti. La storia inizia cinque anni fa, quando, attraverso il bilancio partecipato del Comune, i cittadini avevano chiesto la realizzazione di una ciclabile su questo tratto di strada, verso il Ponte della Ghisolfa, molto trafficato, dove gli automobilisti raggiungono alte velocità. Il bando è stato vinto, ma, da quel momento, non è stata realizzata alcuna ciclabile e non abbiamo più avuto notizie a riguardo. Alcuni cittadini l’avevano tracciata di notte: rimossa completamente. Si tratta di un vero e proprio muro di gomma, spesso basato su convenienze elettorali». Le automobili, nel frattempo, aumentano le loro dimensioni, tendono, spesso, a rappresentare uno status sociale, allora “avere un SUV fa belli” e, celandosi dietro questa apparenza, si fa spazio la credenza di avere più diritti degli altri utenti della strada. «Il SUV, attraverso la sua dimensione, restituisce la sensazione, errata, di essere maggiormente protetti: non è così. Non solo: il milanese medio, in questo periodo, è molto infastidito dalla problematica delle buche sulla strada, causa di disagio. Bene, le ricerche dimostrano come l’aumentare del peso delle automobili accresce a propria volta la problematica. Forse sarebbe opportuno tenerle in considerazione». Rispetto alla tematica dell’obbligo del casco, la posizione di Peia analizza due versanti: da un lato l’aspetto personale, lui utilizza il casco anche in città ed è convinto della sua assoluta utilità, per quanto concerne la sicurezza personale, dall’altro un’analisi ad ampio raggio. «L’aumento della sicurezza passa per l’aumento della massa critica che pedala ed è testato, purtroppo, che l’obbligo del casco riduce l’utilizzo della bicicletta, assieme ai furti delle bici. Le scuse messe in campo per non utilizzarlo sono assurde e ridicole? Certo, non ho dubbi, ma resta un fatto e con i fatti bisogna fare i conti. In nessun paese il casco è obbligatorio per i ciclisti ed i paesi in cui lo era hanno fatto retromarcia sul tema». La non considerazione dei fatti, talvolta, è legata ad un’errata credenza, protratta nel tempo a cui si continua a dare voce: l’idea che chi utilizza la bici non sia “produttivo”, ovvero che con la bicicletta non ci si rechi al lavoro, che sia solamente un mezzo di svago: «Purtroppo è una voce insistente. A prescindere dal fatto che, anche fosse così, sarebbe comunque giusta un’adeguata tutela degli utenti più fragili, la realtà è ben diversa. Molte persone si recano al lavoro in bicicletta e altrettante lavorano attraverso la bicicletta: penso ai rider ed ai bike messenger, penso al bike to work che dovrebbe essere agevolato, invece non viene valorizzato».
Nella riforma del Codice della Strada si parla anche di metro e mezzo per il sorpasso ad un ciclista, ma solo ove la strada lo permetta, “una decisione non migliorativa per l’ampio pubblico di pedalatori”, ci sono norme più stringenti per chi usa il cellulare alla guida, “valide per chi ha meno di 21 punti sulla patente”, e norme che vanno ad incidere su chi si mette alla guida con un elevato tasso alcolemico oppure avendo fatto uso di sostanze stupefacenti: «Si tratta di misure condivisibili che, però, agiscono sempre dal lato punitivo e non educativo, invece deve essere la cultura la via per cambiare le cose. Spesso ci rechiamo nelle scuole a parlare di sicurezza ed i giovani percepiscono perfettamente l’importanza di ciò che si dice, ascoltano attenti. Sono i genitori, talvolta, a non comprendere: a protestare per delimitatori di velocità o chicane davanti alle scuole per limitare la velocità. Provvedimenti diretti a tutelare i loro stessi figli».
Qui Peia riflette qualche istante, poi porta un esempio personale che lancia una luce diversa sulla tematica: «Ho tre figli: due intorno ai trentacinque anni, uno intorno ai venticinque. Mentre i primi, allo scoccare della maggiore età, hanno subito ricercato la patente e quindi l’auto, il terzo no, il terzo ha aspettato sei anni. Forse non nelle leggi, ma nella mentalità delle persone qualcosa sta davvero cambiando».
Foto in apertura: Tornanti/CC
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