In Strada Luigi Carlo Farini 15, a Parma, varcato l’ingresso di Olivier, gli occhi si appoggiano istintivamente ad un telo, sul muro. Si tratta, evidentemente, della pubblicità di una nota marca di jeans, a colpirci, oltre alla dimensione del manifesto, però, sono, soprattutto, delle minuscole goccioline di vernice bianca, ormai essiccata che scorgiamo chiaramente e che restituiscono l’idea di qualcosa di stropicciato, talvolta dimenticato, su cui il tempo è passato, a tratti, in maniera inclemente. Carlo Alberto Caruso ci fornisce presto i dettagli di quella sensazione: il telo è l’originale di una vecchia pubblicità Levi’s, risalente agli anni quaranta del novecento e nei locali di Olivier è arrivato portato da un signore, un cliente, che lavorava per Fiorucci. Lo teneva in soffitta e quasi non ne ricordava l’esistenza: la vernice, invece, deriva dai giorni in cui gli imbianchini l’hanno utilizzato per proteggere l’arredamento di un sottoscala durante la tinteggiatura. Fino a che non è stato donato a Olivier e su quella parete, dopo tanti anni, è tornato alla sua prima funzione: molti visitatori ne restano colpiti, cercano Carlo e Alessandro, chiedono informazioni e loro iniziano a raccontare la sua storia, dando particolare valore al fatto che si tratti di un regalo. Altre volte, le domande riguardano una scarpa, esposta in bacheca, sopra una mensola. Si tratta di una Red Wing, una calzatura nata nel 1905, nel Minnesota, negli Stati Uniti d’America, e strettamente legata a varie tipologie di mestieri, in quanto ideata originariamente proprio per questi: parliamo di minatori, postini, lavoratori dei campi, delle fattorie. Solo successivamente sono state ideate due linee, di cui una per l’uso comune, quotidiano. Quella che vediamo noi appartiene ad un lotto numerato, giunto in Italia qualche anno fa, venduto quasi tutto, tranne quell’unico esemplare che, oggi, resta come ricordo, come souvenir. C’è chi la vorrebbe acquistare, ma la risposta di Carlo è sempre la stessa: «No, è troppo bella. Resta qui».

In fondo, in questi pochi minuti di conoscenza, Caruso ci ha narrato delle storie, nulla di più e nulla di meno. Ci dirà poco dopo che è questo il tratto caratterizzante del suo lavoro, nonostante Olivier sia, dal 1999, anno della sua nascita, un negozio di abbigliamento: «Dietro a ogni capo c’è una storia lunga, certe volte molto lunga, e a noi piace raccontarla. A non tutti piace e a non tutti interessa, bisogna spiegare perché lo si fa e non stancarsi di ripeterlo, anche quando sembra di non essere compresi». Il motivo ha a che fare con l’affettività che riguarda le persone ma anche gli oggetti con cui vengono in contatto: la concezione corrente è, spiega Caruso, che un capo d’abbigliamento o una scarpa si acquistino, si utilizzino, per un tempo sempre più breve, e poi si gettino via, in realtà può esserci di più, in quanto tutto ciò che «si porta addosso» fa parte, in un modo o nell’altro, del percorso di ciascuno di noi, invecchia assieme a chi lo veste. «L’immagine che utilizzo io è molto semplice: pensate di aprire un armadio e di trovare quella maglietta, quella camicia, quella felpa o quella scarpa di dieci anni prima. A quel punto si liberano una serie di reminiscenze. Così facendo non si segue la moda, si è “fuori stile”, forse, perché si cerca un proprio stile». L’inizio, quello del 1999, è stato dato da Alessandro, in un altro punto della città, Carlo è subentrato nel 2015 e, nel frattempo, Olivier si è spostato in una zona più centrale di Parma; una vetrina anziché due, ma tutta la vita che pullula attorno. Il nome, in realtà, nasce quasi per caso, in quanto l’unica cosa decisa era che dovesse essere un nome inglese. Alessandro è sempre stato un appassionato di cricket e ricordava il nome di uno dei suoi giocatori preferiti di sempre che si chiamava proprio così, proprio Olivier. L’arredamento interno, invece, è stato conseguenza di una scelta ben precisa.

«La traccia di base è minimalista, ovvero poche mensole, poche cose, bianco, pulito, ma il lavoro occupa una fetta importante delle nostre giornate e, mentre lavoriamo, cresciamo, allora il negozio doveva crescere con noi, invecchiare al nostro stesso tempo, arricchendosi via via di tutto ciò che, nel frattempo, ha significato qualcosa: per esempio quel telo, quella pubblicità o quella vecchia scarpa». Dal 1999, tra l’altro, sono davvero variate moltissime cose, sia dentro che fuori, nella società: in quel momento, erano i vestiti, l’abbigliamento la forma principale di svago, il regalo che ci si concedeva per staccare dalla quotidianità, oggi, invece, il tempo libero si è popolato di molte altre possibilità e priorità, per cui anche questo mestiere è diventato più complesso. Carlo Alberto Caruso trova in questa sfumatura il principale punto di contatto tra il suo mondo e la bicicletta: «Dove c’è fatica, non si può restare se non si trova anche una passione, un motivo. Se ci si pensa bene, perché scalare una montagna in bici, col fiatone, sudando come matti e col fiato che se ne va chissà dove? Il motivo è quella cosa che ci prende e che, in mancanza di altre parole, chiamiamo passione. Il mio lavoro è diventato molto difficile, non avrei altri motivi per continuare a sceglierlo ogni giorno, se non fosse per quello che provo nei suoi confronti. Simile a ciò che sentivo quando ho iniziato a lavorare con mio padre, alla fine dell’università». Carlo non è di Parma, bensì della Bassa e quando racconta del modo di essere dei parmensi lo fa con disincanto, dapprima scherzando su una presunta rivalità, «sono “fighetti”, non si fanno sfuggire nulla», e, successivamente, andando a pescare nelle ragioni più profonde di quelle caratteristiche: «Parma è un piccolo gioiello. Una piccola città in cui tutti si conoscono, c’è e c’è sempre stata bella cultura, bei parchi: la gente ci tiene a preservare questa bellezza, quindi è attenta, se ne prende cura e non si lascia scappare nulla». A chi vuole conoscere meglio i suoi dintorni, Carlo suggerisce il classico giro che lui stesso fa in pausa pranzo, in tutto quarantatrè, quarantaquattro, chilometri, andata e ritorno, partendo da via Farini, diretti verso la salita di Barbiano: un’ascesa delicata, piacevole, che permette una vista di raro pregio e che conduce anche al Castello di Torrechiara.

Ma Olivier e le biciclette, per qualche motivo, sono intrecciati a doppio filo: Carlo e Alessandro sono da sempre pedalatori e il giovedì pomeriggio, quando il negozio è chiuso, spesso si allontanano dal centro e vanno all’avventura. «Piano, piano, qualche nostro amico si è unito a noi, finchè non abbiamo pensato che doveva essere un’occasione aperta a tutti, fino a chiamarle “Oliver Social Ride”: delle uscite assieme, per far gruppo, per farsi compagnia e, magari, fermarsi a bere una birra, senza guardare i chilometraggi, i watt e la velocità». Quel gruppo è presto diventato di dieci, venti, trenta, fino a quaranta persone, che chiedono, si informano e aspettano il giovedì per quelle ore di svago, magari indossano la maglietta o la felpa ideata per omaggiare il momento, il cui ricavato è stato destinato ad una associazione a favore della ricerca sulla SLA. Carlo e Alessandro si posizionano uno davanti e l’altro dietro il piccolo plotone che si va formando, cercano di tenerlo unito, compatto e, di tanto in tanto, provano a istruire chi non è così abituato ad uscire in bici. Spesso sono piccole indicazioni che, però, si rivelano fondamentali, talvolta sconfiggono vecchie abitudini che si pensava non sarebbero mai cambiate: «Parlo di un amico che non ha mai indossato il casco in bicicletta e mi ha cercato per partecipare a queste ride. L’ho avvertito: senza casco, non puoi. Credetemi, è andato ad acquistarlo il giorno stesso e non l’ha più tolto, gesto per cui anche sua moglie ci ringrazia. Cose come queste succedono e per noi fanno la differenza, come quando vediamo che l’essere in gruppo rende tutti più attenti, quasi a proteggere anche la persona che si ha accanto». Qualcuno arriva anche da lontano, da Cremona, dal Veneto, altri, invece, fanno ritorno: in sella, oppure in negozio. Si fermano a leggere qualche libro, qualche rivista, appoggiate sul bancone o in vetrina, e da lì nasce una conversazione.

Parma è anche città di fiere, vi arrivano, quindi, anche persone dall’esterno e spesso passano in via Farini, si affacciano da Olivier, magari non acquistano nulla, non cercano nulla, ma vogliono salutare, passare a vedere, nel tempo della loro assenza, quante cose sono cambiate e quante sono rimaste le stesse: «Non sono visite casuali, si capisce molto bene da un particolare: spesso si ricordano dettagli di conversazioni avute mesi o anni prima. Ti chiedono di quell’idea, di quel progetto, di quella preoccupazione che avevi oppure riprendono fatti che avevi narrato e che molti avrebbero dimenticato nell’insieme di tante parole. Fa piacere perché restituisce la sensazione di essere ascoltati». A quelle fiere, a Parma o altrove, partecipano spesso anche Alessandro e Carlo, alla ricerca di qualche capo nuovo, di qualche novità che, pur inserendosi nella linea della continuità, della storicità, possa essere in armonia e ben figurare: «Soprattutto in periodi difficili, bisogna saper scegliere, selezionare, senza lasciarsi prendere dalla foga, per il bene dell’attività. Bene, la cosa che provo tutt’oggi per questo mestiere, spesso, mi rende difficile questa razionalità. Ciò che ti emoziona si vede sempre, quando mostri, parli, racconti, per quanto tu possa trattenerti».

Dopo un quarto di secolo di storia e di racconti, ricordi, aneddoti, Olivier, quando guarda avanti, al futuro, non cerca molto, non desidera grandi cose: ciò che spera è, in realtà, collegato a quella voglia di stare assieme che contraddistingue la sua evoluzione: «Sì, vorremmo venissero a trovarci ancora più persone. Non è tanto un discorso economico, sebbene un lavoro sia fatto anche di questo, piuttosto è una questione di comunità. Più siamo, più bello è». Non serve dire altro. Sarebbe futile, il quadro è completo.