Ogni volta che Paolo Mei prepara la valigia e parte per raccontare una nuova corsa, si ricorda delle parole del suo collega Stefano Bertolotti: «Stefano mi ha sempre detto che, in fondo, la nostra è una piccola missione. Per vedere gli eventi che presentiamo le persone magari prendono un permesso dal lavoro o spostano i loro impegni. Qualcuno viene a vederci per evadere da un momento difficile o per staccare la spina dalle difficoltà. Abbiamo il dovere di restituire serenità, leggerezza, di farli divertire. Volendo potrei essere talmente tecnico da stufare tutti. Non avrebbe alcun senso. Noi siamo lì per loro. Lo speaker non deve mai porsi al centro, al centro c’è la storia che racconti, ci sono le persone che ti ascoltano. Tu sei un tramite. Se vuoi essere al centro dell’attenzione forse hai sbagliato qualcosa». Come in ogni missione conta tutto, anche il più piccolo gesto. Se hai la consapevolezza di essere lì, sul palco, per gli altri, sai che ogni attenzione é importante: «In questo Giro d’Italia, una sera mi ha scritto Filippo Ganna. Era la sera prima di una cronometro. Mi ha chiesto se fosse possibile far trasmettere due canzoni prima della sua partenza: parliamo di Engeltje e Kind Van De Duivel di Jebroer. Un gesto davvero piccolo ma importante. Che ne sappiamo? Magari un pezzetto di quella vittoria viene anche da quella musica, ci pensi? Magari una sensazione positiva viene da quelle note. Sono stato felice». E mentre parla degli atleti, Paolo Mei restituisce tutto il senso di gratitudine per un lavoro che è, in realtà, una passione.
«Sono un uomo fortunato, sono un appassionato di ciclismo che vive della sua passione. Certo c’è la tenacia, c’è la determinazione e la professionalità ma c’è anche tanta fortuna. Fare ciò che ti piace è una delle più grandi fortune che possano capitarti. Sono arrivato per caso a questo lavoro, un incidente nel 2002 ha bloccato la mia carriera da atleta. Amo alla follia andare in bicicletta. Sono appena tornato da un giro di sei ore in montagna, in gravel. C’è un raro benessere in bicicletta. All’inizio parlare con un microfono in mano era poco più di un gioco, come cantare, poi le circostanze della vita mi hanno portato qui. Il mio passato da atleta mi consente di vivere gli atleti stessi con una intensità particolare, li capisco, li capisco molto bene. Con alcuni ho un rapporto da amico, con altri da fratello, per alcuni sono il fratello maggiore che consiglia, altri con i loro piccoli gesti mi hanno reso un uomo felice». Il pensiero va al Giro d’Italia del 2011 e a Michele Scarponi: «All’ultima tappa, gli sono andato vicino e gli ho detto scherzando: “Bravo eh. Neanche un cappellino mi regali, grazie”. Io stavo scherzando, lui si tolse la maglietta e me la regalò. Andò in conferenza stampa in canottiera. Capisci cosa significhi questo a livello umano? Parliamo della costruzione di un rapporto umano che passa attraverso tante delicatezze. Per esempio io chiedo sempre ai ragazzi se se la sentono di rispondere alle mie domande sul palco. Mi sembra giusto, mi sembra un gesto di rispetto verso di loro».
Il lavoro di Paolo Mei è basato sul contatto umano, il pubblico è il suo universo: «Di base sono un intrattenitore più che un giornalista. A me interessa prendere il pubblico per mano, tenerlo quasi in ostaggio, catturarlo e accompagnarlo per tutta la durata della presentazione. Per fare questo mi sono inventato un modo tutto mio di svolgere la professione. Non ho modelli, non li ho mai avuti. Non avrei mai pensato di fare questo lavoro e, come ho iniziato a farlo, ho provato a colorarlo di una personale interpretazione. All’inizio presento sempre l’evento in maniera allegra. La musica giusta aiuta tantissimo, è un vestito cucito addosso all’evento. Poi cerco di interagire con gli spettatori, cerco di capire cosa desiderano vedere. Cerco di portarli con me». Per fare questo c’è un ingrediente essenziale: «Il pubblico, per seguirti, deve fidarsi di te e per fidarsi di te deve capire che sei competente, che conosci quello che stai raccontando. Se si fida poi ti segue. Se si fida puoi prenderlo per mano». Quella particolare intesa resta addosso a chi racconta, sotto forma di sensazione e talvolta commozione: «Ogni lavoro impone un bilancio. Io lo faccio in ogni momento della giornata, mi interrogo e mi chiedo se e dove sbaglio. Certe volte come sali sul palco ti accorgi che il pubblico non interagisce. Il pubblico ha un carattere esattamente come le persone. Certe volte il pubblico è timido, certe volte estroverso. Forse questo è anche il bello ma tu comunque ci pensi, provi e riprovi. Ci sono istanti bellissimi che non ti scordi più, quando il pubblico diventa parte di te, quando il pubblico si sente forte. Se ripenso alla tappa Cosenza-Matera del 2011 o alla tappa di Feltre dello scorso anno ho ancora i brividi. Quell’entusiasmo ti resta appiccicato addosso. Quell’entusiasmo fa parte di te».